sabato 31 dicembre 2011

Auguri per 2012 (che ne abbiamo bisogno)

Visto che non bastava stare con le mutande in mano tra un suppostone Salva Italia e l'altro e tanto per donarci una bella ventata d'ottimismo, l'anno che arriva sarà bisestile e, per gradire, pure con la profezia porta sfiga dei Maya incorporata. Che è un po' come buttarsi a mare dal Titanic che affonda e finire in mezzo ad un branco di orche assassine. Dunque, serviranno davvero tanti riti scaramantici (noi uomini da questo punto di vista siamo agevolati avendo due preziosi talismani sempre a portata di mano) e  almeno qualcosa che ci strappi un sorriso, prima che ce lo tassino. 

Ho appena ascoltato questa deliziosa canzoncina della Sora Cesira sul come affrontare al meglio i giorni che ci separano dalla temuta profezia e ve la propongo allo scopo (fermo restando che il giorno dopo la presunta fine del mondo, scompariranno solo gli imbecilli creduloni che ci hanno fatto due marroni così con i Maya) .

Buon 2012 a tutti.

mercoledì 21 dicembre 2011

Auguri di un magico Natale a tutti

Stacco qualche giorno la spina per rigenerare lo spirito e la fantasia abbastanza esausti. Purtroppo, il conto corrente reso anemico dalle pur spartane spese natalizie, dai pieni di gasolio - che ormai converrebbe andare a cabernet - dai figli che emigrano a far capodanno "altrove" (nell'attesa di andare a vivere per due anni a Vienna per conseguire il master in logistica, che mi vien male solo a pensarci) e dalle prime bollette maxi, non si rigenera da solo, ma questo immagino sia un problema comune di questi tempi, dunque non vi affliggo oltre. 

Cliccare sulla foto per ingrandirla

Invece, anche a nome di tutta la dogal famègia, bretone compreso, rivolgo un augurio affettuoso a tutte le mie carissime amiche e amici di blog perché trascorrano con i loro cari un bellissimo Natale, allegro e profumato di cose buone come una volta, e, soprattutto, perché il 2012, pur con l'incognita della profezia dei Maya (che non avevano nulla di meglio da fare che chiamare una sfiga cosmica? Avevamo appena finito con quel menagramo di Nostradamus...), sia assolutamente migliore di questo orrendo 2011, che per fortuna ci vuol poco. Auguri e buon anno a tutti...e vi lascio con questa bella poesia natalizia di Gianni Rodari molto attuale, che ormai di questi tempi non possiamo che regalarci auguri.


Il magico Natale 

S'io fossi il mago di Natale
farei spuntare un albero di Natale
in ogni casa, in ogni appartamento
dalle piastrelle del pavimento,
ma non l'alberello finto,
di plastica, dipinto
che vendono adesso all'Upim:
un vero abete, un pino di montagna,
con un po' di vento vero
impigliato tra i rami,
che mandi profumo di resina
in tutte le camere,
e sui rami i magici frutti: regali per tutti.
Poi con la mia bacchetta me ne andrei
a fare magie
per tutte le vie.

In via Nazionale
farei crescere un albero di Natale
carico di bambole
d'ogni qualità,
che chiudono gli occhi
e chiamano papà,
camminano da sole,
ballano il rock an'roll
e fanno le capriole.
Chi le vuole, le prende:
gratis, s'intende.

In piazza San Cosimato
faccio crescere l'albero
del cioccolato;
in via del Tritone
l'albero del panettone
in viale Buozzi
l'albero dei maritozzi,
e in largo di Santa Susanna
quello dei maritozzi con la panna.

Continuiamo la passeggiata?
La magia è appena cominciata:
dobbiamo scegliere il posto
all'albero dei trenini:
va bene piazza Mazzini?
Quello degli aeroplani
lo faccio in via dei Campani.
Ogni strada avrà un albero speciale
e il giorno di Natale
i bimbi faranno
il giro di Roma
a prendersi quel che vorranno.
Per ogni giocattolo
colto dal suo ramo
ne spunterà un altro
dello stesso modello
o anche più bello.

Per i grandi invece ci sarà
magari in via Condotti
l'albero delle scarpe e dei cappotti.
Tutto questo farei se fossi un mago.
Però non lo sono
che posso fare?
Non ho che auguri da regalare:
di auguri ne ho tanti,
scegliete quelli che volete,
prendeteli tutti quanti.


venerdì 16 dicembre 2011

Casalinghi si diventa (la prevalenza del budino)


Occupandomi professionalmente di un qualcosa - lo sviluppo organizzativo - che l’ottanta per cento delle imprese venete neppure sa cosa sia, mentre le altre più strutturate che lo sanno di fronte ad una crisi del genere non hanno più trippa per i gatti e, comunque, ormai c’è poco da sviluppare, mi ritrovo mio malgrado con un bel po’ di tempo libero a disposizione. Così, oltre alle tre orette quotidiane adoperate per portare il bretone a sgambettare tra campi fangosi e nebbie (che lui non si degna di espletare i suoi bisogni nelle aiuole dei giardinetti, ma si sente ispirato solo dalla visione degli spazi agresti), ho una moglie che appena mi tolgo il cappotto tutto infreddolito e oso aprire Repubblica per una fuggevole occhiata, invece del premuroso: “Amore, sei stanco? Vuoi che ti faccia un caffè bollente?” tipico degli angeli del focolare di cui favoleggiavano le poesie delle elementari, mi ricorda con un automatismo tipicamente femminile che, visto che non ho nulla da fare, ci sarebbero le foglie in giardino da rastrellare o la biancheria da stendere. 

I campi gelidi e fangosi prediletti dal mio cane

Dunque, essendo di natura un uomo curioso e aperto al cambiamento, sto perfezionando il ruolo del casalingo. 

Non che prima non lo facessi, ma lavorando a Torino e pertanto vivendo da solo a quattrocento chilometri da casa e con orari devastanti per la mia alimentazione (uscendo alle otto di sera, riuscivo a fare spesa solo se i negozi non mi chiudevano la saracinesca sui piedi) sopravvivevo solo con scatolami e tranci di pizza o di focaccia ligure rafferma e per il resto dei lavori di casa, non disponendo dei tempi tecnici, mi limitavo al minimo sindacale (lavaggio del mio piatto singolo e della forchetta, delle calze e mutande etc...), mentre per le pulizie di fondo, chiedendo ingenuamente lumi al giovanotto della cooperativa che ci puliva gli uffici, mi era stata indicata la “Soluzione Luciana” che, a suo dire, avrebbe depurato il mio appartamento come la “Soluzione Schoum”. Si trattava di una signora molisana (ovviamente parente del giovanotto) dall’età indefinibile, sempre vestita di nero e brusca di modi che veniva al venerdì sera e che, come promesso, mi riconsegnava al lunedì una casa lucente, ancorché affumicata come uno speck perché la maledetta fumava come una turca, tanto che le lenzuola e il cuscino sapevano di fumo per almeno due o tre giorni. Questo anche se prima di dormire lasciavo la finestra spalancata per arieggiare (misura in ogni caso indispensabile perché abitando in un condominio di vecchietti freddolosi, la caldaia andava a tutto spiano anche in primavera e sui termosifoni ci potevi friggere le uova) 

Oggi, come dicevo, faccio il casalingo in maniera più articolata e consapevole. 

Compiti per casa

Un'esperienza sicuramente interessante e formativa, che, come fossi un novello Darwin, mi svela mondi nuovi e affascinanti come quelli del Mocio Vileda, del panno antistatico e dell’olio paglierino per i mobili o anche tecnologie complesse come quella della lavatrice intelligente che si rifiuta di accettare il detersivo se il tessuto non è quello giusto, che però sa solo lei quale sia. Questo nuovo mondo, spesso mi pone davanti a scelte sconosciute e laceranti come quelle relative al detergente migliore per i pavimenti (con lisoformio o no? E la candeggina profumata a che ca… serve?) o a scoperte amare del tipo che non esistono guanti di gomma adatti alle mani di un signore alto un metro e ottantaquattro per novanta chili di peso e che anche il formato XL ti stringe due lacci emostatici attorno ai polsi. Quindi, alla fine, essendo uomo d’ingegno, dopo aver scoperto quanto bruci il Calinda a mani nude, ora lavo il water con le mani avvolte nei sacchetti del supermercato.

                                                             

Ma quello che più mi affascina è la scoperta di specie umane nuove e insidiose, quali la verduraia sotto casa che ogni volta che mi vede passare mi sorride e viene a fare una coccola al cane, ma poi approfittando della totale incompetenza di uno abituato a mettere nel carrello del supermercato il lattughino “tempo zero” già lavato e pronto da condire, mi rifila come misticanza di insalatine novelle le erbacce che crescono sui bordi della strada e quando acquisto un chilo di cipolle, facendomi credere con la gestualità di un’ illusionista che sta scegliendo solo le migliori per me, poi me ne rifila sempre almeno una marcia. Lo stesso accade in pescheria quando mi magnificano seppioline atlantiche scongelate e gommose come nostrane e fresche di giornata.

L'aria infida della verduraia c'è tutta

Poi c’è la nostra farmacista, una bella signora sorridente dai capelli nerissimi, che qualsiasi richiesta le faccia di farmaci da banco, mi propone di default prodotti omeopatici o unguenti e tisane preparate da lei, purché costosissimi e dicendo ogni volta “Questo è un prodotto tutto naturale. Vedrà che le farà solo bene”. Se cerco di fare il furbo e mi rivolgo alla sua collega, una signora esile, bionda, di origine tedesca e dallo sguardo glaciale, il risultato sarà identico, solo che mi verrà detto: “Qvesto è prototto tutto di natura, Fedrà ke le farà solo pene”. Questo per non parlare della signora Luisa del negozio di alimentari a fianco che ormai ho soprannominato: "Sono due etti, lascio?" e alla quale prima o poi vorrei dire: "No, tolga...", ma ho paura delle conseguenze, visto che è una montanara cadorina arcigna con le braccia muscolose di un tagliaboschi, tanto che immagino apra in due le forme di grana direttamente con le mani. 

Una delle specie più aggressive che ho potuto scoprire andando a fare la spesa su mandato coniugale, è quella delle signore "vintage" con i capelli cotonati e azzurrini. Quelle donne di età indefinibile, spesso già nonne, che parlano in dialetto, con l’abitino a colori inspiegabili e il trolley della spesa da cui spuntano due gambi di sedano e che verrà presto usato contro le tue caviglie come una macchina da guerra di Leonardo da Vinci. Quelle che quando il tuo macellaio pronuncia il fatidico “A chi tocca?” le senti subito mentire alle tue spalle: “Tocca a me!” e che, dopo averti spostato con la grazia di un Materazzi per raggiungere il bancone, iniziano il Cantico delle Fettine. 

Signora con i capelli azzurrini in versione tecnologica

Detto Cantico, comincia sempre chiamando per nome il macellaio, per farti capire subito che tra i due c’è un’antica confidenza che, pertanto, le consentirà di pretendere la rimozione minuziosa di ogni filo di grasso dalle bistecche, il disossamento del quarto di pollo e il legamento con lo spago dell’arrosto. Inoltre, consiste nel rivelarti, di fettina in fettina e di etto in etto, tutte le abitudini alimentari della famiglia e, di conseguenza, quanto lei sia carica di attenzioni e avveduta nelle scelte, casomai avessi pensato che ordinava alla: “Valà che vai bene” (Purtroppo non posso più dire: “Alla …. di cane”. Qualcuno in famiglia non la prenderebbe bene). 

Così, in capo ad una mezzora saprai che il figlio trentenne, quello che lavora in banca, non sopporta i nervetti nella carne sin da quando era bambino, mentre suo marito è l’unico della famiglia che mangia il fegato, ma solo con la cipolla, che lei usa solo la guancia per fare lo spezzatino, che diventa tenerissimo, mentre i messicani di pollo (ma senza il peperone) sono per il nipotino che mangia poco, perché la nuora, come tutte le ragazze di oggi, non sa cucinare, ma che se glieli prepara la sua nonna… 

Dopo aver invocato qualsiasi divinità affinché il pargolo si strozzi con i messicani di pollo della nonna, appena ti sembrerà che il Cantico abbia avuto termine e dopo l'attesa di altri minuti di ricerca nelle borse per trovare i cinquanta centesimi che mancano (“Guardi… glieli do io, signora, se non si offende e anche se si offende…”), proprio quando stai per aprire bocca, la signora dai capelli azzurrini si fermerà sulla soglia della macelleria come folgorata da una visione celeste: “Maria santissima… gèro drio a desmentegàrme… Mauro, hai mica il prosciutto cotto dell’altra volta, ma non quello con i conservanti, quell'altro naturale che era piaciuto tanto a …” .

Anche mio figlio, nei rari momenti nei quali ci onora della sua presenza, si dimostra nel pieno apprendimento del suo sapere casalingo, un po’ perché sua madre ha deciso che è meglio educarli da piccoli per non ritrovarsi  poi con casi irrecuperabili come suo marito e un po’ perché il feldmaresciallo Katerina lo ha messo velocemente in riga ricordandogli che in “Czech Republic…” (etc.). 

Gli esordi da cuoco di mio figlio nelle eleganti suite dell'ostello di Vilnius

Il nostro giovanotto aveva iniziato a darsi da fare già durante l’Erasmus regalandoci scene memorabili quali le immagini webcam dalla sua camera spartana con le camicie sullo sfondo stese ad asciugare ancora sgocciolanti e appese ad un filo che passava sopra il letto del suo compagno di stanza, il pazientissimo Miguel. Ma proponendoci anche il suo sguardo sgomento quando aveva appreso che la biancheria occorre anche risciacquarla, non solo immergerla nell’acqua e sapone (ed ecco spiegati quei fastidiosi pruriti) e perfino un momento di buonumore quando ci aveva rivelato che per un incomprensione dell’etichetta lituana, aveva fatto il suo primo ragù con il ketchup (però ai tedeschi dell’altra stanza era piaciuto molto). Poi è migliorato a tal punto che oggi si lava e si stira impeccabilmente le camicie (anche perché sua madre da quando ha compiuto i 18 si rifiuta di farlo) e cucina più che discretamente, tanto che alla fine si manteneva dando lezioni di cucina italiana ai suoi compagni (e alle compagne) dell’ostello di Vilnius in cambio della spesa settimanale e di qualche ingresso in discoteca. Perché un economista sa anche arrangiarsi con le leggi della domanda e dell'offerta.

Il grande cuoco italiano si esibisce a casa di Katerina
Siccome se ne vanta in eccesso, sabato l’ho sfidato ad un duello culinario tipo “la prova del cuoco” con sua madre e due nostri amici invitati a cena per l’occasione nelle vesti di giurati più o meno imparziali. Ciascuno ha fatto le sue spese e poi Gianmarco ha cucinato un antipastino di sua invenzione (dice) con carciofi, funghi e taleggio passati al forno dentro dei vol au vent (surgelati) e delle fettuccine con il bacon della Tulip e tanta cipolla che ha definito con molta fantasia “alla griscia”, mentre io ho mi sono esibito nelle crépes con la ricotta e lo speck  e poi nelle polpettine al sugo con i piselli, come le faceva mia nonna, cioè da urlo. 

Infatti, ero in vantaggio, quando a sorpresa lui ha servito in tavola un dessert: un bunèt piemontese (una via di mezzo tra il budino e la crème caramel) al cioccolato, guarnito con la panna montata (spray) e un’amarena Fabbri, che non c’entrava nulla ma faceva scena. Successo immediato, applausi e vittoria netta dell’erede. Domenica mattina, appena l’ho visto arrivare giù dalle scale ciondolante in pigiama a bofonchiare: “Qualcuno ha fatto per caso il caffè?” gli ho fatto sportivamente i complimenti per la vittoria e per quel dolce. Lui mi ha folgorato con un lampo ironico poi mi ha detto ridacchiando: “Papà, ma scherzi? Guarda che la mamma l’ha capito subito … i bunèt li ha fatti la Parmalat, mica io…” .

domenica 11 dicembre 2011

Dello spirito del Natale (e dei regali anticipati)

Andando a  spasso con il cane per le strade che confinano con la campagna dietro casa nostra (mooolto dietro, di alcuni chilometri, perché ai giovani bretoni piace trotterellare per ore, meglio se tra il gelo e le nebbie) in questi giorni sto scoprendo fenomeni di costume curiosi, tipo quello dei babbi natale scalatori che ormai hanno preso il posto dei nani da giardino, nel senso che non c’è villetta o condominio che non ne abbia almeno uno appeso fuori da una finestra o balcone e che spesso più che uno scalatore ricorda i banditi che penzolano impiccati nei film western .  Ieri mattina, costeggiando una fila di villette a schiera, ne ho contati sette, tutti impegnati a salire sui balconi con le loro scalette di corda tanto che mi sembrava una prova di Giochi senza frontiere, con il Babbo Natale tedesco in vantaggio come al solito (immagino avesse giocato il Jolly). Immagino che oggi cerchino d’entrare di soppiatto dalle finestre e non dal camino perché hanno paura di trovarvi sotto un panettone soffice come nelle pubblicità.

Il ponte di Rialto in versione natalizia

 Però poi ho pensato con simpatia che dietro alle finestre appannate di quelle case c’era lo stesso mondo che mi è apparso in questi giorni curiosando in giro per i blog delle amiche e amici,  dove ho letto dei post pieni di poesia su come viene ancora vissuto il Natale in tante famiglie. Un mondo fatto di piccoli riti affettuosi, di bambini con il naso all’insù per vedere il papà che mette il puntale giallo oro in cima all’albero traballando sulla sedia e di lucine cinesi ad intermittenza che non ne vogliono sapere di accendersi, di presepi con l’asinello scheggiato che ci mettiamo San Giuseppe davanti, così non si vede e di pastorelli che portano la pecora sulle spalle e si rifiutano di stare in piedi sulla paglia, mentre il papà e la mamma combattono a colpi di scotch con la carta stagnola del ruscello e il cielo stellato che continua a collassare sulla capanna. Che meraviglia e quanti ricordi mi hanno suscitato!

Il campiello che porta in calle Racchetta da Strada Nova

Perché io sono uno di quei bambini sfortunati degli anni ’50 ai quali arrivava quasi sempre un unico regalo (spesso frutto di sapienti bricolage...) mentre alla Befana, il calzino appeso lo si trovava riempito di qualche sparuta caramellina e di molte arance e mandarini. Tra i regali che ricordo ancora oggi c’era un teatrino in miniatura con tanto di sipario di stoffa rossa, quinte e marionette di gesso, quelle classiche con Arlecchino e Pulcinella, con le quali mio padre e mia madre m’improvvisavano mirabolanti e spassosissime scenette. Durante un Natale passato a Taranto, invece, ricordo di aver finalmente trovato sotto l’albero l’agognato Fort Apache, un vero fortino con le mura a palizzata, la torretta d’osservazione e tanto di bandiera della cavalleria americana, ma anche con in dotazione un vero tesoro: una scatola con una trentina di cow boy e indiani di gesso, che però si squagliò miseramente la volta che la dimenticai in terrazza sotto un acquazzone.

Sotoporteghi e gatti veneziani

Quei miei Natali ormai lontani volevano dire però anche i cappelletti fumanti in brodo di gallina ruspante cucinati dalla nonna (quella materna, che veniva dal Monferrato, perché l’altra non sapeva fare nemmeno un toast) che si era alzata all’alba per tirare la sfoglia tra nuvole di farina e la suddetta gallina lessa che veniva servita subito dopo con la salsina verde (quella di prezzemolo, pane, aglio, uovo sodo e acciughe) o con la mostarda di Cremona, con le ciliegine candite distribuite equamente tra me e mio fratello. Tutto divorato in fretta e con i giornalini sotto al sedere (perché a tavola oltre a non interrompere i discorsi dei grandi era proibito leggere) nell’attesa del panettone che in casa nostra era rigorosamente Motta (all’epoca c’era solo l’alternativa Alemagna, che era un po’ come dover scegliere tra Coppi e Bartali). Al pomeriggio finalmente si andava, tutti intabarrati nei cappotti e nelle sciarpe, al cinema Massimo per vedere, tra nugoli di altri bambini, il cartone natalizio della Disney, rassegnati a subire perfino l’immancabile documentario sui castori.

Ponte della Maddalena al tramonto

A proposito dei miei Natali a Taranto, che ho citato prima, ricordo che sul nostro pianerottolo di Corso Umberto si affacciava anche l’appartamento di una piccola e cicciottella casalinga napoletana, moglie di un impiegato comunale, tale signora Pepe, che era una di quelle persone che sembra vivano unicamente per impicciarsi dei fatti altrui e si fanno un punto d’onore ad aggiornarti su quel che succede nelle altre famiglie del condominio, con particolare riferimento alle tresche amorose. Naturalmente a noi di tutte queste vicende private non poteva importare di meno, ma per la Pepe questo sembrava essere un dettaglio di poco conto e si faceva un punto d’onore nel tenerci informati. Questa donna era di un’invadenza spaventosa e in perenne agguato sulle scale (per me sorvegliava i nostri movimenti dallo spioncino della porta). Era quasi impossibile uscire o rientrare senza vederla comparire ad offrirci preziosi suggerimenti non richiesti o a cercare di entrare in casa nostra con qualche scusa per curiosare. Se riuscivamo a sottrarci con qualche sotterfugio all’agguato per le scale, allora la Pepe agguantava mia madre non appena si recava a stendere la biancheria sul balconcino della cucina che era adiacente al suo.

Un frutariòl in Calle dei Botteri

La signora Pepe, oltre al desiderio – mai esaudito­ per assoluto divieto paterno – di essere invitata a cena e d’intrattenere rapporti con la famiglia di uno di quegli altezzosi ufficiali di marina che in città erano considerati una casta a parte, aveva come apparente scopo della sua esistenza quello di rivaleggiare con il nostro tenore di vita (che poi non era tutto questo granché). Perciò, se noi si comperava una qualunque cosa, lei come minimo ne comperava due, oppure una vistosamente più grossa. L’unico vantaggio per noi piccoli arrivava alla vigilia di Natale, quando la Pepe c’invitava ad ammirare il suo albero (il doppio del nostro) e ci rimpinzava degli addobbi di cioccolata e marzapane (due volte più numerosi dei nostri). Il lato negativo della cosa, invece, era che la Pepe, per confermarci che eravamo proprio di fronte ad una pia donna, ci invitava a recitare le preghierine a mani giunte e solo dopo sganciava il cioccolato. E proprio alla vigilia di un Natale, la Pepe se ne uscì con un lapsus clamoroso, invitandoci premurosa, con la sua vocina cantilenante, ad essere tanto buoni e a dire le preghierine: “Che così facciamo tanto contento il Gesuino Bambù!”. Questo fatto del “Gesuino Bambù”, subito riferito, scatenò per giorni l’ilarità di mio padre e divenne un vero tormentone che si è tramandato negli anni, tanto che ci ha riso sopra anche mio figlio.


Riflessi e tramonto sul rio di San Felice

Il quale figlio, invece, è stato più fortunato perché, tra genitori, zie, nonni e ci metto pure il “Natale Bimbi” della FIAT, trovava sotto l’albero un vero container di giocattoli (e non aveva nemmeno, come nel mio caso, un fratellino con cui litigarseli). La cosa che ricordo con maggior tenerezza era però la finta cena che un Babbo Natale scroccone si concedeva nella nostra cucina per lo stupore affascinato di nostro figlio, con tanto di piatto lasciato sulla tovaglia con bucce d’arancia e briciole di pane tutt’attorno (anche un bel bicchierozzo di vino, perché Babbo Natale è uno che sa vivere…). Il tutto era illuminato solo dalla luce fioca di una candela sul tavolo, che accendevo assieme alle luci dell’albero scendendo silenzioso le scale poco prima che Gianmarco si svegliasse.

Ollie e Gianmarco, i miei due giramondo adorati
Comunque, a proposito di regali, io ne ho già avuti due anticipati e bellissimi. Il primo l’ho avuto quando, preceduto dal trillo inatteso di un telefonino di buon mattino ho visto mio figlio schizzare come un invasato fuori dalla stanza, mezzo in pigiama e mezzo vestito, gridando “Papaaà! C’è Ollie in stazione qui a Mestre e non è uno scherzo…(omissis) ” . Così ho appreso che era venuto a trovarci a sorpresa Oliver “Ollie” Paterson, ovvero il mio ventenne figliolo australiano dello scambio con Gianmarco, che, appena tornato in Italia per un corso di chitarra jazz a Prato (lui suona da dio…) è passato a trovarci e a farsi cucinare una monumentale carbonara con tanta pancetta. Il pomeriggio siamo andati tutti assieme a zonzo per Venezia a cercare regali per i suoi amici di Melbourne e ho fatto un mucchio di foto, tra le quali quelle che adornano il post (altre le sto postando su Flickr).

Il quadretto ricomparso dal  nulla 

Il secondo regalo, però è stato davvero incredibile, perché veniva ancora più da lontano. Questa mattina mia moglie, guardando dentro uno dei vecchi mobili tarlati di mia zia che abbiamo messo in un magazzino per vedere se era il caso di restaurarlo, ha trovato all’interno di un cassettone, avvolto da fogli di giornale, un piccolo quadro ad olio di mia madre. Una delle tante lagune che amava dipingere. Questa, molto tenue e delicata come tutta la sua pittura,  raffigura Burano come una  sottile striscia sospesa tra le acque e le nebbie ed è stata dipinta nel ’67 (la foto non rende appieno la vibrazione del colore, che la nebbia sembra di respirarla). Credevo che quel dipinto fosse andato distrutto con tutti gli altri durante l'incendio di casa nostra, ed invece…

Se non è un bel regalo di Natale questo…   

martedì 6 dicembre 2011

Disillusione


Sono in uno stato di grazia: mia moglie è da qualche parte con la scuola di tango a ballare per tutto il pomeriggio e mio figlio è “altrove” per una partita di calcetto con gli amici, la cena per la sera è già pronta, basta accendere il forno e il cane è già uscito ed ha la vescica vuota. Dunque, ho davanti a me alcune ore di perfetta solitudine nelle quali potrò dedicarmi ad una full immersion negli affaracci miei, tipo: scrivere, cazzeggiare al computer, lavorare con Photoshop e sentire i Led Zeppelin con lo stereo a palla. Perfino rispolverare la vecchia Fender con l’ampli e il distorsore e improvvisare qualche riff in stile Deep Purple o AC/DC

Ed è quello che faccio. Sul più bello di Smoke on the water quando ormai mi sento come Steve Morse, squilla il telefono. Guardo sul display: non è mia suocera. Anche lei come sua figlia ha maturato un talento speciale per interrompere i miei momenti d'ispirazione, ma questo è un numero privato. Dunque è qualcuno che vuole proporre qualcosa, perché ormai sul telefono di casa chiamano solo gli scocciatori, che quando gli dici che hai messo da mesi il tuo numero sul registro delle opposizioni e non dovresti più ricevere telefonate commerciali, ti rispondono che non hanno avuto ancora l’aggiornamento degli elenchi.

Così, in base al principio che se proprio non puoi evitare una cosa, almeno cerca di rendertela piacevole, da qualche tempo provo un certo divertimento nel mettere in imbarazzo l’interlocutore con risposte inattese. Tipo la signorina che annuncia allegra che “finalmente nella nostra città l’Istituto Vattelapesca organizza corsi d’inglese per principianti” in modo che io possa risponderle: “Really? Fantastic! I’m just looking forward to learn English” oppure spacciarmi per un sussiegoso docente universitario d’ingegneria informatica quando mi propone il corso base di Windows o magari rivelarle che sono appena entrato nel sito del Pentagono per hackerarlo e se l’FBI non mi arresta nelle prossime ore, potrei anche essere interessato a conseguire la patente europea per il computer. 

Allo stesso modo, al tizio con accento meridionale che offre l’olio ligure rispondo che in casa usiamo l’olio pugliese che produce mio suocero a Cerignola e non intendo divorziare, alla Fastweb e alla Vodafone che vogliono propormi la loro ADSL dico che l’offerta è sicuramente interessante, ma non posso accettarla perché sono un dirigente della Telecom, mentre al mobilificio che m’informa del 30% di sconto per rinnovare i mobili di casa racconto che ho lo sfratto esecutivo e che sto per andare a vivere in un camper. A Sky dico che ho già Premium e a Premium dico che non intendo dare altri soldi a Berlusconi che ne ha già abbastanza.

Invece, all’istituto dermoestetico che vuole offrire un trattamento gratuito di bellezza alla mia signora solitamente rispondo: "grazie, ma sono single", oppure: "è scappata di casa due mesi fa ma se la ritrovo glielo propongo senz’altro". A volte aggiungo anche " prima di strozzarla..." per dare un tocco da giallista alla vicenda. Mi divertirebbe anche poter dire "Guardi, le passo mia moglie..." e poi gridare "Giorgioooo... prendi la telefonata che è per te...", ma non ho sottomano un'altra voce maschile da far rispondere e mio figlio, che ha una solida reputazione di tombeur des femmes da difendere, si rifiuta sdegnato di collaborare allo scherzo.

Nei casi estremi informo il mio interlocutore con voce di circostanza che gli sto rispondendo dalla Sala del Regno dei Testimoni di Geova o da uno studio notarile dove è in corso un rogito, perché forse ha sbagliato numero. Un mio amico ama rispondere con tono molto british " Il conte e la  contessa sono usciti, io sono il maggiordomo. Se mi dice cortesemente di che si tratta, riferirò ai signori appena rientrano" però io esito a farlo a mia volta. Metti che telefoni la Finanza...

Oggi, però, mi sento ben disposto verso il genere umano e così, invece di stramaledire il disturbatore, decido di rispondere.

E’ un giovanotto garbato che dice di chiamare per conto di una società di sondaggi che conosco e chiede se può farmi qualche domanda sulle modalità di utilizzo dei trasporti pubblici. Normalmente dico: “Ma anche no…” e riaggancio prima che possa riprender fiato, ma stavolta voglio fare un’eccezione e accetto. Lui mi ringrazia, il tono di voce è molto simpatico e così scambiamo qualche battuta allegra tanto per entrare in sintonia, poi iniziamo con i quesiti: “Mi può dire il suo anno di nascita?”.
Certo: 1948
Un attimo di silenzio imbarazzato dall’altra parte, poi la voce del giovanotto si fa grave: Mi scusi, ma il computer mi dice che per la sua fascia di età il campione è già chiuso. Le auguro una buona giornata…” e chiude la comunicazione senza appello. Guardo il telefono con odio, poi ripongo la chitarra perché mi è passata la voglia di suonare. 

Una bella giornata rovinata…

domenica 4 dicembre 2011

Presentazione alla stampa di Kalò Choriò


Mercoledì scorso, nell'ambito degli Incontri con l'Autore 2011 organizzati dalla Municipalità e intervistato da un giornalista del Gazzettino, ho presentato al pubblico il mio libro Kalò Choriò e tutta la collana dei libri gialli (cliccando sulle icone qui a fianco potete divertirvi a leggere una ricca anteprima di una quarantina di pagine per libro). In questo breve filmato che ho realizzato per You Tube, è possibile vedere qualche momento dell'incontro. E' possibile notare anche il mio attuale e vistoso sovrappeso, malgrado le passeggiate per campi con il bretone, e ascoltare quella erre alla francese che mi tormenta da una vita, ma che in Fiat era molto invidiata perché faceva tanto Avvocato  e qualcuno pensava che lo facessi apposta. Mia moglie sostiene anche che assomigli a De Michelis, ma è sicuramente una delle sue frecciatine perfide.



martedì 29 novembre 2011

Le delizie del phishing e dei traduttori automatici

Dopo qualche mese di tregua, forse per le vacanze estive, ma si spera per quelle "al fresco", sono ripresi implacabili nella mia posta elettronica i tentativi di phishing (cioè di farti abboccare all'amo di un messaggio fasullo come se fossi un pesciolino stordito inducendoti a rivelare password del tuo conto corrente e altri dati sensibili a chi di certo non li userebbe per beneficenza). 

I classici espedienti della banca (che non è mai la tua, ci prendessero almeno una volta...) o delle Poste Italiane (dove sperano di colpire nel mucchio dei vecchietti pre-tecnologici) che ti avvisano di aver bloccato un conto che non possiedi e ti dicono che se non lo sblocchi subito non potrai pagare una fattura o (più allettante) ricevere un bonifico a tuo favore, ormai sono roba d'antiquariato e in fase di abbandono, anche perché ci abboccano solo quelli con il cervello a neurone singolo. Che poi, siccome è noto che il Signore separa in fretta gli sprovveduti dai propri soldi, in fondo sarebbe solo l'applicazione di un volere divino. Dunque neppure un male...


Tipica potenziale vittima del phishing

Infatti, quando arriva la cortese lettera "al gentile cliente" di una sconosciuta banca di Valdobbiadene (Treviso) che ti invita a partecipare al suo progetto di miglioramento della sicurezza informatica immettendo nuovamente i tuoi dati, vuol dire che: A) ti stanno prendendo per i fondelli. B) i truffatori sono alla canna del gas, se sperano di beccare uno sprovveduto che tiene i soldi in una banca inesistente a 120 km da casa. 


Il prototipo dell'astuto phisher

Così, siccome la necessità aguzza l'ingegno, questi signori, che mi piace immaginare come astutissimi Wile coyote con la loro cassettina ACME di finte mail per acchiappare i correntisti Beep Beep, la scorsa settimana  mi hanno spedito una mail con la festosa comunicazione a caratteri cubitali : VIVI MOMENTI MAGICI CON LA TUA UNICREDIT CARD! (non la possiedo, ma in fondo è un dettaglio...)

Immaginando perfettamente la magia del momento in cui mi sarei trovato il conto prosciugato, ho evitato di cliccare il link e proseguendo nella lettura ho scoperto di essere il fortunato vincitore di un biglietto famiglia open Alitalia e di 2 giorni di pernottamento presso l'Hotel Disneyland (Si, grazie, ma dove? La Disneyland parigina o quella americana?) con inclusi 2 biglietti per assistere allo spettacolo "Disney live! L'intrepido viaggio di Topolino" con ingresso gratuito per i "bambini sino a 17 anni"

Qui, immagino che l'entusiasmo di chiunque per l'insperata vincita sarebbe traballato come il mio di fronte a quell'improbabile limite dei 17 anni per i bambini. Infatti, qualsiasi genitore sa bene che se solo osasse dare del bambino ad un/a figlio/a diciassettenne riceverebbe presto una lettera di diffida dall'avvocato. Mio figlio, che ha preso da sua madre, a suo tempo avrebbe fatto di certo così. Non parliamo poi di che avrebbe detto se gli avessi proposto di andare con i genitori a Disneyland per vedere "Topolino" . Il ragazzo sa essere molto tagliente con le ironie.

Ma anche gli astuti Wile Coyote si devono essere accorti di aver cannato alla grande con l'età e, siccome la customer care prescrive di essere precisi con il cliente, qualche giorno dopo mi è arrivata una commovente errata corrige, sotto forma di una lettera identica, ma con l'età del pupo che può entrare gratis portata a 10 anni. Sono stati così premurosi a correggersi che ora quasi mi viene voglia di cliccare sul loro link per ritirare il premio. Mica lo posso perdere un Momento Magico Disney, no?



Ma il tentativo di phising più spettacolare degli ultimi tempi (vincitore del Loser Award 2011 nella categoria Fiduciosi nella dabbenaggine altrui) è quello che mi è arrivato poche ore fa da un truffatore straniero imbecille ma gentile, che per mia comodità ha tradotto il testo dall'inglese all'italiano. 

E qui è crollato tutto. 

Perché quello che mi ha insospettito non è stato tanto il come mai questa sconosciuta Sachsen Lotto Gmbh di Postdam (nostalgia da guerra fredda?) mi annunciasse di essere stato estratto a sorte tra 25.000 indirizzi internet europei e di aver vinto 1.000.000 di euro (Ma che culo che ho! Avevo appena vinto un viaggio a Disneyland...). Non è stata neppure la domanda sul perché mai una lotteria tedesca di questi tempi dovrebbe regalare una milionata di euro proprio ad un italiano, perché magari si trattava di qualche accordo tra la Merkel e Monti a sostegno dei consumi in Italia di cui non ero a conoscenza. E nemmeno ciò che nella lunga lettera mi veniva puntigliosamente spiegato perché i Deutsch amano essere precisi:

 "Questo programma Jackpot di Lottery di anno 2011 e mai il più grande per Sachsen Lotto-Gmbh. Il jackpot valutato €50 milione sarebbe il sesto più grande nella storia dell'Europa. Il piu grande era il jackpot €363 milione di che e andato a due vincitori in un'illustrazione del febbraio 2000 Predecessore il gioco grande dei milioni Mega. La vincita proviene da una ricerca casuale automatizzata avanzata della scheda elettorale del calcolatore dal Internet come componente del nostro programma internazionale di promozioni che conduciamo ogni anno. Nessun biglietto é stato venduto".  

Effettivamente, non era molto chiara la faccenda della scheda elettorale del calcolatore e del "nessun biglietto venduto", ma poi in fondo uno si dice: "Vabbè, ma cosa stai a sottilizzare...magari sono normative tedesche. Lo sai quelli come sono fatti, no? Chi ti dice che da loro i calcolatori non votino? E se non vendono biglietti, forse finanziano la lotteria con lo spread dei bund. Hai visto mai?" 

La mia banca?  Longitudine 59' 33 16 N  Latitudine 18' 33.19 E ...
Il problema è che il Wile Coyote aveva tradotto l'annuncio della vincita usando un traduttore automatico, cioè uno di quei mostri sadici in grado di trasformare Cristoforo Colombo in Diobuco Piccione. Così, la banca off shore dove avrei dovuto ritirare il premio nel testo era diventata una "banca in mare aperto" (immagino che le sue coordinate bancarie sarebbero state: latitudine e longitudine). Fatto questo che mi ha impressionato molto negativamente, non tanto al pensiero dei poveri impiegati e dei clienti costretti a nuotare davanti agli sportelli, quanto perché mi sarebbe toccato tirare fuori il canotto dal garage e farmi una bella pagaiata per raggiungerla e non ne ho affatto voglia. Mi sa proprio che non ritirerò il premio...

sabato 26 novembre 2011

Nina ti te ricordi la nostra Venezia? (ultima parte)

(segue...)
Ogni veneziano sopra i cinquant'anni potrebbe elencare una serie infinita di piccole meravègie e consuetudini perdute. Tanto che credo si dovrebbe costituire una sorta di museo della memoria del vivere quotidiano per non far dimenticare ai nostri figli quanto era bella e vivibile la città prima della calata del turismo di massa, quello con le infradito e le braghette corte degli inclusive tour da Jesolo e Caorle fino al Garda, che uniforma e appiattisce tutto.


Tourism with umbrella (1971)


Non vi dico con quanta nostalgia io ricordi i turisti colti e silenziosi dei primi anni ’60, in giacca di tweed e con la guida Routard o Baedeker sottobraccio, ma anche gli studenti giramondo di una volta. Quelli con l’Europe 5 dollars a day che spuntava dallo zainetto con il sacco a pelo per dormire ammucchiati all’ostello della Giudecca e che poi li trovavi a contemplare assorti un capitello o una vera da pozzo nei campielli più remoti e che nelle calli strette si scostavano per lasciarti il passo.

Flute & Venice (1971)

A parte mio figlio, la sua ragazza e i suoi amici, che a volte di ritorno dalle passeggiate veneziane ti raccontano entusiasti di aver mangiato un ottimo Kebab in Strada Nova (spero sia solo perché sono cronicamente a corto di soldi) grazie ad un turismo di bocca buona che siede ai tavolini pasteggiando (quando va bene) a pizza, lasagne alla bolognese e cotoletta impanata di platessa surgelata spacciata per filetto di San Piero, anche le più belle ricette della nostra tradizione oggi sono scomparse di fronte all’incultura di chi, facendo un frullato indistinto di italianità, trova normale mangiare piadine a Torino, tagliate di chianina a Trento, comperare la statuetta con la torre di Pisa in Piazza San Marco e sentire i tenori sulle gondole cantare “O sole mio”.  Così di molti piatti delle nostre mamme (appresi delle nonne) tra qualche anno resterà solo il ricordo.  Come per le moleche e le masanete, che altro non sono che i granchi di laguna prima e dopo il periodo della muta (i molecanti sono dei pescatori abilissimi e molto ricercati che, infilando le mani dentro i cestoni dei granchi appena sollevati dall’acqua, riescono a tatto a capire quali siano già in muta e quali no).

Ma dai! Davvero sono ubriaca? (1971)

Nel primo caso, giacché sono tenerissimi, si mangiano per intero e fritti dopo aver fatto loro sorbire l'uovo sbattuto prima di infarinarli, in modo da formare al loro interno una frittatina. Sicuramente crudele, ma il risultato toglie ogni senso di colpa e poi almeno vanno in padella con la pancia piena, mica come gli astici o le aragoste. Nel secondo caso, i granchi si sgranocchiano e si succhiano con grande godimento dopo averli lessati, mondati delle zampe e delle chele e fatti insaporire per qualche ora nell’aglio, prezzemolo e olio. Rompere con una leggera pressione in punta di denti e succhiare le masanete (deliziose, credetemi) richiede tecnica e abilità consolidate altrimenti è facile trovarsi in bocca anche dei pezzettini di guscio. Quindi è un piatto da mangiare in privato e/o tra amici stretti, ma non in una cena formale, se non volete vedere gli invitati sputazzare imbarazzati.

All'osteria (1972)

Altrettanto da gustare assolutamente sono i delicatissimi bovoletti. In stagione qualsiasi bàcaro che si rispetti, da Campo delle gatte a Sant’Alvise non può non avere sul banco una terrina di queste deliziose lumachine cotte e lasciate riposare per ore ad insaporirsi con tanto aglio, olio di frantoio e prezzemolo. Sono da sorbire con l’aiuto degli stuzzicadenti, di un calice di fresco Prosecco di Valdobbiadene e chiacchierando amabilmente senza fretta (a Venezia la fretta è bandita e lasciata alla cultura altrui) tra amici, meglio avendo di fronte la persona amata. Superfluo ricordare in tal caso che, dovendo lavorare di stuzzicadenti tenendo i bovoletti con le dita, è sconsigliato lasciarsi trasportare da slanci affettivi improvvisi per non ungere d’olio l’amata o l’amato con effetti deleteri per il proseguire del rapporto. Allo stesso modo ricordo che masanete, bovoletti e piatti simili rendono immediatamente “Agliopositivi” e, per l'alto contenuto di prezzemolo, regalano agli incauti il classico "Sorriso primavera". Pertanto, qualora fosse in programma, potrebbero rovinare l’intimità della serata.

L'Osteria al ponte,  con il vino del Piave, che oggi non c'è più (1971)

Tra i pochi inconvenienti della nostra gastronomia, ricordo che quando la mia mamma andava a prendere i granchi al mercato, arrivava a casa con le bestiole che scappavano fuori della borsa, un po' come le tarantole in "Aracnofobia", e bisognava inseguirle per tutta la cucina, stanandole con il manico della scopa anche da sotto il frigorifero (così come l'anguilla, che era veramente un irriducibile, tanto che veniva messa in pentola con l'onore delle armi).


Pescando ancora a caso tra i tanti piatti favolosi e testimoni di una sapienza secolare posso citare la spienza (la milza) bollita a pezzetti fino a farli talmente morbidi da spalmarli come una crema, aromatizzata con salvia, alloro, olio e aceto, sul pane croccante, il Rumegàl (l’esofago della mucca) i nervetti con le siègole (le cipolle), la sopa de tripe (zuppa di trippe) e la castradina da mangiare nel giorno della Madonna della Salute. Quest’ultimo era un piatto davvero strong, solo per stomaci forti, che andava cotto per ore a fuoco lento in una pentola di terracotta e che prevedeva come ingrediente principale della carne secca e affumicata di montone della Dalmazia (fino agli anni '70 se ne comperava a quintali, oggi è introvabile e si ripiega sul normale castrato), tagliata in pezzettini e da stufare con le verze. La castradina andava fatta riposare tutta la notte per poter togliere alla mattina con il mestolo l’imponente strato di grasso in emersione e, anche se per credenza popolare la Madonna della Salute nella sua ricorrenza avrebbe provveduto a sanare gli indisposti, era prudente in ogni caso tenere a portata di mano il bicarbonato (l’Alka Seltzer per i più abbienti).

Mozzarelle con l'acciuga, sardelle fritte, baccalà in pastella...
le mille delizie dei bacari veneziani per pranzare a poco prezzo 


Appena più leggera l’Anara col pièn (l’anatra ripiena di un trito di soppressa, fegatini, pane, parmigiano, prezzemolo, noce moscata e uova) che, assieme alle sarde in saòr, viene tuttora consumata tradizionalmente sulle centinaia di barche all'ancora davanti a San Marco, durante la notte del Redentore (anche se lo scorso anno degli amici sacrileghi mi hanno raccontato di aver mangiato sushi). Io però, come ho già avuto modo di raccontare, preferivo le salcicce bruciacchiate alla scottadito e sabbia, che venivano arrostite al suono delle chitarre (o mare nero, mare nero, mare ne..) sui falò notturni della spiaggia degli Alberoni, mentre si beveva birra tiepida e si aspettava di fare il bagno nudi nell’Adriatico (che di notte, anche se sei a luglio, è tanto freddino) lucente sotto la luna. Che poi ci si bloccava la digestione esattamente come a quelli che s’ingozzavano d’anatra sulle barche, ma almeno noi ci si divertiva di più (e magari ci scappava anche la pomiciata nascosti tra le dune e i canneti).


i consigli delle osterie veneziane

Un altro piatto saporitissimo che si preparava con il castrato era il riso in cavromàn. Il castrato (meglio la parte della schiena che è più grassa) andava cotto per bene nel soffritto classico e appena aveva preso colore si aggiungevano i pomodori pelati, un pezzettino di stecca di cannella e lo si lasciava cuocere per due ore aggiungendo ogni tanto del brodo. Poi si aggiungeva il riso e lo si cuoceva normalmente, mantecandolo alla fine con formaggio e burro. Oggi però è difficile trovare macellai che abbiano la carne del castrato (così poco dietetica in un mondo che ormai mangia solo vitello esangue), se non ordinandola per tempo, come la lingua per il lesso misto. Ovviamente, i nostri risotti dovevano essere rigorosamente “all’onda”, così come la tradizione imponeva che infilando il cucchiaio nella pasta e fagioli (con i borlotti di Lamon, le cotiche e i cannolicchi) questo dovesse rimanere dritto in piedi, come una sentinella. Detta pasta e fagioli, era una delizia mangiata fredda il giorno dopo e inglobandoci dentro il radicchietto (amarognolo) di campo condito con olio e pepe. Provare per credere…

Tipica osteria veneziana dove ci si può rifocillare a poco prezzo 

Tra i piatti di pesce tipici da gustare (la preparazione, semplicissima, può essere applicata a qualsiasi tipo di pesce se non piace l'anguilla) cito anche il bisato all’ara, cioè l’anguilla che i soffiatori di vetro delle fornaci di Murano mettevano in tranci sui mattoni roventi del forno a cuocersi nel suo stesso grasso e senza condimenti, se non il profumo di un letto di foglie d’alloro, e il cremoso risotto di un tipico pesce povero della laguna dalle carni piuttosto grasse e spinose (sostituito ovunque dal più banale risotto di pesce con l’onnipresente rucola) che, per tradizione, andava gustato solo dopo aver scavato con la forchetta una canaletta a croce nel piatto e averla profumata con una spruzzatina di limone e una spolverata di pepe. Oggi è tornato in voga, ma a caro prezzo, il fritto di anguelle (i minuscoli pesciolini che si pescavano con la reticella vicino agli imbarcaderi e che le signore ricche davano ai gatti senza sapere cosa si perdessero), mentre sono purtroppo scomparse le ganassètte (la parte interna e cartilaginosa delle branchie) ottenute dalle teste dei più svariati pesci che le mamme povere si facevano regalare in pescheria all’ora di chiusura e che, infarinate e fritte, profumavano di mare ed erano deliziose.

la storica osteria Al Codroma, in zona Angelo Raffaele

Per fortuna, anche se molti proprietari hanno trasformato i loro locali in improbabili Wiener Stube con annesso Brätwurstel mit senf e boccalone di birra diuretico o hanno ceduto l’attività ai cinesi, resistono ancora e andrebbero censiti e conservati come un bene prezioso molti bacari (osterie) anche se non sono più fumegosi come una volta e hanno perso tutta quella clientela di vecchi e arguti beoni, studenti perdigiorno, tenori sfiatati e tuttologi. Sono quei locali modesti e straordinari, alternativi ai ristoranti dei turisti, dove con pochi soldi, se non vuoi aspettare la pastasciutta o il risotto che vengono sfornati verso mezzogiorno, ti puoi fare ancora un vero pranzo con i loro innumerevoli cicchetti: i folpètti e le aringhe fumegàe, le sepoìne roste (seppioline alla griglia), le crocchette di carne e patate o di tonno, il baccalà fritto o mantecato, il musetto con il kren, le sardèe in saòr, i pevaròni rosti, la frittatina di verdure e il mezzo uovo sodo con l’acciughina distesa sopra, disposti ordinatamente sui banchi di marmo e magari bevendo il torbolin (il mosto) e il proibitissimo clinto (scuro, aspro e dal profumo di fragola) servito nella ciotola di terracotta e venduto sottobanco (anche ai vigi­li.)

Osteria "dalla vedova" o Leon d'oro, in Strada Nuova

Questa nella foto, che ora mi pare si chiami Leon D’oro, ma tutti la conoscono come “dalla vedova” è una delle più belle e antiche, tanto che anni fa alcune delle sedie avevano ancora l’aquila imperiale austroungarica intagliata sullo schienale. Si trova in una minuscola calletta che si apre su Strada Nuova, dalle parti dei santi Apostoli. Per anni, all’uscita da scuola, mi ha gratificato con delle crocchette di carne e patate (aglio e prezzemolo quanto basta) da svenimento. Ieri, con il cuore in gola, le ho ritrovate, appena sfornate e fragranti come le avevo lasciate nei miei ricordi.

Mi sono quasi commosso…prima di azzannarne sei di fila.

giovedì 24 novembre 2011

Nina ti te ricordi la nostra Venezia? (seconda parte)


(segue...)

Ancora una dozzina di anni fa, per la pubblica via, erano vendute da floride contadine le uova e i fiori del Montello,  portati a spalla per ponti e calli dentro grandi cestoni di vimini, mentre un omino, in campo San Lio, proponeva incessantemente le pierette per accendere il gas, ma anche le lamette "Bolzano" per il rasoio. Una volta al mese passava in calle, annunciato dal caratteristico richiamo: el Gua! , l’arrotino che riparava gli ombrelli e affilava i coltelli da cucina pedalando di gran lena sopra una rugginosa bicicletta con la mola, in un nugolo di scintille che volavano in alto prima di spegnersi sui masegni. Fino agli anni sessanta passava per i canali, annunciato da alte grida, il barcone della fabbrica del ghiaccio che era alla Giudecca, con le donne che strillavano a loro volta dalla finestra le ordinazioni  per riempire le ghiacciaie di casa. Le sbarre di ghiaccio azzurrino, arpionate con grandi uncini di ferro, venivano portate a spalla su per le scale dai facchini che le appoggiavano su un sacco di juta ed era buona creanza offrire loro un bicchiere di vino come mancia. Immagino che a fine turno fossero ubriachi.  

Una piccola corte nascosta dalle parti di Ruga Giuffa

Al Lido, l’alternativa al filobus o alla bicicletta per la spiaggia era la carrozzella trainata dal cavallo. Davanti alla fermata della motonave ne stazionavano quattro o cinque, con i ronzini sempre con il muso immerso nel sacco della biada. Credo però che l’ultimo cocchiere sia andato in pensione una trentina d’anni fa. Io ho fatto ancora in tempo a salirci sopra, ma non so se sia una cosa di cui vantarsi…

Così come non se vantarmi di aver fatto in tempo a veder recitare il grande Cesco Baseggio (il nostro Gilberto Govi) e gli spettacoli di marionette di Podrecca che andavano in scena al teatro Ridotto durante il carnevale. Ho visto anche, accovacciato sulla sabbia in mezzo a decine di altri bambini, gli spettacoli di marionette che ogni sabato pomeriggio alle quattro avvenivano sulla spiaggia del Des Bains, con Arlecchino, Pantalone, Colombina e Fracanapa che pigliava tutti a bastonate. Però quelli ha fatto in tempo a vederli anche mio figlio, dunque in questo caso non mi sento tanto decrepito.

Tra le figure familiari ad ogni veneziano di una certa età, mi piace ricordare anche un omone con dei grandi baffi alla Stalin che, con un vocione tenorile da strillone, che si sentiva fino in Merceria, vendeva con qualsiasi tempo: eeèl Gaaasetìno (Il Gazzettino) e i biglietti della lotteria all’angolo di campo San Salvador. So che è mancato alcuni anni fa e con lui è un altro pezzettino di Venezia che se ne è andato. Un po’ come le tessere dorate dei mosaici di San Marco che si potevano accarezzare con la mano attraversando la basilica sugli stretti camminamenti interni a cui si accedeva dalla loggetta superiore, prima che li chiudessero alle visite perché quelle le fregavano i turisti per ricordo.

Un piccolo chiostro adiacente San Piero di Castello


Non c’entra nulla con il taglio edificante del racconto, però, tra le figure familiari di quella Venezia che è scomparsa mi è venuta in mente anche la Maria “C” che non era una nave da crociera, ma un’ anziana signora della quale si potrebbe dire che ai suoi tempi era stata una nave scuola.  La “C”  sottintendeva il nomignolo dialettale con il quale era nota in città e che, anche se è difficile crederlo, in fondo era affettuoso, ma è tuttora irriferibile. Si trattava della decana (sicuramente oltre i settanta) delle uniche sei meretrici di tutta la città, a loro volta ampiamente in età pensionabile, che battevano la zona tra la Frezzeria e la Bocca di Piazza e che rendevano imbarazzante aspettare Donatella (quella sciagurata era sempre in ritardo) davanti al cinema San Marco perché ogni volta iniziavano dialoghi tragicomici per indurmi a cedere alla loro seduzione. Cosa del tutto improbabile, visto che, a prescindere da ogni altra considerazione, quelle matrone erano talmente inguardabili per età e stazza da non indurre in tentazione neppure un assatanato. Della Maria la vox populi diceva che da ragazza fosse molto avvenente e anche che, oltre ad aver svezzato almeno una generazione di veneziani, fosse stata addirittura l’ultima donna di D’Annunzio.

Io la ricordo con affetto come una vecchietta tutta pelle e ossa, che girava come un fantasma per le calli infagottata in una vecchia pelliccetta che aveva conosciuto tempi migliori e indossando un cappellino con la veletta del tutto fuori moda. Abitando dalle nostre parti la incontravamo talvolta nei bar e mia madre, che l’aveva in simpatia, le offriva sempre un bianchetto o le sigarette. Qualche volta, anche se era molto schiva, si riusciva a scambiare quattro parole con la Maria e l’impressione che ne riportavo è che fosse una donna di considerevole intelligenza, ironica e con una buona cultura, tanto che mi chiedo ancora oggi per quali percorsi sfortunati si fosse ridotta a quella vita.

Il canale di San Pietro di Castello, dove ormeggiavo la mia piccola barca


Tornando a parlare di ricordi meno tristi un vero veneziano sa che in un tempo felice esistevano i Caramel Bepi, gli ometti in camice bianco e vetrinetta appesa al collo che vendevano la pinza e un castagnaccio caldo, intriso d’olio, con la crosticina bruciacchiata e pieno d’uvetta davanti all’uscita della scuola, così che poi ti divertivi a stampare ditate unte sui libri, sulle cartelle e sui cappotti dei compagni di classe, per la gioia delle loro madri, che già erano furenti perché i pargoli si presentavano a tavola belli rimpinzati. Nei mesi invernali e di scuola c’erano agli angoli delle strade e soprattutto al mercato di Rialto, anche i venditori di patate americane arrostite, di caldarroste e perfino di pere cotte immerse  nel liquido di cottura appena zuccherato (perché lo zucchero costava), ma queste ultime cose m’ingolosivano di meno, soprattutto le pere, che facevano tanto ospedale.

La domenica i Caramel Bepi gironzolavano invece per piazza S. Marco, vendendo gli spiedini con la frutta caramellata più appetitosa del mondo (chicchi d’uva, albicocche secche e prugne). Se non avevo rotto tanto le scatole durante la messa in basilica, ne potevo avere uno come premio, cosa che, peraltro, non succedeva spesso. Era un po’ come per i soldatini di Linetti, in Merceria, che allora era il negozio di giocattoli per definizione. Nella vetrinetta d’angolo, circondato attorno alla sua tenda dai soldatini dei cow boy e dei nordisti, c’era un bellissimo capo indiano con il tomahawk e la corona di piume d’aquila in testa che era il mio sogno proibito (anche perché costava parecchio). Quando ci passavo davanti, per staccarmi dalla vetrina mia madre mi diceva: “Se ti comporti bene, al ritorno te lo compero”. Poi ogni volta mi fregava cambiando strada. Non sono mai riuscito ad averlo ed immagino sia uno dei miei traumi infantili da raccontare un domani all’analista.

Una corte privata dalle parti di Campo Santa Giustina


Oltre agli spiedini di frutta caramellata, tra i dolci che amavo di più c'erano i croccantini con le mandorle, le nocciole o i bagigi (le noccioline americane). Questi ultimi, con un po’ di buona volontà, si trovano ancora nei panifici o nelle trattorie tradizionali (L’Antica Bessetta nei mesi invernali te li offriva a fine pasto assieme con lo zabaione caldo e i biscottini ebraici da pucciare dentro. D’estate, invece, li proponeva con un calice di ramandolo fresco). Gli spiedini di frutta caramellata sono ormai scomparsi da oltre vent'anni e, temo, per sempre. Ho provato a farli in casa con dell’uva bianca da tavola e mia moglie sta ancora brontolando perché, seguendo le istruzioni di immergere la frutta nel caramello rovente e di raffreddarla subito sul marmo le ho appiccicato tutto il piano della cucina. Per mia fortuna, Morena, quando ha i bioritmi giusti, è molto brava a cucinare il castagnaccio, per non parlare della sua profumatissima pinza fatta con il pane vecchio (o la farina gialla di polenta), l’uvetta, i fichi secchi e i semi di finocchio, che appena esce dal forno mio figlio ed io iniziamo a soffiarci sopra come mantici per divorarla prima possibile. Anni fa, quando aveva voglia e tempo, sapeva anche preparare i sùgoi (il mosto di vino cotto con zucchero e farina fino a fargli raggiungere la consistenza di un budino) come facevano le nonne di una volta sulle cucine economiche a legna. Oggi, in stagione, si trovano ancora in qualche supermercato, ma quelli fatti in casa erano un altro mondo.

Lenzuola stese sul canale dietro Campo San Rocco


Anche gli storti con la panna montata della latteria Zorzi al ponte della Regina hanno segnato un’epoca, insieme con i gelati di Glacia in Merceria, i ghiaccioli da 10 lire al tamarindo e all’anice e la sua panna in ghiaccio racchiusa tra due cialde di wafer, con la ciliegina candita all’interno. In via Garibaldi, nel cuore del sestiere di Castello, c’era, invece, la Gelateria Toscana che vendeva gelati artigianali fatti con la polpa della banana e i pinguini al fiordilatte ricoperti di vero cioccolato fondente. Alle Zattere c’è tutt’ora il mitico Nico con il suo gianduiotto con la panna montata. Venire a Venezia e non sedersi a gustarlo sui tavolini con vista strepitosa sul canale della Giudecca, è come andare a Roma senza vedere il papa.
(segue...)