giovedì 19 aprile 2018

Del mio Latinorum di una volta e del Busillis


Ieri sera mentre ero sull'autobus diretto a Spinea, detta “Spinella”, anonimo paesone della cintura di Mestre senza nulla di particolare da segnalare che non sia l’aver dato i natali alla Federica Pellegrini, l’ospitare lo studio di fisioterapia che si occupa delle mie cervicali ed avere una gelateria che propone il gusto pera e zenzero, davvero squisito, ascoltavo le due giovani ragazzotte in età da ginnasio sedute vicino a me che si scambiavano commenti e ansie su un compito di latino che non ho capito se l’avessero già svolto o fosse ancora da fare. Ad ogni modo, una di queste aveva riferito all'altra che Google Translator offriva la possibilità di tradurre dall'italiano al latino e viceversa. 

Quest’ultima cosa, che non sapevo, mi ha incuriosito e così, tornato a casa, ho aperto il programma, e, dopo aver verificato che tra le varie lingue ci fosse davvero il latino, vi ho digitato: “Questa è una prova di traduzione dall'italiano in latino, che avendola avuta a disposizione ai miei tempi, mi avrebbe fatto comodo” ottenendone in cambio questa traduzione: “Ex Italica in Latinam hic est temptare translatione, quae erat plena disponibilitate habens meam in die me esse commoda” che mi ha indotto subito a sperare che la poveretta non seguisse il consiglio dell’amica traducendo il suo prossimo compito con Google. 

Visto che siamo in argomento e che annovero tra i miei amici di Facebook diverse persone che lo insegnano o ne hanno ancora grande dimestichezza, vi dirò che il mio ondivago sentimento verso il latino è nato fin dai tempi delle medie e curiosamente con la matematica, perché avendo consegnato in bianco uno dei periodici compiti, la professoressa di allora me lo aveva vergato con la scritta in penna a biro rossa “Tabula rasa in qua nihil scriptum est” dandomi però “1” invece dello "zero" che mi aspettavo perché almeno mi ero preso il disturbo di intestare il foglio e di trascrivere le equazioni da risolvere. Da lì in poi e a partire dal ginnasio, quando l’insegnamento delle lingue antiche aveva iniziato a farsi serio, mentre con il greco si era accesa da subito un’incomunicabilità reciproca immediata e protratta nel tempo tanto che oggi dei brani dell’Ifigenia in Aulide imparati a memoria ricordo più facilmente la versione goliardica “Ifigonia” con le vergini dai candidi manti e quel che ne seguiva, con il latino ho vissuto tutta una montagna russa di sentimenti. A volte lo amavo e a volte lo detestavo, provando nei suoi confronti gli stessi sentimenti di Catullo: Odi et amo. Qua re id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior

Alcuni autori (Cesare in primis, Lucrezio e a volte Cicerone) mi divertivo a tradurli, altri, come Seneca o Tacito erano difficili e spesso i loro testi erano dei pipponi moralistici di una noia mortale (non a caso il giovane imperatore di cui erano precettori spesso li faceva assassinare). 

Comunque, negli anni del liceo il latino, anche se zoppicavo nello studio e quindi nei voti, non è mai stato un vero problema e, ad ogni modo, consentendomi di intuire a grandi linee il senso di quel che avrei dovuto tradurre, mi ha risparmiato situazioni imbarazzanti come quella con la severa professoressa di Modena, commissaria esterna per la maturità, che non appena mi ebbe di fronte per sostenere l’orale, mi disse che non vedeva l’ora di conoscere il brillante stratega che nella versione dal greco aveva attribuito a Pericle il consiglio agli ateniesi di incendiare le navi della propria flotta per disorientare gli spartani che assediavano la città. La mia tesi che Pericle facesse il doppio gioco al soldo degli spartani, non fu accolta.





Diciamo comunque che chiudendo il periodo scolastico, mentre con il greco c’era stato un “addio e a mai più rivederci…” con il latino avevo deciso sostanzialmente una sospensione del giudizio. Una cosa come quel “non bene, ma neppure male” che caratterizzava le mie prove scritte. Non ero certo al livello di quel parroco di campagna di secoli fa che ad un suo fedele che gli chiedeva di spiegargli che volesse dire "In diebus illis" aveva risposto che le Indie era chiaro cosa fossero, ma il Busillis restava un mistero. Però non ero nemmeno così lontano da tradurre senza vocabolario, come faccio ora. Aurea mediocritas, insomma. 

La svolta è arrivata inattesa durante l’università, quando, per una evidente nemesi storica o il karma (fate voi) essendo quello sull’Esegesi delle fonti del diritto penale uno dei pochi esami con un 30/30 sul mio libretto, mi ero imbarcato in una tesi sul diritto penale veneto del 1500, non considerando che così avrei dovuto consultare testi giuridici dell’epoca e le cinquecentine con i verbali dei processi delle Quarantie Criminali o dei Siori della Notte al Criminal, ovvero i principali Tribunali Penali della Serenissima. Quest'ultimo, era una sorta di tribunale speciale, formato da un collegio di sei nobili estratti a sorte e a rotazione, incappucciati per non essere poi riconosciuti da chi cercasse vendetta. Aveva competenza esclusiva per tutti i reati compiuti nottetempo (delitti, furti ma anche adulteri, gioco d'azzardo, ubriachezza molesta e perfino bestemmie) e dunque punibili con sentenza immediata avvalendosi nei casi più gravi, visto che si riunivano nella “Sala del tormento” del Palazzo Ducale, anche di qualche tratto di corda da infliggere ai fermati per ottenere ampie e circostanziate confessioni. Ovviamente, i testi erano scritti in un latino già abbondantemente corrotto dal tempo rispetto a quello classico che avevo studiato e i verbali dei tribunali erano redatti a mano dai cancellieri, con grafie di secoli fa (che li rendevano affascinanti) e spesso in modo abbreviato. Però, ora, finalmente, sapevo cosa farmene del latino e a cosa mi servisse e quei testi che consultavo all'Archivio di Stato o alla Marciana avevano una caratteristica unica: raccontavano fatti veri, accaduti in luoghi che conoscevo e che potevo perfino immaginare nel loro svolgersi. Insomma, era quasi come leggere un Gazzettino di almeno quattro secoli prima.





Per esempio, c’era la vicenda del fruttivendolo di campo Sant’Aponal che rientrato a casa prima del previsto aveva sorpreso la moglie in compagnia di tale Bartolomeo Bognòlo da Treporti, caleghèr (calzolaio) ma senza fissa dimora. Peccato che i due amanti sorpresi dal marito, anziché fuggire avessero provato ad uccidere a coltellate (senza poi riuscirci) il poveraccio e quindi i testimoni raccontano gli strilli dell’uomo affacciato alla finestra in calle che chiedeva aiuto ai passanti gridando “I me còpa! I me còpa…”. Ma c’era anche la vicenda tragica e comica allo stesso tempo del capitano di una Cocca veneziana (una tipica nave mercantile) sospettato di aver venduto in Dalmazia una parte del carico di olio e vino affidatogli in Grecia affermando invece di averlo perso in mare. Il poveraccio, detenuto ai piombi in attesa di giudizio si rifiutava di mangiare digrignando i denti e quindi al tribunale veniva chiesto il permesso di nutrirlo a forza spaccandogli i denti con un martello onde potergli infilare un imbuto in bocca. Pare che poi il poveretto alla sola vista del martello avesse cambiato idea, confessando anche i nomi dei complici. Ma ovviamente c’erano anche tutte le storie dei conventi di clausura sparsi tra le varie isole della laguna, che ogni tanto, a seguito di qualche soffiata, venivano chiusi in quanto in realtà erano dei veri postriboli frequentatissimi da chi se lo poteva permettere (suore e frati erano abbastanza venali) e la Serenissima chiudeva anche un occhio sulla scarsa vocazione delle monache ma siccome ogni tanto gli orfanotrofi, come quello della Pietà, si riempivano all'eccesso di neonati abbandonati in culla o ci scappava la rissa con il morto, chiudeva baracca e burattini e qualcuno finiva ai Piombi. C’era tra le tante che ho letto anche la vicenda, riportata anche nella mia tesi, di un magistrato che mascheratosi con una bauta aveva fatto irruzione con alcuni sbirri alle quattro di mattina dentro l’osteria dell’Antica Rizza in Calle larga San Marco (praticamente dove abitavo io) sorprendendo molte persone tra le quali alcuni preti che giocavano a Bassetta e Faraone, un gioco d’azzardo proibito. Tutti vennero condannati dal giudice alla multa di sei ducati d’argento oltre ad alcuni “baradori” di professione che vennero banditi dal territorio della Repubblica assieme ad un tale che all'apparire delle guardie aveva bestemmiato più volte. 

Mi fermo qui, altrimenti divento più prolisso e noioso di Seneca e comunque, casomai a qualcuno fosse venuta l’idea per i propri figli, sappiate che non faccio ripetizioni private di latino. Tanto gli piacerà dopo il liceo…

venerdì 6 aprile 2018

Delle cene di fine liceo di una volta e delle giacche misteriosamente smarrite



Ieri sera ho finito di restaurare con Photoshop questa foto, completamente ingiallita e assai malandata, che mi ritrae alla cena di fine liceo, subito dopo la maturità e vi racconto la sua storia perché mi è molto cara. La cena si era svolta al ristorante Antico Martini, nel campiello del Teatro La Fenice. Non ho mai saputo chi fosse stato tra noi il figlio di... papà, con presumibile casa a Cortina, che aveva scelto quel locale invece della solita pizzeria da studenti e, del resto, nella nostra classe almeno quattro o cinque "cagoni" sospettabili, tra figli di primari, antiquari, grandi avvocati e gioiellieri c'erano di sicuro ed altrettante di "cagone", se non di più, ce n'erano nell'altra sezione femminile, che quella sera cenava assieme a noi. Infatti, quello scelto per la nostra cena era un ristorante piuttosto pretenzioso (pare ci avessero cenato anche Margaret d'Inghilterra e altre teste coronate) e quindi la serata, con pesce pregiato e carta dei vini adeguata (mica il fritto misto di anguelle e calamari e la caraffa da litro di prosecco alla spina) era costosetta assai, tanto che ricordo con un senso di colpa l'espressione corrucciata di mia madre nel darmi la mia quota. All'epoca, lei viveva solo con la sua pensione di reversibilità da vedova di guerra (mio padre era caduto in missione e anche se era un Capitano di Vascello le pensioni di quegli anni erano quel che erano) e faceva salti mortali per far vivere dignitosamente i suoi due figli. Ricordo che nell'occasione mi disse anche "Ti pago la cena solo perché sei stato promosso e non voglio che mio figlio faccia la figura con gli altri di quello che rimane a casa. Consideralo il tuo regalo per la maturità". E fu di parola, perché non mi arrivò altro se non un paio di libri.

Nella foto vi compare la Pia per la quale a quel tempo avevo una discreta cotta anche se, ovviamente, lei non mi filava nemmeno di striscio perché era una ripetente e aveva 19 anni mentre io all'epoca, essendo avanti di un anno, ero ancora un diciassettenne implume. Poi ci sono Francesco (che oggi purtroppo non c'è più) e Alberto, altri due miei compagni di classe, oltre al nostro bravissimo docente di matematica, che pochi anni dopo avrei incontrato nuovamente militando nel Manifesto, diventandone amico.


Sono quello con le orecchie a sventola, a capo tavola.


La foto mi diverte anche perché vi compaio con un'espressione felicemente ebbra (come del resto lascia intendere il numero di vuoti di bottiglia sul tavolo) e ho ancora addosso la giacca, che poi andrà misteriosamente persa nel corso di quella notte della quale ancora oggi non ricordo molto, se non che ero uscito dal ristorante tutto allegro e ridanciano con altri cinque o sei amici e amiche di pari livello etilico. Ricordo ancora (ma sempre più vagamente) Enrico che cavalcava i leoncini di marmo in piazza San Marco come John Wayne in "Soldati a cavallo" cantando canzoni irripetibili attorno alle due di notte e anche di aver scavalcato la ringhiera per andare a prendere i pesci rossi nella vasca dei giardini napoleonici perché c'era qualcuna tra noi che li voleva a tutti i costi e io con le ragazze sono sempre stato molto gentile (forse è lì che ho tolto la giacca, abbandonandola su una panchina).

Più tardi (molto più) abbiamo accompagnato a casa la Patrizia che sul portone ci ha baciato tutti più volte e appassionatamente (anche perché essendo una vera cozza, forse aveva sfruttato l'occasione), con sua madre che le urlava dal balcone se era quella l'ora di tornare e alla fine mi sono ritrovato da solo all'alba seduto su una panchina sulla fondamenta delle Zitelle alla Giudecca ad attendere il primo vaporetto per tornare a casa. Come e perché fossi finito lì, è un altro mistero insoluto. Che notti magiche si vivevano a quell'età!