domenica 21 agosto 2016

Della Dea Eupalla e del campionato che inizia



Ho letto sul blog di un'amica il commento di una ragazza che, a proposito della passione calcistica, si chiede: "Non capirò mai cosa succede ai maschietti quando vedono rotolare un pallone". 
Già...bella domanda che mi sono sentito porre più volte e alla quale, facendo parte della categoria "maschietti", provo a rispondere, anche a me stesso. Perché mi sono innamorato del calcio? Vediamo.... credo, intanto, che del calcio non ci si possa innamorare se non avendolo giocato fin da bambini e dunque comprendo le donne che non lo capiscono e anche quei maschietti che ora fanno i sussiegosi "che a me il calcio fa schifo", ma è solo perché non accettano ancora oggi che se se non li sceglievamo in squadra voleva dire che erano brocchi inguardabili, dunque è meglio che si siano dati al tennis o al tamburello. Dubito comunque che ci si possa appassionare al calcio dalla poltrona o a freddo. Ad ogni modo, il calcio a quell'età affratella e rende amici, non divide e i ricordi delle partite vinte o perse con i tuoi compagni di scuola e dei tuoi primi gol te li porti dietro tutta la vita. Poi c'entra il ruolo del padre, naturalmente, perché di solito è lui a buttarti per primo un pallone tra i piedini da bimbo (oppure il nonno o uno zio). Il mio era tifoso dell'Inter (come suo padre, tra i primissimi soci vitalizi del nuovo club con i colori del cielo, della notte e delle stelle) e mi ha contagiato, così come io ho contagiato mio figlio. Lascio stare i condizionamenti sociali (i baùscia dell'Inter e i casciavìd del Milan) e al ruolo che ci porterebbero lontano e mi limito ad osservare che nel mio caso ha svolto un ruolo decisivo anche il contesto favorevole.

Io ho iniziato a darci dentro con le partite verso i sette anni, durante le vacanze estive in Val di Fassa perché la casa che affittavamo era vicina al campetto parrocchiale. Giocavo malissimo e quando i capitani delle squadre sceglievano i giocatori dopo il pari o dispari, io ero sempre l'ultima scelta e giocavo all'ala, come si usava fare con gli infortunati perché non facessero danni (riuscivo a farli ugualmente). In seguito, visto che la città si presta benissimo, il duro apprendistato calcistico nei campielli veneziani, trasformò il brocchetto che ero in un vero campioncino, capace di segnare goal a grappoli fino alla fine del liceo (anno di grazia 1966). Dopo il liceo, of course, le donne...mi sciupavano troppo per essere competitivo, però durante l'università ho trovato perfino il tempo di giocare in terza categoria (maluccio, perché non mi allenavo e tiravo tardi di notte).


ma quale goal! era alta due metri...

Per le nostre furibonde partite del doposcuola sceglievamo campielli di poco transito e controllabili in caso di arrivo del Cheba (il temutissimo vigile veneziano, gran sequestratore di palloni...il cui sinistro nome si riferiva alla gabbia di ferro anticamente issata sul campanile di S.Marco dove erano lasciati a morire di fame i malfattori.). In caso di avvistamento del vigile la tattica era quella di operare un lancio a seguire in direzione del giocatore più lontano (che aveva il compito di porre in salvo il prezioso pallone) e di effettuare un contemporaneo e velocissimo squaglio in tutte le direzioni per disorientare l’inseguitore. Una volta però, tutto preso dall’ansia di svicolare via, dimenticai il loden messo per terra a far da palo, e dovetti andare di pomeriggio a ritirarlo, con mia madre che pagò la multa e mi tolse la polvere a suon di scappellotti. La commistione di calcio e scappellotti in quegli anni era parecchio intensa, sia perché rientravo sempre con la canottiera fradicia di sudore (e la mamma prorompeva nella solita minaccia: ”Se ti ammali questa volta vai in ospedale!” ) sia perché i duri impatti sui masegni di pietra d'Istria producevano ampi squarci, oltre che nelle mie ginocchia, anche nelle braghe.

Il campo dedicato al calcio del doposcuola era solitamente quello di San Francesco della Vigna, che si apriva di fronte ad una gran chiesa seicentesca sulla cui marmorea facciata manine ignote avevano tracciato con la vernice rossa una porta quasi regolamentare (per quella sera ho l'alibi..). Il problema del campo era dato dal giardino del vicino convento di suore. Ogni volta che la palla vi cascava dentro (e succedeva spesso...) erano discussioni interminabili con la madre guardiana per ottenerne la restituzione, tanto che, dopo la quarta o quinta spazientita scampanellata per il recupero del prezioso bene, cominciavano ad arrivare delle reverendissime secchiate di acqua non immacolata. Una volta, poi, le suore ci sequestrarono (e per giunta bucarono!) un pallone di cuoio, vero lusso per quei tempi. E fu guerra senza quartiere con il Vaticano.

Mio fratello in parata plastica per accontentare i fotografi

Per alcune settimane la cassetta delle lettere del convento fu squassata dai botti delle miccette che vi lasciavamo cadere dentro. E nel giardino, tra vari rifiuti, finì anche la carogna di una pantegana morta. Poi, una brutta mattina, arrivò una squadra intera di vigili che bloccò tutte le uscite del campo. Io, con uno dei dribbling più sguscianti della mia vita riuscii - con il cuore in gola - a dileguarmi per calli e callette, ma molti dei miei compagni di classe furono portati al comando della Polizia Municipale dove, prima di essere affidati alle ire dei genitori, subirono una robustissima lavata di capo.

Anche campo S.Stefano, con le sue dimensioni da stadio, era ottimo per giocare, ma presentava l’inconveniente che uno dei suoi lati era occupato dall’edicola e dal Caffè Paolin, con i suoi tavolini sempre affollati da mamme e studenti ozianti al tiepido sole delle primavere veneziane. Non a caso questo caffè era anche la sede dei nostri strusci mondani in età da liceo e universitaria (le partite, alternate ai momenti di ristoro ai tavolini, consentivano di metterci in mostra davanti alle nostre conquiste, presenti e future). La presenza dell’edicola, per la verità, non comportava particolari problemi, se non quelli legati all’ingombro del campo di tiro, mentre quella del Caffè Paolin comportava maggiori disagi, poiché, talvolta, pallonate vaganti seminavano stragi tra gli ice cafè e i cappuccini di qualche tavolino e i camerieri non gradivano affatto (anche i clienti, ovviamente…). Fino al Grande Disastro del giugno 1967 quando un tal Enzo P. (un marcopolino tozzetto da novanta chili distribuiti su quasi un metro e sessantadue di altezza...), avventandosi per colpire di testa un lungo cross proveniente dal fondo e urlando uno spaventevole: “mìaaaaa.......”, finì, per lo slancio, a travolgere una decina di tavolini, completi di avventori, bibite e gelati. Quindi, la “bomba umana”, mentre ancora non si era spento l’eco di quel fracasso immondo, si dileguò velocissima per Calle delle botteghe lasciandosi dietro una lunga scia di schegge di vetro, sangue e panna montata e salvandosi così dall'inevitabile linciaggio. Per i sei mesi successivi, Enzo P. e tutti noi evitammo accuratamente di passare per il campo, che, del resto, veniva ora accuratamente presidiato da una ronda di vigili.


Goal o palo? Non ricordo...

Nel campiello dietro alle Zattere, invece, si giocava con il rischio di far nascere incidenti diplomatici con la pacifica Svizzera. Le finestre del Consolato elvetico erano, infatti, sottoposte ad una precaria esistenza trovandosi appena due metri sopra la traversa di un'altra porta dipinta sul muro e talvolta venivano bucate come l'emmental. Ma, d'altronde, anche Maradona qualche volta sbagliava un tiro. Altri terreni di gioco a rischio erano: San Zaccaria, con la presenza ingombrante della caserma dei carabinieri e il campo dei Gesuiti, per la troppa vicinanza alla scuola e il passaggio frequente di presidi e professori. Una volta, per disperazione, provammo perfino a fare due passaggi in mezzo a piazza San Marco, ma, al terzo rimbalzo del pallone in mezzo ai nugoli di piccioni arrivò subito un drappello di carabinieri in divisa da parata, con la sciabola e il pennacchio rosso e blu.

Le nostre partite domenicali (quelle serie, undici contro undici) si svolgevano di solito alle Terre perse, nei pressi di Malamocco, sulla punta estrema del Lido. Ci sarebbe stato anche il campo regolamentare delle Casermette, dietro all'Arsenale, ma occorreva conoscere qualcuno della Marina per avere il permesso di accedervi e non era semplice. Il campo delle Terre perse, spelacchiato e con vaste zone di sabbia e terra battuta, si trovava in una landa deserta a ridosso dei murazzi del Lido, da dove giungevano il rumore delle onde e un vento che profumava di mare. Vi si accedeva da un viottolo che serpeggiava tra canneti e fossati d’acqua stagnante. Il terreno di gioco confinava, poi, con il piccolo cimitero della frazione chiuso da un rugginoso cancello e questo creava non pochi problemi quando qualche difensore sparacchiava un rinvio in fallo laterale. Qualche anima buona (il parroco?) vi aveva installato in principio delle rudimentali porte regolamentari da cui pendevano perfino dei rimasugli di rete (da pesca!). Poi una traversa era crollata e della porta sul lato murazzi erano rimasti solo due mozziconi di pali protesi verso il cielo, che accrescevano il senso di desolazione del luogo. Ma per noi, frementi di poter incrociare i bulloni ad ogni occasione, le Terre perse erano l’equivalente di San Siro. E come lo stadio di San Siro, anche le Terre perse godevano di un infame terreno di gioco. Cascare in piena velocità nelle zone di terriccio sabbioso equivaleva a farlo sulla carta vetrata. Le abrasioni che ne risultavano erano spettacolari per vastità e copiosità di sangue.

D’inverno, invece, il campo era sempre costellato da vaste zone fangose dove si potevano fare delle scivolate di grande effetto, soprattutto al momento di rialzarsi. Ricordo una partita accanitissima tra noi, che giocavamo in maglia bianca (affermavamo che era per sentirci come il Real Madrid, ma in realtà si trattava di motivi d’economia, visto che una canottiera con le mezze maniche in casa si rimediava sempre...) e una squadretta di maglie miste. Dopo una ventina di minuti di gioco si rese necessario un consulto tra i capitani delle squadre per decidere se continuare la partita, perché il fango ci aveva ormai omologati tutti ad un unico colore grigiastro ed era difficile distinguere tra compagni ed avversari. 


Nelle vesti di un ultrà del Venezia (sono al centro in alto, vicino alla C)

Il momento del calvario era però quello del rientro a casa. Soprattutto nei mesi invernali. Infatti, sudati fradici e pieni d’ammaccature, bisognava rivestirsi all’aria aperta, indossando (sopra il fango...) i vestiti lasciati sull’erba e pieni di gelida umidità, quando non di bestioline. Poi, con i piedi doloranti per le vesciche, si riprendeva la lunga strada per il ritorno fino alla piazzetta di Malamocco, dove faceva capolinea l’autobus della linea C che partiva ogni mezz'ora e che era regolarmente appena andato via. Quindi, arrivati all’imbarcadero del Lido, si prendeva la motonave, tra il raccapriccio dei passeggeri che vedevano salire a bordo un manipolo d’esseri di fango, che, oltre a tutto, puzzavano come cavalli. E finalmente, dopo un viaggio che mediamente durava due ore, raggiunto il porto sicuro di casa ci si poteva gratificare con uno shampoo e un bagno bollente, l’ideale per sciogliere i muscoli e le concrezioni di fango che li ricoprivano e che successivamente avrebbero intasato lo scarico della vasca, facendo arrabbiare la mamma. Quello che mi ha sempre meravigliato di tutto ciò è come non sia mai riuscito a prendermi neppure una piccola bronchitina. Eppure, in quegli anni densi d’interrogazioni e compiti in classe, mi avrebbe fatto tanto comodo... 

Ecco: in qualche modo il calcio ha fatto parte della mia vita e dei ricordi più belli. Per questo gli voglio bene. Quindi, forza Inter, anzi... fozza Inde, perché ormai siamo cinesi.

giovedì 18 agosto 2016

Ritorno a Venzone


Io a Venzone c’ero stato prima di quel maledetto 6 maggio del 1976. Con i miei primi stipendi (e un pacco di cambiali) avevo comperato una scassatissima automobile e per provare la felicità di poter finalmente esplorare a mio piacere il mondo attorno a me ero andato alcune volte proprio a gironzolare tra quei paesini del Friuli, ricchi di storia e di fascino. 


Il quattrocentesco palazzo gotico del comune

Con la mia ragazza di allora avevamo trascorso diversi giorni felici tra piccole locande ospitali, trattorie dove si mangiava bene e si beveva meglio, paesini con le case dai muri in pietra immersi in una natura aspra e cupa come le montagne che li circondavano ma con l’azzurro gelido del Tagliamento che scorreva sinuoso tra i sassi del suo greto e poi castelli, pievi, abbazie e altri straordinari monumenti giunti direttamente dal medioevo, in paesini dai nomi strani, dove nemmeno te li aspettavi. Insomma, un piccolo paradiso a due ore da casa in cui era bello tornare. E infatti c’eravamo tornati diverse volte…


la piazza del Municipio, il centro di Venzone


Poi, quella sera, dalle viscere di quel monte Verzegnis da cui oggi scendono dolcemente i parapendio si scatenò il colpo di maglio che rase al suolo mezzo Friuli, con migliaia di morti. Furono giorni tesi e disperati, trascorsi ad ascoltare increduli le cronache di quella tragedia a pochi passi da casa nostra, con quei radiogiornali che sembravano bollettini di guerra e ogni sera ci recitavano: “Bordano, Osoppo, Gemona, Trasaghis, Buia, Venzone…” che era tutta la litania dei nomi dei paesi ridotti a macerie, peggio dei bombardamenti della guerra. 


La chiesa di San Giovanni con il rosone vuoto che guarda ancora il cielo

Furono però anche i giorni di quel galantuomo di Zamberletti e dell’orgoglio di un popolo che non voleva arrendersi e che già dal giorno dopo, finito il conteggio dei morti, si era rimboccato le maniche per ricominciare la propria vita con una determinazione mai vista prima (e dopo) in simili tragedie. Ricordo che con una quarantina di altri ragazzi veneziani c’eravamo organizzati per andare su come volontari a dare una mano a sgomberare le macerie, ma c’era stato risposto gentilmente che apprezzavano molto il gesto, però era meglio se fossimo rimasti a casa, che si arrangiavano da soli.


Nel duomo trecentesco di Sant'Andrea le ferite del terremoto si vedono ancora

Da allora a Venzone non ci sono più tornato, perché non ne ho avuto l’occasione, ma anche perché un po’ me ne mancava il coraggio. Che invece ho ritrovato qualche giorno fa di ritorno dall'Austria, quando con mia grande sorpresa ed emozione l’ho rivista in tutto il suo splendore, ricostruita fedelmente e con cura maniacale, pezzo su pezzo e con i frammenti degli affreschi del Duomo, anche quelli più piccoli, ricollocati al loro posto, come in un grande puzzle.


La piazza e sullo sfondo Palazzo Radiussi con la sua bella trifora veneziana

Certo, se osservi bene, le ferite del terremoto si notano ancora, perché le case e il duomo, anche se restaurate a meraviglia, hanno conservato ben visibili le linee di frattura, come fossero delle cicatrici indelebili e ti si stringe il cuore a vederle così come è un pugno nello stomaco vedere all'ingresso del paese il rosone vuoto della chiesa di San Giovanni che guarda il cielo, perché è rimasta in piedi solo la facciata. Però Venzone, orgogliosamente cinta dalle sue mura, è di nuovo bellissima e la celebro volentieri con queste mie foto.

martedì 16 agosto 2016

Dei designer di rubinetterie, nemici dell'umanità.

Sospetto da qualche tempo che tra i nemici occulti dell’umanità ci siano i designer e soprattutto quelli tra loro che progettano le rubinetterie da bagno. A quanto pare, costoro sono dei temibili agenti dell’UCAS (Unità per la Complicazione degli Affari Semplici) che pur di non dotare la tua doccia o il tuo lavandino di un normalissimo e intuitivo rubinetto a manopola, con scritto da qualche parte C e F o magari con uno smaltino rosso e uno blu, tanto per farti capire come ottenere l’acqua calda e quella fredda, si farebbero spellare vivi (nel caso, darei volentieri una mano). Non so se, in qualche bagno di ristorante o di autogrill, vi è mai capitato di passare per qualche minuto come un idiota le mani sotto il rubinetto nell'attesa che la fotocellula facesse partire il getto salvo scoprire poi che c’era un pedale ben nascosto sotto al lavello o, al contrario, di annegarvi il polsino della camicia e l’orologio perché mentre cercavate il fottuto pedale, c’era sì la fotocellula, ma non dove pensavate voi. 


I paesini austriaci sono piccoli e romantici, ma nascondono delle insidie

Ecco, mi riferivo a costoro, che poi sono gli stessi cervellacci che progettano anche quelle docce piene di manopole, cursori, inspiegabili pulsanti “ne schiaccio uno e si alza l’altro” ed enigmatiche scale graduate, con almeno quattro erogatori dei quali uno in formato padella da caldarroste per darti un getto dal livello “filo d’acqua di acquedotto pugliese nel mese di luglio” a quello “idrante della polizia sui manifestanti” e fino al “monsone / slavazòn triestino” e che quando, infreddolito e nudo come un verme nella doccia da almeno cinque minuti e affidandoti alle tue misere conoscenze di ingegneria idraulica, riuscirai finalmente a far partire qualcosa, questa sarà un possente getto d'acqua gelida sulle chiappe, perché il designer aveva previsto anche un erogatore al livello delle parti intime. 

Il rubinetto di design, nemico di ogni cliente di albergo.

Fino a ieri pensavo che questo sadismo idraulico fosse almeno limitato agli alberghi e ai ristoranti con pretese di eleganza, ma mi sbagliavo perché anche nella piccola e deliziosa locanda di Egg, paesino di poche anime sulle colline della Carinzia con quattro casette piene di fiori, una chiesetta e una birreria dove abbiamo trascorso le vacanze (nel paese, non nella birreria), si nascondeva l’insidia. Infatti, appena arrivati e posate le valigie, apro la porta del bagno della nostra stanza e mi appare lui, il temutissimo nemico: il rubinetto di design, alto, slanciato e dotato in cima di un piccolo joystick tipo playstation studiato apposta per farti incazzare in tedesco (ma anche due vaffa in italiano andavano benissimo). Così, dopo ore di studio, di rotazioni della levetta (c’era anche dell’altro che roteava, ma non era sul rubinetto) e di brain storming di coppia siamo riusciti a capire come chiudere il getto dell’erogatore e come passare dall'acqua bollente da ustioni a quella tiepidina, ma non ad ottenere l’acqua fredda, opzione che sembrava del tutto sconosciuta al progettista. E così, grazie al genio di qualche designer austriaco di rubinetterie, mia moglie ed io abbiamo provato il brivido di lavarci i denti per tutto il soggiorno con l’acqua calda, che è il massimo della vita…