sabato 4 novembre 2017

Della signora Luisa e dello stramaledetto sabato al supermercato.

Rivoglio la signora Luisa! Lo so che ha venduto da tempo “La Fromagerie” che, al di là del nome da negozio raffinato ed elitario, di quelli che puoi trovare in centro a Milano o Roma, in realtà era la modesta ma ben fornita botteguccia di alimentari a due passi da casa mia, che quando mi mancava qualcosa ed era tardi riuscivo a vedere dalla mia terrazza se era ancora aperta o aveva già tirato giù la saracinesca. E’ andata in pensione e ha chiuso ormai dieci anni fa e una volta che era in vena di confidenze mi ha raccontato di essere stufa, stanca e anche amareggiata. Infatti, il negozio languiva da tempo costretta com’era a lottare con il vicino supermercato Ca’ D’oro e in seguito con un nuovo discount aperto a cento metri da lei, che, oltre a tutto, stava su una strada trafficata e stretta tra le case, dove non si poteva parcheggiare e pure con un marciapiede dove passava un pedone alla volta. Adesso, dopo un negozio di musica che ha avuto vita brevissima, ha preso il suo posto un ufficio di amministrazione condomini dove dietro alla vetrina c’è pure un barboncino bianco che viene colto da una crisi isterica quando passo con il mio, che nemmeno se lo fila di striscio. Sarà pure vero che nella vita “panta rei” e bisogna farsene una ragione, ma nel cambio non ci abbiamo guadagnato.

Ogni tanto la signora Luisa la incontro per strada e siccome ho capito che abita più o meno dalle parti del mio dentista, se solo sapessi come fa di cognome mi piacerebbe suonarle il campanello non solo per salutarla ma con il sogno impossibile di vedere se, insistendo, magari mi riapre il negozio, anche solo per poco. Perché dalla Luisa, di prima mattina, ci trovavi il pane ancora caldo, croccante e di un profumo stupendo che con l’olio di frantoio e un pizzichino di sale poi ti ci leccavi i baffi e, comunque, da lei non dovevi sorbirti tutta la commedia dell’arte delle due Mirandoline del panificio dall’altra parte della strada, che prima di venderti mantovanine e rosette ti dispensano almeno un paio delle loro battute argute. Ma, soprattutto, dentro alle vetrinette del banco della Signora Luisa in mezzo alle confezioni di stracchino industriale, ai formaggini e alle banali sottilette che trovi dappertutto, ogni tanto vedevo apparire misteriosamente delle vere prelibatezze di nicchia, quelle degne davvero di una gastronomia di lusso e che mi sono sempre chiesto chi (a parte me) gliele acquistasse, visto che i pochi clienti che incontravo in negozio erano la vecchietta che per risparmiare comprava lo scartoccetto di spalla di prosciutto cotto e l’etto di Asiago, il tipo male in arnese che voleva la lattina di birra di buon mattino o il bambino che si prendeva la merendina andando a scuola. 

Invece lei, che talvolta mi diceva orgogliosa e con gli occhietti che brillavano furbizia “Ha visto cosa mi è arrivato?”, aveva delle meraviglie come lo Spretz, il formaggio puzzone di Moena, un gorgonzola artigianale da spalmare sul pane come una crema o lo straordinario pecorino siciliano con i granelli di pepe (che grattugiato sulla pasta era pura felicità…). Spesso vi trovavo il Bastardo e il Morlacco del Grappa, ma talvolta anche dei canestrati di pecora toscani e perfino il formaggio di fossa stagionato da mangiare con il miele di castagno. Perché la signora Luisa di formaggi ne capiva assai e quando non c’erano clienti alle volte ne discutevamo e magari mi faceva assaggiare qualche pezzetto dei nuovi arrivi che non conoscevo e spesso erano talmente buoni che alla fine me ne comperavo un paio di etti (così mia moglie, oltre a mangiarli di gusto, s’incazzava, che avremmo dovuto essere a dieta). Naturalmente la signora Luisa aveva anche i salumi, pure loro pochi ma buoni, e tra questi, oltre al Felino e a quello all’aglio di Schio, ricordo con malinconia la mortadella con i pistacchi e una buonissima coppa di testa, ma soprattutto le soppressate che periodicamente portava su dal paese suo marito che era un calabrese della costa jonica, come mi aveva tenuto subito a sottolineare, casomai avessi pensato che fosse dell’altro versante.

Costui era un omone olivastro con i capelli ricci, due baffoni neri da Stalin e un vocione baritonale, ed era curiosamente dissonante per stazza, carattere e portamento rispetto alla moglie, un donnino minuto quasi nascosto dietro al banco, con una vocina sottile e un fare garbato, che quando ti diceva con lo sguardo mortificato “Ho messo venti grammi di mortadella in più, lascio?” si vedeva che le dispiaceva davvero e fosse stato per lei ti avrebbe anche fatto omaggio di quella fettina colpevolmente in eccedenza. Lui, invece, se ne stava seduto come un patriarca su una sedia impagliata di quelle da osteria in un angolo del negozio, talvolta leggendo il giornale ma più spesso guardando la moglie lavorare e talvolta commentando, che se lo avessi fatto io con la mia, avendo tutti quei coltelli a portata di mano me ne sarei trovato uno piantato nello sterno in un amen. Una delle poche volte che avevo visto quell’uomo darsi da fare per la moglie era stato quando le aveva spaccato in due una forma di grana con il coltello in un colpo solo, facendomi una grande impressione per tanta forza bruta.

Così gli avevo fatto i complimentie dopo uno scambio di battute che mi aveva permesso di apprendere che lui quando era giù al paese era quello che scannava il maiale, era nata tra noi una certa cordialità, tanto che un pomeriggio entrando nel negozio, mentre la moglie era indaffarata a servire un altro paio di clienti mi aveva fatto cenno di avvicinarmi alla sua sedia e mi aveva bisbigliato con aria complice “Se vuole ho da darle il Viagra…” lasciandomi abbastanza interdetto, fino al momento di capire che si riferiva al “Viagra calabrese”, un vasetto di piccantissima crema di peperoncino che mi avrebbe venduto sottobanco. Da quel giorno, quell’uomo della costa jonica, diventò il mio fornitore di fiducia di ‘nduja (quella vera, fatta in casa) e di altre meraviglie gastronomiche della terra calabra come il capocollo, il caciocavallo silano e pure l’olio di frantoio di un suo cugino dalle parti di Lamezia.

Racconto tutto questo “amarcord” della signora Luisa e di suo marito della costa jonica, che immagino accoppasse il maiale a cazzotti, perché oggi è sabato e quindi mi è toccato fare lo “spingicarrello” al seguito dell’elfa (un po’ come il caddy che porta le mazze da golf a Tiger Woods) nel solito mega supermercato affollatissimo e come di consueto ho dovuto affrontare le schiere di rintronati che ti vengono sulle caviglie con il carrello pieno all’inverosimile o trascinando con noncuranza i loro cestini con le ruote, i maledetti che alla cassa gli mancano sempre quei dieci fottuti centesimi e iniziano a frugare in tutte le tasche o piantano una grana interminabile perché sul depliant il melone doveva essere in offerta e comunque vogliono pagare con i buoni mensa. E come dimenticare quelli che lasciano il carrello di traverso in mezzo alla corsia per andare chissà dove o hanno bambini iperattivi che toccano tutto e giocano a rincorrersi strillando come fossero al parco giochi. Ma ci sono anche quelli che fanno salotto mettendosi a chiacchierare con gli amici incontrati per caso e che se gli chiedi due o tre volte “Permesso…potrei passare?” nemmeno ti badano, tanto che ti monta l’istinto omicida di usare il tuo carrello come una boccia da bowling e fare strike.

Poi ci sono quelle che impiegano dieci minuti per decidere se prendere il latte Granarolo o il Soligo o il Latte Busche, come se da questa scelta dipendessero le sorti dell’umanità e quando finalmente ne prendono uno poi ci ripensano, tornano indietro e ne prendono un altro (Ooops! Questa è mia moglie, sarà meglio che non lo scriva…) e quelle che se ti lamenti che sei solo lì a spingere il carrello e ambiresti a mansioni più consone al tuo ruolo tipo scegliere anche tu qualcosa, allora ti mandano a pesare i sacchetti con la verdura “Le zucchine sono il numero 122 e il porro il 104, non ti sbagliare…” (sempre lei, sono recidivo…). Insomma, in questi ipermegasupermercati c’è davvero qualsiasi cosa tu possa desiderare, dalle patatine al Wasabi, ai lokum turchi alla rosa, dai cetrioli sottaceto rumeni, al camembert greco al latte di capra e fino al pesto genovese con il tofu (purtroppo esiste), ma non c’è nulla che mi attiri più di tanto e, comunque, qualsiasi cosa metta nel carrello lo faccio in automatico perché a casa l'ho finita o perché c’è l’offerta. E’ tutto impersonale, troppo sfacciatamente “entra, metti nel carrello, vai alla cassa, paga e poi fuori dalle balle …” . Alla fine ti senti solo un numero di scontrino, una delle migliaia di facce anonime di quel sabato e questo lo detesto. Mi mancano l’umanità nel rapporto con il cliente e magari le quattro chiacchiere al banco (quelle che faccio con il mio macellaio mentre mi taglia le bistecche) o lo scoprire di condividere una cultura del cibo, la curiosità che nasce dal sentirsi raccontare un prodotto che non conosci e dal poterlo provare, il piacere di sentirsi un cliente ormai conosciuto nei propri gusti che verrà seguito e consigliato per il meglio perché ci tengono a farti ritornare contento. 
Insomma… non si può riavere la signora Luisa? Magari solo al sabato...