giovedì 6 aprile 2023

iI destino cinico e baro dei fotografi e i misteri di una notte di mezzo secolo fa.

Il destino cinico e baro dei fotografi fa sì che, giunti quasi alla fine del cammin di nostra vita, oltre alle tante immagini di viaggi, mogli, figli ed altri accadimenti, ci si ritrovi con un intero archivio pieno di ritratti di amiche e amici, che soprattutto per i loro volti ripresi ancora negli anni lontani della gioventù, diventano un patrimonio di ricordi divertenti o malinconie struggenti.

Però di foto tue di quegli anni, dato che stavi dall'altra parte del mirino della fotocamera, non c'è nemmeno l'ombra, a meno di non avere avuto qualche morosa o compagno/a di classe che ti avesse ritratto. Ora, la tecnologia fa sì che, non avendo modo di farti l'autoritratto come un pittore, puoi almeno rimediare in parte con i selfie, che allora non esistevano, ma che però ormai ti rimandano impietosamente l'immagine di un viso vecchio e solcato di rughe (chissà se alla LIDL vendono quello specchio dove dentro c'è uno che invecchia per te?), dunque è meglio evitare perché la depressione è sempre in agguato dietro l'angolo.

Oddio...qualche foto per ricordarmi come fossi a quindici anni grazie a mio padre e anche a vent'anni, grazie alla mia ragazza di allora ce l'ho anche, ma sono talmente poche che ormai le conosco a memoria e non mi emozionano più. Tranne una: questa qui, che quando la vedo mi ripropone sempre il quesito insoluto di come fossero andate le cose in quella sera di oltre cinquant'anni fa.

La foto, restaurata a suo tempo con Photoshop in quanto completamente ingiallita e assai malandata, mi ritrae (sono quello con le orecchie a sventola seduto in fondo) alla cena di fine liceo, subito dopo la maturità con alcuni compagni di classe della III A del Marco Foscarini, ma non solo per questo la sua storia mi è molto cara.

La cena si era svolta al ristorante Antico Martini, nel campiello del Teatro La Fenice. Non ho mai saputo chi fosse stato tra noi il figlio di... papà, con presumibile casa a Cortina, che aveva scelto quel locale invece della solita pizzeria da studenti e, del resto, nella nostra classe almeno quattro o cinque "cagoni" sospettabili, tra figli di primari, antiquari, grandi avvocati e gioiellieri c'erano di sicuro ed altrettante di "cagone", se non di più, ce n'erano nell'altra sezione femminile, che quella sera cenava assieme a noi.

Infatti, quello scelto per la nostra cena era un ristorante piuttosto pretenzioso (pare ci avessero cenato anche Margaret d'Inghilterra, Paola di Liegi e altre teste coronate) e quindi la serata, con pesce pregiato e carta dei vini adeguata (mica il fritto misto di anguelle e calamari e la caraffa da litro di prosecco alla spina) era costosetta assai, tanto che ricordo con un senso di colpa l'espressione corrucciata di mia madre nel darmi la mia quota.

All'epoca, lei viveva solo con la sua pensione di reversibilità da vedova di guerra (mio padre era caduto in missione e anche se era un Capitano di Vascello le pensioni di quegli anni erano quel che erano) e faceva salti mortali per far vivere dignitosamente i suoi due figli. Ricordo che nell'occasione mi disse anche "Ti pago la cena solo perché sei stato promosso e non voglio che mio figlio faccia la figura con gli altri di quello che rimane a casa. Consideralo il tuo regalo per la maturità". E fu di parola, perché non mi arrivò altro se non un paio di libri.

Nella foto vi compare la Pia per la quale a quel tempo avevo una discreta cotta anche se, ovviamente, lei non mi filava nemmeno di striscio perché era una ripetente e aveva 19 anni mentre io all'epoca, essendo avanti di un anno, ero ancora un diciassettenne implume. Poi ci sono altri due miei compagni di classe: Francesco (che oggi purtroppo non c'è più) e Alberto, gran mediano di spinta della nostra squadra di calcio (fate conto una specie di Nicolò Barella dai mille polmoni), oltre al nostro bravissimo docente di matematica, che pochi anni dopo, già all'università, avrei incontrato nuovamente militando nel Manifesto, diventandone amico.




La foto mi diverte anche perché vi compaio con un'espressione felicemente ebbra (come del resto lascia intendere il numero di vuoti di bottiglia sul tavolo) e ho ancora addosso la giacca che poi andrà misteriosamente persa nel corso di quella notte della quale ancora oggi non ricordo molto, se non che ero uscito dal ristorante tutto allegro e ridanciano con altri cinque o sei amici e amiche di pari livello etilico. Ricordo ancora (ma sempre più vagamente) Enrico che cavalcava i leoncini di marmo in piazza San Marco come John Wayne in "Soldati a cavallo" cantando canzoni irripetibili attorno alle due di notte e anche di aver scavalcato la ringhiera per andare a prendere i pesci rossi nella vasca dei giardini napoleonici perché c'era qualcuna tra noi che li voleva a tutti i costi e io con le ragazze sono sempre stato molto gentile (forse è stato lì che mi sono tolto la giacca).

Più tardi (molto più) abbiamo accompagnato a casa la Patrizia che sul portone ci ha baciato tutti più volte appassionatamente anche perché, essendo un po' bruttina e in cerca di un moroso, forse aveva sfruttato l'occasione ed Enrico, che era un igienista maniaco, era inorridito per un po' di lingua in bocca del tutto inattesa . La cosa per fortuna ebbe termine, prima che potesse degenerare, con sua madre che le urlava dal balcone se era quella l'ora di tornare (appena Patrizia chiuse il portone, pensando che non lo notassimo, Enrico si mise a sputazzare nel fazzoletto fingendo di starnutire).

Alla fine, ricordo ancora di aver visto Andrea intento a vomitare nella fontanella di Campo San Zaccaria e che poi voleva a tutti i costi suonare il campanello della vicina caserma dei Carabinieri per chiedere se potevano dargli qualcosa per rimettere a posto lo stomaco. Sarebbe andata bene anche una camomilla...

Dopo tutto ciò, con un salto spazio temporale che ancora oggi mi rimane pieno di interrogativi (l'oltraggio urinario di gruppo sul muro della casa del Foscolo in Campo delle gatte era della settimana prima, dunque non faceva parte degli eventi di quella notte), mi sono ritrovato da solo all'alba seduto su una panchina sulla fondamenta delle Zitelle alla Giudecca ad attendere il primo vaporetto per tornare a casa. Come, quando e perché fossi finito lì, rimane un altro mistero insoluto, oltre a quello della giacca.
Che notti magiche si vivevano a quell'età!

sabato 11 febbraio 2023

Quelli che quando la moglie non trova il codice PUK del suo telefonino bloccato, si sentono FUCK (ed)


Questa mattina, dovendo fare una chiamata e non trovandolo dove lo appoggio di solito, ho temuto per una decina di minuti di aver lasciato il cellulare sul tavolo del bar dove avevo fatto colazione. Poi, per fortuna, l'ho ritrovato in casa perché togliendomi il giaccone mi era caduto dalla tasca senza che me ne accorgessi ed era finito sul tappeto del salotto, finendo nascosto quasi sotto una sedia.

Così, avendo un figlio molto tecnologico e prodigo di consigli a volte inascoltati (da sua madre), ne ho approfittato e, come mi aveva suggerito tempo fa, ho installato da Google Play la app che mi consente di rintracciare (farlo suonare o bloccarlo) con il geolocalizzatore il telefono su Google Maps in caso di smarrimento o furto, sempre che sia ancora acceso. Al termine dell'installazione, con una certa emozione ho provato a vedere se funzionava. Ho chiesto all'assistente vocale sul computer "Hey Google...where is my phone?" e dopo una breve ricerca mi ha risposto "In your hand..." mostrandomi la mappa di casa. Mi rimane il dubbio se "idiot" fosse sottinteso o meno.

Tuttavia, per la serie “Per fortuna in casa c’è sempre chi mi può consolare” le vicende del telefonino dell’elfa sono molto più movimentate, così come quelle delle sue password. Infatti io, che devo gestire almeno una trentina di password per vari siti e servizi a cui mi sono abbonato nel tempo, le ho tutte diverse per ovvi motivi di sicurezza e comunque le conservo e aggiorno quando le cambio all’interno di un file criptato conservato all’interno del cloud.

L’elfa (mia moglie la chiamiamo così perché tira con l'arco come Legolas e per il caratterino), invece, ha un approccio più naif e frizzantino alla gestione delle password, perché dopo mille raccomandazioni mie e di Gianmarco affinché non usasse sempre la stessa per tutto, perché se te la craccano poi è subito Caporetto, si è rassegnata ad averne almeno quattro o cinque, però, volendo farci vedere quanto fosse brava e giudiziosa, le ha scelte alfanumeriche, di almeno dieci caratteri, senza alcun riferimento a date di nascita o cose intuibili e pure con l’inserimento di qualche carattere speciale.

Il problema è che lei, da Superwoman qual è pensa che le basti memorizzarle, ma poi all’atto pratico si confonde “abbestia” e così ogni tanto mi sento chiedere al telefono “Senti…devo aprire il sito “pinco pallino” ma non mi ricordo più la password, non è che per caso la sai tu?” costringendomi a replicare “Amore, ti ricordo che noi ci siamo sposati in regime di separazione dei beni, dunque temo anche delle password… buona fortuna!”.



Oppure, come l’altra sera, quando mi ha chiesto se poteva usare il mio computer per fare un bonifico e dopo sei tentativi sempre più nervosi per accedere alla sua banca e dopo aver accusato me, il mio computer, Kaspersky, il cane e quei craponi tedeschi mangia crauti della banca di ostacolarla deliberatamente e di complottare contro di lei, alla fine si è ricordata che il carattere speciale inserito nella password che le veniva chiesta e della quale era “assolutamente sicura, perché l’ho messa mille volte e le è sempre andata bene, non capisco perché oggi questa fottuta banca mi dica che non è valida”, non era il punto esclamativo, ma la virgola.

Tornando alle movimentate vicende del suo telefonino mia moglie Morena spesso e volentieri entra in modalità “grande allarme” perché lo cerca in borsetta, nelle tasche del cappotto, dentro la macchina, non lo trova e quando me lo fa chiamare per sentire eventualmente lo squillo, il cellulare non risponde. Ma non mi preoccupo più di tanto perché so che probabilmente l’elfa si è dimenticata il telefonino nel suo ufficio o dai suoi genitori, dunque, il poverello è quasi sempre defunto, perché lei lo mette in carica secondo i bioritmi o solo quando non si è dimenticata il carica batteria da qualche parte e riesce perfino a ricordare con precisione dove possa averlo abbandonato.

Evento non sempre possibile giacché l'ultima volta che mi ha strillato angosciata "Mi sta morendo il telefono!" lei era al lavoro e lui giaceva abbandonato sul piatto della frutta in cucina in mezzo alle banane, tanto da indurmi a replicarle con un tono di voce grave adatto alla luttuosa circostanza: "Appena termina l’agonia ed è spirato avvisami via mail che mando un telegramma di condoglianze alla famiglia Xiaomi".

Poi, essendo di fondo un buonista che aiuta le elfe in difficoltà confidando nella loro capacità di redimersi, mi sono infilato il cappotto e dopo un piacevole e fresco chilometro di camminata, gliel'ho portato in ufficio (però almeno, mi ha riportato a casa in macchina e mi ha offerto pure un tramezzino e un bianchetto al bar cinese).

Qualche tempo fa, Morena mi ha chiamato verso le dieci con il cellulare di suo fratello e tutta agitata, perché il telefonino per riavviarsi le chiedeva il PIN che lei, da donna accorta, aveva sì scritto prudentemente su un foglietto in quanto era nuovo, ma però ora non riusciva a trovarlo nel caos della sua borsa e aveva solo quello della SIM del vecchio operatore, che lei ben lo sapeva che non era il caso di usare anche se, in base alla sua teoria del: "Quasi, quasi io ci provo… non si sa mai che funzioni lo stesso" ci aveva provato e ora le rimaneva solo un tentativo (che è come dire: lo so perfettamente che non bisogna toccare le vipere perché possono mordere.. per chi mi hai presa? Però ora mi serve alla svelta il siero antiofidico...")

Alla fine, dopo aver sudato freddo di fronte al suo: "Scendi in cucina da basso, la custodia della SIM nuova con il PIN mi pare che dovrebbe essere sotto la teiera bianca, altrimenti cercala sotto ... (e giù un elenco di quattro possibili location alternative)" ho trovato al primo colpo la confezione della SIM card nuova con il PIN proprio sotto alla teiera e gliel'ho detto, con un sospiro di sollievo.

Pochi attimi dopo aver chiuso la telefonata, il telefono ha suonato di nuovo e mi sono sentito gelare il sangue all'idea che fosse ancora lei per strillarmi "Ma che numero mi hai dato? Adesso il telefono si è bloccato!". Invece, era mio figlio che mi chiamava da Liverpool (mostrandomi in webcam una bellissima giornata di sole, lo dico con invidia) mentre era on the road per andare al lavoro.

Così, quando mi ha detto "Papà! Ma che voce strana che hai...va tutto bene?" gli ho spiegato che mi aveva terrorizzato perché temevo che mi stesse richiamando la mamma per dirmi che il PIN non andava bene e che ora mi sarebbe toccato cercare da qualche parte il suo codice PUK. E Gianmarco mi ha risposto: "Ti capisco... quando la mamma arriva al livello: Codice PUK allora tu sei giunto al livello Codice FUCK, nel senso che sei fottuto...".
Grande battuta, giuro che gliel'ho invidiata...

mercoledì 1 febbraio 2023

Quelli che vorrebbero pagare una sterlina e otto penny al Fisco Inglese, ma non ci riescono.


Per la serie: "Kafka è nato a Liverpool?" qualche settimana fa mio figlio Gianmarco, che vi risiede da due anni, era imbufalito perché la società specializzata nei servizi fiscali che, in convenzione con il Gruppo tedesco per cui lavora, si occupa anche della sua dichiarazione dei redditi, nel calcolo tra gli emolumenti di lavoro residui percepiti in Germania e quelli successivi in Inghilterra, aveva sbagliato qualcosina (una sterlina e una manciata di penny). Insomma: a little bullshit, as they say in England.

Infatti, appena rientrato a Liverpool dopo le vacanze natalizie ha trovato nella posta una lettera dell' HMRC (Her Majesty's Revenue and Customs) , ovvero l'Agenzia delle Entrate britannica, che gli intimava, con tono molto brusco e minacciando sanzioni severe, di pagare entro il 31 gennaio la somma stratosferica di una sterlina e otto penny, che a tanto ammontava il suo mancato pagamento dei tributi.

Roba che Carlo III e Camilla nel loro castello di Balmoral non ci avrebbero più dormito la notte e non perché uno dei due (a scelta di chi legge) avesse problemi alla prostata, ma quasi come se fosse stato annunciato un secondo libro di Harry. Inoltre, a Downing Street sarebbe mancato il gin, Liz Truss sarebbe stata richiamata a fare il Primo Ministro per salvare la sterlina e il PIL inglese avrebbe barcollato più di quanto non faccia ora per conto suo.

Che poi uno dice: "Vabbè, ma che ci vorrà mai per pagare una sterlina e otto penny al fisco inglese? La swinging England, tra Carnaby street, Twiggy e le Spice Girls è un paese così moderno e anticonformista, mica borbonico e burocratico come noi... pagare il fisco da loro sarà as easy as drinking a pint of beer, no? ".

Magari, visto che Liverpool è la patria dei Beatles, entri canticchiando "We can work it out" (la possiamo risolvere) nell'ufficio locale delle imposte, allunghi cinque pound all'impiegato allo sportello e gli dici " Hallo George!.. questo è quanto vi devo. Tenga tutto e con il resto si faccia una birretta al pub a nome mio... grazie e ... a sòreta!", che tanto lì non capiscono e magari George lo prende come un simpatico saluto messicano.

E invece no, perché per accedere al loro sito onde effettuare un pagamento devi compilare un modulo di richiesta lungo e complicatissimo dove, non esistendo lì la carta d'identità, oltre ai tanti dati anagrafici, sanitari (anche lo studio medico dove sei registrato e con quale numero), lavorativi etc. come prova ulteriore della tua identità ti chiedono un numero di patente di guida inglese o, in alternativa, nord-irlandese (a Belfast guidano in modo diverso?). Che, ovviamente, mio figlio, avendo una patente italiana, non possiede, così come non ha un passaporto britannico a garantire che lui è davvero lui e non un perditempo che passa per strada, in preda ad una perversione masochista di voler pagare il fisco britannico.

Al termine della compilazione e del "Ce l'ho... ce l'ho... mi manca...", se tutto è andato bene, riceverai un codice numerico che ti consentirà di passare allo step successivo e di pagare, sempre che poi non storcano il naso visto che lo farai tramite una banca tedesca, giacché loro hanno fatto la Brexit mica per niente, eh?.

Tuttavia, in mancanza di solo uno di questi dati, il sistema si blocca e non puoi più andare avanti, anche se tu in realtà vorresti solo pagare e dare loro dei soldi, mica rubarglieli.

In alternativa al formulario, in una logica "customer friendly", esiste un numero verde (ma con orari limitati solo al mattino) per parlare con un operatore, spiegargli il problema e ottenere quel fottu…famoso codice per pagare. Ma si tratta solo di un ottimo sistema per ascoltare per qualche ora l'equivalente inglese delle Quattro stagioni di Vivaldi, prima che ti possa rispondere qualcuno al centralino che non sia la donna delle pulizie perché nel frattempo l'orario per gli utenti è scaduto.

Qualche giorno fa mio figlio ha ricevuto una nuova lettera della HMRC che nel ricordargli ruvidamente l'ormai prossima scadenza del 31 gennaio per il pagamento della sterlina e otto penny dovuti, lo minacciava anche di comminargli una penale di mora di ben 5 penny se non avesse pagato nei termini. L’arresto da parte di Scotland Yard non era esplicito, ma si sentiva aleggiare nell’aria.

Alla fine, ormai "heavily incazzed", Gianmarco ha chiamato la società di servizi fiscali che provvede alla sua dichiarazione dicendogliene di ogni e intimando loro di provvedere all'istante e che non osassero dire che non era di loro competenza, che altrimenti erano guai. E deve averli spaventati in tal modo che dopo una mezzoretta e infinite scuse, gli hanno fatto avere il numero di codice per poter pagare quella fottuta sterlina con i suoi fottutissimi otto penny. Però gli hanno suggerito che per interrompere la mora, oltre a disporre il bonifico a saldo, era consigliabile che lui parlasse di persona con un operatore per avere conferma che i soldi fossero arrivati regolarmente e la procedura fosse chiusa.

Così, dopo un'altra telefonata interminabile all’HMRC di un ora e mezza trascorsa ad ascoltare musichette, alla fine e grazie al numero di codice che gli era stato fornito è riuscito a parlare con un… computer che gli ha risposto a tutte le FAQ (facendogli esclamare: Fuck!) del tutto inutili per risolvere il suo problema.

Alla fine, dopo altri tentativi sempre più furibondi, il sistema si è arreso e lo ha messo in contatto con un operatore in carne e ossa il quale, dopo aver controllato che il bonifico fosse arrivato, gli ha detto che doveva comunque parlare con un altro collega per chiudere la faccenda degli interessi di mora, nel caso ne fossero già scattati di nuovi.

Pertanto gli ha passato un collega che non sapeva nulla della sua pratica e ha voluto identificare a sua volta mio figlio (una goduria recitare lo spelling del nostro cognome) e fare tutti i controlli, anche perché a lui risultava che Gianmarco fosse ancora in Germania e quindi non capiva perché mai fosse in debito con il fisco di Sua Maestà e a questo punto, non riuscendo a sciogliere l’enigma, sicuramente superiore alle sue capacità di comprensione, per chiarire la cosa gli ha passato una terza impiegata che dalla pronuncia e dall’inglese approssimativo doveva essere indiana, perché parlava come Peter Sellers in Hollywood party.

Costei, dopo essersi fatta ridire per l’ennesima volta i dati di Gianmarco e averlo rintracciato sul computer di Sua Maestà ha iniziato a leggergli lentamente e con voce monotona tutte le cifre della sua ultima dichiarazione dei redditi (una ventina di voci) e quando mio figlio ha protestato chiedendole cosa ca**o (what the fuck) c’entrasse quel riepilogo perché lui voleva soltanto sapere da lei se c’erano ulteriori interessi di mora da pagare, lei, pensando non avesse capito qualcosa, ha iniziato inesorabile a rileggergli tutti i suoi dati daccapo.

A quel punto, Gianmarco ha compreso perché quando telefoni alla HMRC e prendi la linea una voce registrata ti inviti per prima cosa a comportarti educatamente con i dipendenti dell’ufficio. Ma lui, che è spumantino come sua mamma, non c’è proprio riuscito… e chissà se gli inglesi capiscono il significato di un “ma va in mona!” ringhiato prima di buttare giù il telefono.