martedì 26 dicembre 2017

Della magia dei cenoni natalizi e delle malinconie per le cose buone di una volta.


Vedo in queste ore decine di foto provenienti dai cenoni di tutti i miei amici che mostrano con orgoglio le proprie tavolate e i piatti preparati con maestria per l'occasione, anche se talvolta ho notato la presenza in tavola di diversi "mappazzoni" ipercalorici, iperpannosi o iperfritti, in rappresentanza di quel cibo "iper" che poi uno lo digerisce dopo l'epifania. C'è stato anche chi ha fatto il cenone in pizzeria, fotografandosi orgogliosamente davanti alla quattro stagioni e chi ha pasteggiato su tovaglie di lino di Fiandra, con i candelabri, i bicchieri di cristallo e la posateria in argento in stile pranzo ufficiale a Buckingham Palace, però mi domando se in tali occasioni il galateo di corte preveda un commensale con la felpa gialla e la scritta Minnesota University. Qualcuno poi ha anche scritto e raccontato dei propri cenoni e di conseguenza, ha risvegliato anche i miei ricordi più antichi. Perché essendo figlio di un ufficiale di Marina da squadra navale e non da scrivania, di Natali in giro per basi militari e foresterie di Circoli Marina ne ho fatti a bizzeffe, da Taranto ad Augusta e da Brindisi a La Spezia, trascorrendone un paio perfino a Belgrado, con 15° sottozero e la neve a metà cancello, che poi voi che mi leggete direte subito che lì c'è il Danubio, ma non il mare, però all'epoca mio padre era l'addetto militare della nostra ambasciata, quindi la cosa si spiega. 

A volte, da bambino, le feste le trascorrevo da solo con i nonni nella loro casa veneziana, oppure c’erano anche la mia mamma e mio fratello, ma non mio padre che era in missione da qualche parte e magari ci dovevamo accontentare di una telefonata, sempre che fosse possibile inviarla. Però alcuni natali dove riuscivamo a essere tutti riuniti a tavola li ricordo bene e sono legati a qualche settimana di licenza o al periodo in cui mio padre comandava la flottiglia dei dragamine magnetici dell’Alto Adriatico che era di base qui a Venezia. Quel giorno il menù, assolutamente tradizionale e tramandato a quanto sembrava da generazioni, prevedeva che sulla tovaglia di lino ricamata a mano delle grandi occasioni arrivasse la zuppiera con i cappelletti in brodo fumante di manzo e gallina o cappone. Questi erano preparati di buon mattino con la pasta tirata sottilissima da mia nonna, chinata sulla spianatoia a darci dentro con il mattarello a maniche rimboccate, con il fazzoletto in testa e avvolta da nuvole di farina come una divinità greca ed erano ripieni di un profumatissimo trito di pollo, carne, mortadella, parmigiano, uovo e noce moscata. Non amando il brodo (che tanto poi me lo rifilavano il giorno dopo con la pastina a farfalline) io li mangiavo asciutti e conditi con una noce di burro e tanto formaggio. Solo una volta, con mia grande delusione, arrivò in tavola, come omaggio a mio padre che era un milanese doc, un risotto allo zafferano ma con i fegatini di pollo che all’epoca non mi piacevano (oggi, padellati con burro e salvia sarebbe un'altra storia) e che quindi finirono ad ammucchiarsi in un lato del piatto come fa mia moglie con i canditi del panettone, ma nel mio caso con relativa sgridata perché a tavola non si butta via niente, che ci sono i bambini poveri che muoiono di fame (così mi veniva pure il senso di colpa). Dopo i cappelletti era il momento del cappone o della gallina bollita (che già ci avevano fornito il brodo) portati in tavola su un grande vassoio. In alternativa, a volte c’era il lesso misto, anche con la lingua e la testina (che da bambino detestavo perché, a parte la gallina e il cotechino, tutta la carne comunque aveva grasso e nervetti). In entrambi i casi mia nonna preparava per accompagnarli un bagnetto verde con le acciughe, il pane ammollato nell’aceto, l’uovo sodo, l’aglio e tanto prezzemolo, che era buonissimo anche sul pane e proprio per questo era spazzolato via subito, che al massimo me ne rimaneva un cucchiaino. Se andava bene e la nonna aveva avuto il tempo di farla potevo consolarmi con la sua peperonata molto “cipollosa” e senza melanzane, messa a “tirare” sul fuoco bassissimo, che a volte appariva a dare man forte al bagnetto verde, altrimenti per mandar giù il boccone di lesso mi toccava un cucchiaino di concentrato di pomodoro Cirio.

In realtà il contorno più atteso da tutti era composto dall’apertura di uno dei vasi di porcini sott’olio che producevamo in quantità industriale durante le vacanze estive in montagna. Infatti, il viandante che fosse venuto a trovarci a Moena verso fine agosto, già salendo le nostre scale sarebbe stato colto dal profumo di acqua e aceto in perenne ebollizione e dove mia nonna, dopo averli ripuliti con un panno umido, avrebbe tuffato i porcini più belli e sodi (gli altri, tagliati a lamelle, finivano sul balcone a essiccare al sole per i risotti invernali), per poi coprirli di olio nei vasi a tenuta ermetica assieme ad una foglia di alloro e chiodi di garofano. Anche i porcini sott’olio venivano spazzolati hic et nunc ed erano spesso fonte di accesa rivalità i porcinetti piccoli e interi, considerati, chissà perché, ancora più prelibati. Infine, arrivava il momento atteso da noi bambini del panettone, che allora o era Motta oppure Alemagna e aveva tutti i canditi e l’uvetta che doveva avere, senza se e senza ma, con mio padre che inesorabilmente ci raccontava che per un milanese l’unico vero panettone era quello basso delle Tre Marie, che allora era un piccolo panificio con forno dove suo papà andava appositamente a comprarlo e bisognava prenotarlo mesi prima. Sembrava quasi che se prima non si fosse ascoltata la storia delle Tre Marie, non si sarebbe potuto affettare il panettone. Qualche volta, infine, mia nonna, poco prima del pranzo di Natale, preparava in casa il torrone, con il miele e tante mandorle e nocciole ma senza i pistacchi che costavano troppo. Però lei non lo faceva a barretta e avvolto da due cialde di ostia come si usa, ma il suo era basso, bitorzoluto e tondo, un po’ come quello di Cologna Veneta (per chi lo conosce) e bisognava spezzarlo con il coltello sul tagliere da quanto era duro. Però era davvero buonissimo tanto che alla fine, senza essere visto, m’inumidivo il dito per raccogliere anche le schegge più piccole rimaste sulla tovaglia. 

Curiosamente ricordo anche qualche cenone natalizio a cui non ho partecipato e in particolare uno che mi è stato raccontato come segnato da un magico evento e che vide protagonista la mia nonna materna che era delle Langhe ed anche una curiosa miscela di monarchia sabauda (teneva nel cassetto del suo comodino un piccolo sacchetto di terra di Cascais inviatole personalmente da Umberto di Savoia dal suo esilio portoghese) e di fervente socialismo turatiano. Così, da bambino ascoltavo affascinato come se fosse un'avventura emozionante il suo racconto delle cariche a sciabola sguainata dei Regi Carabinieri a cavallo contro gli operai in sciopero davanti ai cancelli della Borsalino dove aveva lavorato per qualche tempo. Mentre le nonne normali t'insegnano le preghierine, lei m'insegnò invece l'Internazionale che poi ebbi la bella idea di cantare al Circolo Marina di Taranto quando durante la festa natalizia per i bambini degli ufficiali che precedeva il cenone una signora mi chiese se sapessi qualche canzoncina. I miei non ne furono molto entusiasti e tanto meno l'ammiraglio che comandava la base, che il giorno dopo convocò mio padre a rapporto. Comunque, nonostante la vocazione al risparmio più austero, ogni tanto la nonna si concedeva qualche lusso inaspettato e nel nostro frigorifero compariva, come per magia, un bicchiere pieno di riso profumatissimo. Dentro, piccola gemma delle mille voluttà, vi era nascosto un tartufo bianco d’Alba (la trifula) i cui inquietanti effluvi sul risotto alla milanese o sulle uova strapazzate mi allargavano gli orizzonti e l’appetito. Che ci fosse in casa la trifula lo capivo al volo, perché la nonna si aggirava per la cucina sorvegliando il frigorifero con gli occhietti furbetti e complici. A tavola, quando le preziose lamelle si posavano volteggiando sui risotti fumanti, non si sentiva volare una mosca, salvo, a cose fatte, avviare il contenzioso sullo scarso ammontare del proprio grattugiato rispetto a quello del vicino. Ed una volta accadde il miracolo di Natale perchè la nostra vicina di pianerottolo, moglie di un Generale della Guardia di Finanza, si era presentata alla porta di casa nostra con in mano un tartufo bianco grande come un'arancia, dicendo che era un regalo ricevuto da suo marito, ma che a loro il tartufo non piaceva e poi puzzava tanto, quindi se a noi faceva piacere ce lo avrebbe regalato, altrimenti lo buttava via. Naturalmente la nonna si offerse volontaria per lo smaltimento rifiuti, con grande entusiasmo della famiglia. Io ascoltavo sempre con invidia la storia del trifulone piovuto dal cielo, poiché all’epoca dell’evento, come ho detto, ero a Taranto a cantare l'Internazionale per allietare il cenone dei miei.

Gran bei tempi, insomma e tanta malinconia nel ricordarli anche se in fondo anche noi questa mattina abbiamo fatto il pranzo di Natale a famiglia finalmente riunita e mia moglie ci ha deliziato con fettuccine di pasta fresca con ragù d’anatra e altre bontà di cui non dico, altrimenti mio figlio poi mi annuncia che ho appena vinto il “machissenefrega award 2017” ed è un premio al quale tengo poco.