sabato 12 aprile 2014

Dell'importanza di chiamarsi Kevin e delle sorprese della vita


La signora con la felpa rosso lacca che faceva a pugni con i pantaloni della tuta rosa confetto era seduta su una panchina di piazzetta Santa Barbara per godersi il primo sole primaverile confabulando con le amiche in modalità “gossip senza ritegno” quando entrò improvvisamente in modalità: “madre agitata ma con tendenza al madre molto agitata” alzandosi di colpo e iniziando a sbracciarsi strillando: “Keeeevin, Keeeeevin….” . Tutto questo mentre passavo nei suoi pressi per la passeggiata pomeridiana con il quattro zampe peloso e facendo ululare il bretone che probabilmente aveva percepito alcuni ultrasuoni fuori dalla portata dell’orecchio umano, ma non del suo. Non mi ci volle molto a capire che il destinatario degli strilli era un bambinotto rubizzo e florido dai capelli a spazzola, che stava giocando a calcio con altri indemoniati sullo spiazzo in cemento del campo da basket e che, dopo aver reclamato a gran voce un rigore inesistente, al momento di batterlo era ruzzolato incespicando goffamente sul pallone mettendosi subito a piagnucolare immagino più per la figuraccia che per essersi ammaccato.

Un rigore calciato da Kevin è appena atterrato nel nostro giardino destando perplessità
Lasciato trascorrere il tempo necessario alla madre per portare i primi soccorsi con l'acqua ossigenata, il cerottino al ginocchio sbucciato e l'asciugatura delle lacrime, guardai meglio l'infortunato mentre riprendeva il gioco come se nulla fosse a conferma che era stata tutta una scena. Era un torello in formato XXL con la maglietta del Milan e una specie di codino multicolore sulla nuca alla Roberto Baggio, senza dubbio opera di un barbiere da segnalare al Tribunale dei minori. Valutandolo anche da un punto di vista tecnico (gli interisti sono tradizionalmente molto esigenti) notai che portava troppo la palla dribblando chiunque in “stile oratorio” e che doveva sentirsi molto bravo perché nessun altro bambino riusciva a contrastarlo o a spostarlo dal pallone, ma purtroppo per lui questo accadeva solo per via del baricentro basso e dei suoi lombi precocemente massicci. Così tanto pieni di polpa da farmi immaginare che o la madre in tuta rosa lo ingozzava di farinacei come l’oca per il foie gras, oppure che il pargolone facesse parte di quella sventurata generazione di ragazzini in dieta intensiva di Cipster e merendine al grasso idrogenato durante l’intervallo scolastico, dunque condannati alle profonde malinconie dell’età puberale per via dei brufoli incontenibili.

Quello che m’incuriosì, però, era quel nome inatteso da bimbo yankee e agguerrito di “Mamma ho perso l’aereo” e che qui da noi, terra di santi, poeti e navigatori, avevo sempre immaginato potesse essere affibbiato unicamente al figlio tamarro di Jessica e Ivano (cfr. Viaggi di nozze, di e con C. Verdone, M.& V.Cecchi Gori Production, Italia, 1995). 


Invece, ora avevo un vero Kevin davanti agli occhi, in carne (molta) e ossa. Che poi, esaminandone lombrosianamente la madre, per quanto ne sapevo il ragazzino poteva benissimo anche chiamarsi Chevin, come avevo appreso quando mia moglie Morena insegnava economia e tecnica bancaria ai giovani ragionieri della Riviera del Brenta. La sera del sabato, infatti, una volta sotto le lenzuola e come condizione ineludibile per l’espletamento (forse) di alcune mie velleità coniugali, l'elfa mi rifilava da correggere i compiti di economia aziendale dei suoi allievi in quanto, occupandomi di metodologie manageriali, ero ritenuto persona sufficientemente informata dei fatti. In tal modo, segnando a matita blu quello che mi pareva un erroraccio e dopo averle detto inorridito “ Meno male che questa per te sarebbe la migliore della classe. Non sa neppure scrivere il proprio nome… sostiene di chiamarsi Gessica come se fosse uno stucco per muri. Immagino che di cognome faccia Ducotone” avevo scoperto che tanta gente impone ai figli nomi stranieri perché fa tanto fino, ma non li sa neppure scrivere decentemente.

Non avete idea, infatti, di quante versioni di Samantha o Deborah abbia visto comparire sui compiti in classe di mia moglie, con quella “H” che andava e veniva irrequieta e secondo l’estro dei genitori. Per non parlare poi di tutti quei Cristian o Cristhian dei maschietti, che già è discutibile affibbiare una professione di fede ad un figlio che non può opporsi, impedendogli magari un domani di essere buddista o altro senza imbarazzo, ma almeno, se proprio lo volete fare, il nome scriveteglielo bene, che diamine! Basta informarsi. Che poi i nomi bisognerebbe anche poterli abbinare ai cognomi senza che gridino vendetta al cielo, che se uno si chiama Kevin e poi ha un cognome da profonda campagna veneta che non c’entra nulla, l’effetto tragicomico è garantito.

Per fortuna non siamo i soli a non aver dimestichezza con i nomi stranieri 

Comunque, il dubbio che Kevin potesse essere uno dei tanti ragazzini stranieri del quartiere svanì immediatamente appena la mamma riuscì ad avvicinare nuovamente il figlio vicino alla fontanella della piazza per un rapido scappellotto. “Keeeevin! Varda come ti te gà combinà, (termine irriferibile)… e poi no sta a bèvar l’acqua fredda che ti xe tuto suà e te vien la bronchite, porco de quel can!”. 
Quest’ultima frase indusse il bretone a protestare vivamente abbaiando.

Dunque, la madre di Kevin era di queste parti, sicuramente "nostrana" come si dice della soppressa trevigiana e con un accento vagamente di terraferma che ad un altezzoso veneziano del centro storico qual sono suonava assai “country” e localizzabile in un triangolo compreso tra le vicine località agresti di Robegano, Scorzè e Martellago. Inoltre, m’incuriosiva quella sua teoria medica originale secondo la quale un sorso di acqua fresca da una fontanella in una giornata primaverile avrebbe potuto scatenare una bronchite da ricovero. Io negli anni della scuola avevo giocato freneticamente a pallone con ogni tempo e in ogni stagione, rientrando a casa fradicio di sudore anche in pieno inverno e non mi ero beccato mai neppure un raffreddore, che in tempi di interrogazioni di greco e compiti di matematica mi avrebbe fatto assai comodo. Se solo avessi saputo che sarebbe bastato bere un sorso da una fontanella…

Anche il bretone mi guardò ridacchiando maliziosamente di quei due tamarri umani, poi, dopo avermi fatto capire che nel frattempo aveva annusato ogni centimetro quadrato di erba e che, francamente, avrebbe gradito alzare la gamba per marcare il territorio altrove, mi trascinò via impedendomi ogni altra considerazione malevola su Kevin e la sua mamma.

Due sere dopo, mentre ero in pizzeria con la mia elfa che nel frattempo era uscita in giardino a fumare, il tavolo da sei alle mie spalle venne occupato dall'ennesima famigliola berciante per il ben noto effetto euforizzante delle pizzerie, che fa sì che tutti parlino e ridano con un volume di voce superiore alla soglia del dolore acustico e all'emissione delle casse audio sul soffitto che pompano musica tamarra senza tregua. Essendo concentrato a sfogliare le diciotto pagine di pizze presenti sul menù rilegato in cuoio come un'enciclica papale ed essendo arrivato appena al capitolo terzo intitolato “pizze bianche” ed in attesa di affrontare quello ponderoso delle pizze “ai segni zodiacali” per vedere che cosa fosse riservato alla bilancia, sul momento non ci feci troppo caso fino a quando non mi giunse il suono di uno scappellotto seguito da un “Keeevin! Basta magnar i grissini, che poi no ti magni più la pizza…”.

Mi voltai eccitato. Erano proprio la madre e il figlio incontrati ai giardinetti, questa volta in compagnia del padre e di un'altra coppia abbastanza anonima, ma con una bimba che sembrava Heidi sponsorizzata dalla Lelly Kelly. La madre di Kevin smessa la tuta ora indossava una camicetta nera con disegno astratto a brillantini a forma di gabbiano in volo che per via del seno prosperoso e delle prossime festività poteva essere benissimo anche una colomba pasquale. In compenso ora mostrava sulle braccia scoperte un dettaglio che mi era sfuggito: un tatuaggio a bracciale intrecciato, in stile Hunziker o Canalis, ma sicuramente eseguito da un tatuatore in equilibrio precario sullo sgabello. Osservandola meglio notai che aveva anche un secondo tatuaggio tribale all'attaccatura del collo che però assomigliava ad un codice a barre del  CONAD, o forse lo era davvero. 

Kevin invece era infagottato dentro ad una maglietta rossoblu extralarge tipo giocatore di rugby con la scritta “Wild travel – one way ticket 2012” di cui mi sfuggiva il senso ma non che provenisse da una bancarella e che potesse far riferimento alla profezia dei Maya ormai trascorsa. Ascoltando cosa si dicessero capii che le due coppie si stavano raccontando delle vacanze estive e così ebbi modo di apprendere che la famiglia di Kevin era stata in giro sulla Costa Brava, località che venne quindi depennata all'istante dalle mie future mete di viaggio. Nel racconto veniva citata ripetutamente anche una gita a Valenza, ma immagino si trattasse di Valencia e non della ridente cittadina piemontese sulla riva destra del Po. Avendo sentito a suo tempo un collega insospettabile citare tra le delizie assaggiate durante un viaggio in Grecia la salsa "Suzuki" aspettai che i miei vicini giungessero alle forche caudine della descrizione dei piatti tipici spagnoli, ma purtroppo la paella mangiata nell'occasione venne pronunciata correttamente e senza l'attesa aggiunta della "d" togliendomi una parte del divertimento.

Ormai in estasi per il diletto che mi arrecava lo spettacolo di tanta truzzaggine, cercai di capire cosa stessero ordinando. Kevin prese, come sospettavo, una Maradona, cioè una di quelle pizze “omnicomprensive” che consentono al pizzaiolo di smaltire perfino i sottaceti e la Nutella e ai bimbi deperiti di mettere su qualche chilo solo con lo sguardo. La madre invece si orientò sulla margherita con la mozzarella di bufala d.o.c. “della campagna”, certamente migliore di quelle della città. Il padre di Kevin, un signore minuto con gli occhialetti e un principio di stempiatura invece non mi dava particolari soddisfazioni, anzi, mi deludeva abbastanza perché invece di chiamarsi Ridge o Denis come immaginavo era un normalissimo Roberto e aveva ordinato la mia stessa pizza.

Non vedevo l’ora che l'elfa Morena tornasse al tavolo per condividere con lei le mie malignità, ma quando finalmente rientrò in sala la vidi illuminarsi all'improvviso di un sorriso smagliante e puntare dritta al tavolo alle mie spalle. Quello di Kevin…

Quella che il padre di Kevin lavorava per lei a mia insaputa
 (come ormai è di moda qui in Italia)
Architetto carissimo, come sta? Ma che piacere vederla… come mai da queste parti?” e subito dopo una serie di festose presentazioni incrociate, mentre cercavo di farmi piccino al tavolo perché nessuno si ricordasse di me, arrivò inesorabile la frase che temevo: “Lei non conosce mio marito, vero? Carlo…vieni che ti presento l’architetto…" (omissis per la privacy).

Morale della favola: dopo una votazione a maggioranza con un solo voto contrario (indovinate di chi?) si decise di unire i tavoli per conoscerci meglio e dopo aver appreso che l’architetto in questione aveva firmato diversi lavori di mia moglie compreso il bar in centro dove andavo a prendere lo spritz, mi ritrovai seduto tra Kevin e la sua mamma a cercare inutilmente di trovare un argomento di conversazione che non fosse il Milan o George Clooney intanto che Morena discuteva di arredamenti e di possibili futuri progetti da sviluppare.

Alla fine della serata, mentre rientravamo a casa in macchina, dopo aver ammirato nel parcheggio della pizzeria il mastodontico SUV metallizzato del padre di Kevin, dissi all’elfa: “Senti… voglio almeno una soddisfazione morale. Dimmi che sono leghisti… lo sono vero? Ti prego... dimmi di sì!
I suoi occhi però saettarono un lampo di sdegno verso i miei. “Ma scherzi o è l'età che inizia a farsi sentire? Alle ultime elezioni comunali lui era in lista con il tuo partito. Non ti ricordi che gli hai dato anche la preferenza?”.

Non ci sono più i Kevin di una volta…