mercoledì 26 ottobre 2016

Dell'antica arte veneziana di naufragare in mare aperto.

(continua dalla puntata precedente)

Deciso che quel relitto abbandonato sarebbe presto diventato la mia barca, restava da individuare a chi appartenesse. Sicuramente non si trattava di nessuno dei nostri vicini di capanna perché lo avrei saputo. Infatti, gli stabilimenti balneari dei grandi alberghi sul lungomare del Lido, dal Des Bains sino all’Excelsior, si stendevano per alcuni chilometri lungo tutta la parte centrale dell’isola, dove la sabbia era dorata e la spiaggia più larga, costavano una follia e costringevano le famiglie a mettersi assieme anche a gruppi di quattro o cinque per prendere a noleggio per tutta la stagione le loro capanne: delle casupole in legno dove non solo ti potevi cambiare, ma si poteva perfino pranzare su un tavolino e fare il pisolino del dopo pranzo sulla brandina sotto il tendone. Queste capanne erano un po’ come i palchi alla Fenice, che si trasmettevano di generazione in generazione e di conseguenza i nostri vicini di spiaggia erano sempre gli stessi da anni, di cui ormai sapevo vita, morte e miracoli ed ero cresciuto assieme ai loro figli. Dunque se qualcuno di loro avesse posseduto una barca, ne sarei stato a conoscenza. Mi informai in giro su chi potesse essere il proprietario di quel povero relitto e dopo qualche giorno, grazie ad una mancia e uno spritz al chioschetto fuori dalla spiaggia, ebbi la giusta dritta da un bagnino. 

La spiaggia degli Alberoni, dove non c'erano i servizi e le capanne
dei grandi alberghi di lusso, ma ci si stava benone (1970)

La barca apparteneva ad una benestante studentessa veneziana che stava in una capanna in prima fila alle Quattro fontane e che due estati prima l' aveva ricevuta in dono come regalo per la maturità. La fanciulla, del tutto ignara delle faccende di mare, non appena aveva realizzato dopo i primi entusiasmi quante cure (e fatiche) la barca richiedesse, aveva deciso di disinteressarsi di quel costoso giocattolo, abbandonandolo al suo destino. Così i bagnini trascinavano quel povero scafo in magazzino d’inverno e all'inizio dell’estate lo riportavano fuori sulla riva del mare, dove rimaneva abbandonato a scolorirsi al sole da giugno a settembre. Individuata la proprietaria, che tra l’altro conoscevo di vista per via di alcuni amici comuni, restava da capire come avrei potuto racimolare il capitale necessario. Avevo ancora qualche soldino derivante dai miei compensi da orchestrale di bordo e dalla successiva svendita della Fender Stratocaster acquistata da soli due mesi e impostami come prova d’amore da Donatella (che le ragazze prima ti dicono “o me o la chitarra” e quando tu incautamente scegli loro e svendi tutto, poi due mesi dopo ti lasciano per un banale puntiglio) ma non era una gran cifra e non potevo certo chiedere soldi a mia madre che già faceva i salti mortali per far quadrare i conti di casa e mandare due figli all'università (e meno male che ogni tanto riusciva a vendere qualcuno dei suoi dipinti).


Il fattore "Effe" ovvero mio fratello Franco,
generoso finanziatore, non di sua sponte, della mia barca.

Per fortuna, c’era il fattore “Effe”, cioè mio fratello Franco che, malgrado fosse già a Padova a studiare invano ingegneria (che era la via più tortuosa per diventare avvocati, come poi avvenne), era sempre considerato il piccolino di casa ed era il cocco di diverse zie e madrine di battesimo che lo riempivano di regali e soldi. Lui poi, per qualche strano giro degli antichi cromosomi genovesi di famiglia riattivatisi al momento della sua nascita a Rapallo, invece di essere un veneziano cordiale, munifico e disponibile come il fratello maggiore, crescendo era diventato un classico ligure taciturno, dal carattere spigoloso e di braccino corto, che risparmiava come una formichina e metteva via tutto. Non potevo coinvolgerlo nell'acquisto perché difficilmente uno che non sapeva nuotare (con grande vergogna di nostro padre ufficiale di Marina) si sarebbe appassionato all'idea di essere comproprietario di una barca, ma questo non era un problema perché sapevo dove far leva sui suoi interessi. Infatti, dal momento che all'epoca il giovinetto era un donnaiolo piuttosto desiderato dalle fanciulle veneziane e pure intraprendente di suo (almeno un paio volte mi capitò l'imbarazzo di scoprire che la ragazza con la quale mi era appena messo era già stata con lui), bastò ricordargli come fossi al corrente di una scappatella che la sua ragazza dell’epoca era bene continuasse ad ignorare per avere subito un prestito di duecentomila lire a tasso agevolato. 

In tal modo, rimpinguato il mio capitale anche grazie ad alcune fortunate serate di poker, di quelle dove cambiando un paio di carte ti entra qualsiasi gioco e in cinque mani consecutive fai due full e tre scale mentre gli altri non vanno oltre alla doppia coppia e vendendo a buon prezzo anche una decina di long-playing che non sentivo più (anche perché due erano di mio fratello) ad un amico che li collezionava aggiungendoci anche, per fare cifra tonda, un maglioncino di cachemire (sempre di mio fratello che tanto, uno in più o uno in meno, neanche se ne accorgeva), contattai finalmente la proprietaria.  Dopo aver avuto il suo consenso di massima all'ipotesi di vendermi la sua barca (che nemmeno si ricordava di possedere) le diedi appuntamento per la mattina seguente alla Pagoda del Des Bains (era il bar sulla spiaggia dell'albergo) per prendere uno spritz assieme e iniziare la trattativa. Dopo averle offerto l'aperitivo, non ricordando purtroppo che prezzi praticassero alla Pagoda, speculando bassamente sul suo disinteresse totale per la barca e sulla sua profonda ignoranza delle quotazioni di mercato dell’usato nautico (e non solo...), le proposi di primo acchito un prezzo francamente ridicolo per liberarla da quel relitto, sicuro che lo avrebbe rifiutato con sdegno per dare il via alla contrattazione vera e propria, ma lei, la pollastra, accettò entusiasta al primo colpo. Prima che ci ripensasse, le misi subito i soldi in mano e, dopo aver chiamato un amico complice che attendeva nei pressi (che a lui lo spritz l'avrei offerto dopo, in un baretto più economico) per aiutarmi a trascinare la barca nei miei confini territoriali, con una sorridente stretta di mano alla pollastra suggellai l’evidente circonvenzione d'incapace da me perpetrata.


La laguna andando verso il Lio Piccolo. Un mondo sconfinato di barene,
canali e isolotti abbandonati da esplorare sotto lo sguardo dei gabbiani.


La sera stessa ricevetti una telefonata di tono sostenuto da sua madre che cercava di farmi recedere dall'acquisto, lamentando la sproporzione tra il valore del bene (sia pure malandato) e quanto da me corrisposto. Ma, forte della mia fresca preparazione legale e adducendo la scusa indecentemente falsa che ormai avevo comperato un motore fuoribordo, esponendomi finanziariamente in tal misura da rendere impossibile un ripensamento, tenni duro e la barca fu mia. Ci sarebbero stati anche un paio di carabottini in legno da posare sul pavimento della barca e i remi in dotazione che avrei dovuto ritirare la mattina seguente nella capanna della ragazza, ma qualcosa mi disse che non era il caso di presentarsi e che me li potevo comperare per conto mio. 

Avuto in prestito da un amico di famiglia, con la (molto) generica promessa di un futuro acquisto, un malandato motore Selva da ben 2,5 cavalli di potenza, armato di silicone, di nastro adesivo e di vari attrezzi da carpenteria, mi misi volonterosamente all'opera per turare la falla in chiglia e per togliere dall'intercapedine dello scafo con un ferro piegato ad uncino il puzzolente cadavere di un grosso granchio porro che si infilato dentro chissà quando, anche se temo non di sua volontà. La puzza di pesce marcio non l' abbandonò mai più e rimase una curiosa caratteristica del natante, assieme ad una certa dose di sfiga che, superstizioso come ogni uomo di mare, non potei che attribuire a quel macabro rinvenimento e a qualche oscura maledizione lanciata dal granchio porro al momento del trapasso.


La lunga e perigliosa navigazione che mi attendeva per portare la barca risanata
dal Lido al cantiere. Il passaggio per la bocca di porto di San Nicolò
con le sue correnti per una barca come la mia era come quello di Capo Horn

Dopo qualche ora di lavoro di carpenteria navale sotto il sole rovente e in mezzo ad una platea di bambini e bagnanti incuriositi, la mia barca era pronta per prendere il mare aperto affrontando la circumnavigazione del faro di S.Nicolò per entrare nelle bocche di porto e, dopo essere sfilato davanti a Punta Sabbioni e aver superato il bacàn di Treporti e i bastioni cinquecenteschi del forte di Sant’Andrea, raggiungere le più tranquille acque del bacino di San Piero di Castello, dove avrebbe trovato posto nel cantiere che avevo già prenotato dal giorno prima. La barca venne subito ribattezzata Tellina in ricordo di uno dei dragamine della squadriglia che comandava mio padre e come tentativo sleale di riconquistare Donatella, che normalmente chiamavo Tella.
Questa che segue è la cronaca, tratta dal giornale di bordo, del primo viaggio della Tellina sotto il mio comando.

Aggancio il motore al pianale di poppa. Tiro con energia il cordino due, tre, quattro volte. Fa: “ put...put...” ma poi non succede niente e si spegne subito. Quando già lo sconforto stava prendendo il sopravvento, al quinto tentativo, dopo qualche colpetto di tosse e una fumèra acre e biancastra, i due cavalli (e mezzo) cominciano finalmente a cantare, tra gli “Hurrà !" degli amici convenuti dalle capanne vicine per il varo, ma soprattutto per il piccolo rinfresco con tramezzini e prosecco da me signorilmente offerto.


Il faro di San Nicolò che avrei dovuto doppiare per entrare nel
 canale tra il Lido e Punta Sabbioni che porta al bacino di San Marco


Si parte! Punto la prua verso il mare luccicante e mentre il motore pulsa e gorgoglia la Tellina inizia a prendere velocità. In breve, la spiaggia sembra lontanissima e i bagnanti sono ormai dei puntini colorati. Ho superato da tempo l'ultima flottiglia di mosconi e pedalò e sono in mare aperto, tanto che ora riesco a vedere in lontananza i murazzi di Malamocco alla mia destra e il faro di San Nicolò alla mia sinistra. Dentro di me immagino le sensazioni di Cristoforo Colombo, Magellano, Amerigo Vespucci, Alvise Da Mosto e tutti i colleghi navigatori che mi avevano preceduto e avverto un lungo brivido freddo. Poi un altro. E un altro ancora... ma questa volta all'altezza dei piedi! Non ho ancora esperienza marinaresca, ma so che non dovrebbe essere così.

Guardo cosa succede e mi accorgo con sgomento che ho i piedi a mollo. La Tellina imbarca acqua da qualche parte. Sto affondando! Mi chiedo dove possa essere la falla, visto che quella sulla chiglia anche all'ultimo controllo prima della partenza appariva saldata a dovere e l'acqua sembra venire su da poppa, ma poi realizzo che lo scoprirlo non mi salverebbe dall'affondamento, dunque, invece di rimuginare sterilmente sul problema sarebbe meglio provare a reagire per salvare se possibile la barca e assolutamente il sottoscritto.   

Il Forte di Sant'Andrea che sbarra l'ingresso al bacino di San Marco

Calcolo quanto tempo abbia a disposizione per ritornare alla base prima che il mare inghiotta la Tellina e il suo comandante, come prescrive la più nobile tradizione marinara. Ritengo, a quel ritmo di allagamento, di non poter affondare prima di un dieci/quindici minuti e decido che forse ce la posso fare. Inverto la rotta e metto il motore a tutta forza (si fa per dire). Intanto, mentre tengo la barra del motore con una mano, con l’altra mi prodigo in disperati colpi di sessola, per buttare quanta più acqua possibile fuori bordo. La spiaggia, e con lei la salvezza, pareva non avvicinarsi mai. I minuti trascorrono lenti. Raggiungo la linea dei pedalò, ma ho l’acqua quasi al bordo e navigo ormai da alcuni minuti in una situazione di gelido bidet. Proseguo ancora con il motore che fa sempre più fatica a spingere la Tellina appesantita dall'acqua. Ormai i parabordi e i salvagenti mi galleggiano vicini e se non fossero legati con una sagola, sarebbero finiti da tempo nella mia scia. Però ora distinguo finalmente  la mia capanna e il gruppetto di amici che stanno ancora onorando il mio rinfresco. Mancheranno meno di cento metri alla salvezza...

Dai! Un ultimo sforzo... resisti ancora un paio minuti e ce la facciamo...” me lo ripeto per farmi coraggio, ma la corsa della Tellina finisce malinconicamente a venti metri dalla riva in un gorgogliare di schiuma. Sul posto del naufragio, oltre ai relitti delle dotazioni di bordo, si stende quasi subito la macchia oleosa della miscela che fuoriesce dal motore mentre sulla superficie dell'acqua galleggiano malinconiche anche la bandierina tricolore di poppa e quella con il leone di San Marco che mi era stata regalata poco prima come portafortuna, ma evidentemente doveva essere tarocca. Nuoto e mi accorgo che si tocca. Sono finito sulla prima secca, quella che con la marea si raggiunge a piedi dalla riva. 

Poi arrivano i soccorsi e anche gli amici divertiti fino alle lacrime per aver assistito alla scena del naufragio tra una tartina e un calice di Prosecco. Appena rimetto piede sulla spiaggia mi accolgono con uno scrosciante applauso e il coro di "Britannia rules the waves" modificata in "Carletto rules the waves" per l'occasione. La Tellina venne subito recuperata e tirata in secco. Non così la mia reputazione marinara perché appena esamino la barca con un amico per capire dove fosse la falla scopro subito l’evidente cretinata che avevo compiuto. Per la fretta di prendere il mare, dopo averlo tolto per estrarre i resti maleodoranti del granchio, avevo dimenticato di rimettere a posto il tappo di scarico che chiude la sentina sul fondo dello scafo! Roba che a quando ti capita a Venezia sarebbe meglio cambiare città prima che si diano di gomito per strada vedendoti passare. Infatti il mio amico corse subito con le lacrime agli occhi per il ridere a raccontarlo in giro e così da quel giorno, ogni volta che si stappava una bottiglia di vino in compagnia mi veniva subito mostrato il tappo chiedendo se per caso mi fosse servito, che me lo avrebbero tenuto da parte...

(continua...)

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