venerdì 4 novembre 2016

Della spaventosa "Aqua granda" del 4 novembre 1966 e di noi che l'abbiamo vissuta


Parlare dell'acqua alta per un veneziano è come farlo dell'anziana e bisbetica vicina di pianerottolo che abita lì da quando sei nato e che se la incontri per le scale a volte ti saluta, a volte fa finta di non conoscerti e se ti suona il campanello è per romperti le scatole e lamentarsi di qualcosa. Dunque, ce l'hai, non puoi farci nulla, te ne fai una ragione e l'acqua alta te la tieni perché in fondo è una parte di quel tuo mondo veneziano così sorprendente per gli altri e che ti rende unico. Poi, se proprio devo dirla tutta, a quella vecchia signora dispettosa che ogni tanto ti manda i piedi a mollo nell'acqua gelida di  novembre alla fine succede che ti ci affezioni. Anche perché ti dona perfino qualche sorriso quando la famigliola di turisti ti chiede a che ora facciano l'acqua alta in Piazza San Marco e tu gli rispondi che in piazza la fanno alle otto di sera, ma volendo c'è anche in replica alle dieci e mezza in campo San Polo. Oppure quando tu, che hai gli stivali di gomma, puoi lanciare sguardi di compassione verso le persone incazzate sopra una passerella che finisce di colpo in mezzo a un campiello allagato perché gli spazzini che dovevano posare le altre "i xè andai a ciavàrse n'ombra" in qualche bar e magari puoi anche decidere in "God mode" chi portare in spalla sino alla salvezza del prossimo ponte e chi no, scegliendo generalmente ragazze graziose con le quali scambiarsi il numero di telefono a salvataggio avvenuto.

Oppure mi tornano in mente le acque alte di quando andavo a scuola e che talvolta tra il giubilo generale significavano niente lezioni perché qualche professore risultava non pervenuto assieme a tanti compagni di classe. Io, purtroppo, disponendo di nonne, zie e madri previdenti ero dotato da sempre di stivaloni di gomma Pirelli alti sino al ginocchio e dunque non potevo esimermi, perché, anche se non li avessi avuti, la mia zia in questione all'epoca insegnava matematica e fisica nel vicino liceo scientifico e se a scuola ci arrivava lei non potevo non farlo io, visto che facevamo lo stesso percorso. Poi, davanti al portone del Liceo Foscarini, la cui fondamenta era molto bassa e tra le prime ad essere allagate, c'era sempre il preside Pareschi, che essendo di Ferrara di alluvioni del Polesine ne aveva viste a pacchi, pronto ad organizzare le squadre di soccorso degli studenti "stivalati" (come da circolare) ai colleghi e ai compagni di classe bloccati in calle Racchetta o sul ponte dei Gesuiti. Che voleva dire caricarsi le persone sulle spalle e portarle di peso sino davanti al portone. Ovviamente, le attenzioni maggiori erano riservate alle compagne di classe che venivano sempre messe in salvo con molta cura, soprattutto le più carine che venivano spesso issate sulle spalle facendo leva su punti anatomicamente rilevanti. Il professore di chimica, il temuto "Checco" gioia e delizia di intere generazioni di foscariniani, veniva spesso dimenticato sul ponte dei Gesuiti, che se lo pigliassero i bidelli.

In piazza con l'acqua alta e mio fratello con l'orrido cappellino
impostogli dai nonni grazie all'arrendevolezza dei suoi 11 anni.


Le stesse operazioni di salvataggio le avrei vissute diversi anni dopo quando, lavorando all'epoca alla Banca Commerciale che mi aveva incautamente assunto (del resto nemmeno io mi capacito ancora del perché fossi entrato in una banca essendo del tutto negato per quel mestiere), il direttore ci mandava a recuperare i colleghi che venivano da Mestre. Il problema era che la nostra banca per evitare lo scoccare di indebite scintille amorose o corteggiamenti tra colleghi e anche per una certa misoginia congenita, aveva poco personale femminile e quel poco che c'era era stato selezionato in base al criterio estetico "Tristezza infinita". Infatti, come avvenenza le nostre colleghe rivaleggiavano con la signorina Silvani di Fantozzi e spesso perdevano la tenzone. L'unica che si salvava ed era decisamente carina era una nuova impiegata di Treviso che la vox populi diceva assunta per la raccomandazione autorevole di un notabile doroteo. Infatti, c'era una vera e propria gara tra i colleghi per localizzarla e salvarla che spesso era risolta brutalmente con criteri gerarchici. Io, essendo all'epoca felicemente e fedelmente accasato con Donatella e non intendendo partecipare a quella competizione indecorosa anche per questioni ideologiche del tipo: "i democristiani già vivono sulle spalle degli studenti e della classe operaia, che almeno si salvino per conto loro", mi limitavo a portare all'asciutto gente che mi stava simpatica e una volta anche una famigliola di turisti americani bloccati sul ponte di San Moisè, che poi volle a tutti i costi lasciarmi "ten dollars" di mancia che conservo ancora nel portafogli come il primo dollaro portafortuna di Zio Paperone.

In quella  notte drammatica del 4 novembre del 1966, sarà stato per quelle raffiche rabbiose di tramontana che da ore flagellavano la laguna facendo cadere le tegole dai tetti e rovesciando gli ombrelli assieme agli scrosci di pioggia gelida e di stravento che t'inzuppavano anche le ossa, ma la vecchia signora dispettosa si mutò all'improvviso in una divinità furiosa, una Erinni portatrice di sventura e distruzione e capace di allagare la città come mai si era visto a memoria d'uomo, con tutto quel che ne seguì. Fu una notte di tregenda in cui il mare in tempesta con onde enormi spinto da un vento fortissimo ruppe gli argini ai Murazzi del Lido rischiando di spazzar via in un colpo Pellestrina e Malamocco (si seppe solo dopo quanto si fosse andati vicini alla tragedia) e di devastare la città. Ma accadde tutto nel giro di poche ore e nessuno aveva il presentimento di quanto sarebbe potuto accadere. Sembrava solo un'orrenda giornata invernale di novembre. Nulla di cui preoccuparsi e che non fosse già visto.


Mio fratello davanti ad una passerella portata via dalla marea
 e con addosso uno dei giacconi di montone grezzo che avevamo preso
a Gerusalemme e che nostra madre appendeva fuori sul balcone perché
a suo dire puzzavano troppo da pecora per stare in casa.

In quelle ore io partecipavo tutto in ghingheri e vestito da gran sera alla festa dei 18 anni di una ragazza di quella buona borghesia veneziana che allora frequentavo e m’invitava perché non giravo ancora per i cortei a prendere manganellate con il Manifesto che spuntava dal tascone dell’eskimo e la sciarpetta rossa di cachemire (dono ironico di mia madre al suo figliolo lungocrinito, rivoluzionario di bon ton). Tra una danza e l’altra avevamo sentito più volte il lamento lugubre delle sirene dell’acqua alta, quel suono che a mia nonna ricordava i bombardamenti e sbiancava in volto ogni volta che lo ascoltava, ma nessuno ci aveva fatto caso anche perché da noi nei mesi classici dell’acqua alta la cosa è normale. Poi, verso le due del mattino, con ancora la festa nel vivo e molta gente che stava ballando, dal momento che un po' mi annoiavo decido di tornare a casa. Saluto e ringrazio la padrona di casa, scendo e alla luce fioca della lampadina delle scale mi pare di vedere la palladiana dell’androne che sta tremolando. Mi fermo sorpreso, ma poi penso si tratti solo di qualche bicchierino di troppo, così scendo quell'ultimo scalino e mi trovo sgradevolmente con l’acqua gelata alle caviglie.

Maledico le maree e chi le ha inventate, apro il portone, scendo altri tre scalini che non ricordavo e l’acqua arriva di colpo alle ginocchia. Sorpreso dal trovarla così alta faccio istintivamente qualche passo in avanti lungo la calle per guardarmi attorno e in quel momento salta la luce in tutta la zona e tutto sprofonda nel buio pesto. Sento grida di sorpresa provenire dalla casa che ho appena lasciato, ma ormai il portone si è chiuso e il campanello, ammesso che riesca a ritrovarlo in quel buio, non funziona più. Provo a gridare, ma nessuno scende ad aprire o nemmeno mi sente. Così, siccome la casa dei miei nonni e di mia zia è solo a qualche calle di distanza e per fortuna ho anche le loro chiavi decido di raggiungerla. Quelle poche calli però si rivelano presto un cammino angosciante. Non ho punti di riferimento e cammino a tentoni come in un labirinto cercando di capire dove c'è il muro o la vetrina di qualche negozio, ormai l’acqua mi arriva all'addome, sono mezzo congelato da quel bagno nell'acqua gelida e sporca e inizio a sentire anche un forte odore di nafta che fa girare la testa. Da qualche finestra si vede tremolare la fiammella fioca di una candela, per il resto è tutto avvolto nel buio e non si sente alcun rumore, se non il miagolio straziante di un gatto rintanato da qualche parte e che deve passarsela male anche lui. Poi, per fortuna, dopo qualche minuto sento delle voci, mi faccio sentire e incontro due vigili con gli stivaloni e una torcia elettrica che mi dicono che c'è un vero disastro in città e mi ordinano di mettermi subito al sicuro, così mi faccio scortare sino a destinazione (che poi bastava girare l'angolo e fare un ponte ed ero arrivato). 

Quando ti viene il sospetto che se vedi il pavimento della calle tremolare
 non è perché alla festa hai bevuto troppo

Come salgo dai nonni, mentre la zia alla luce di un candelabro mi prepara un tè bollente e mi porta dei panni asciutti, provo a chiamare mia madre per tranquillizzarla, ma tutte le centraline telefoniche sono saltate e il telefono non dà alcun segnale. Aspetto sveglio le poche ore che ancora mi separano dal chiaro, poi poco prima delle sette esco per cercare di raggiungere casa mia, in Corte dell'Alboro. Il vento ancora forte continuava ad impedire alla marea di defluire dalle bocche di porto e quindi l'acqua non era affatto calata e in calle c'era ancora almeno mezzo metro. Così mia zia e la nonna, dopo aver rinunciato a convincermi che non era il caso di uscire di nuovo, mi aiutano ad imbragarmi alla meno peggio per affrontare la traversata. In casa c'è un paio di stivali di gomma, ma sono del tipo basso e quindi inutili. Però mia zia ha una specie di tuta in plastica che usa per sudare e perdere chili pedalando sulla cyclette. Il set è composto da una giacca e dei grossi bragoni argentati che si possono stringere sulle caviglie e alla cintura. Indosso solo i pantaloni gommati sopra una vecchia calzamaglia in lana del nonno e infilo i piedi dentro dei sacchetti di plastica della spesa e poi dentro gli stivali, sigillando il tutto con lo scotch da pacchi. La nonna insiste per strofinarmi le gambe con l'olio canforato per il freddo, ma rifiuto energicamente. Poi, sentendomi bardato come un palombaro, scendo in calle con la zia e la nonna affacciate in ansia alla finestra per vedere come procede il varo e inizio a camminare lentamente verso campo San Bartolomeo. Come ci entro dal sottoportico della Bissa per poco non mi scontro con un tizio che sta vogando sopra un sandolo. Lo spettacolo è incredibile: ci sono almeno altre tre barche e in acqua galleggia di tutto, compreso un gatto morto. C'è anche molta nafta uscita dalle caldaie delle case e l'acqua è lurida e maleodorante. 


Due giorni dopo nei canali galleggiava ancora di tutto

Guardo le vetrine del negozio della Luisa Spagnoli. All'interno ci sono vestiti che galleggiano e altri messi in salvo alla meno peggio con gli espositori sopra il bancone o appesi sugli scaffali più alti. Procedo ancora verso San Salvador e all'inizio delle Mercerie ci sono altre barche e soprattutto decine di scatole da scarpe e di cappelli di Marforio che navigano con loro. Però la zona è bassa e dunque il livello dell'acqua inizia a salire ancora. Ormai ce l'ho a metà del petto e sento che avendo superato la cintura sta iniziando ad entrare nei pantaloni appesantendomi le gambe neanche fossero di piombo. Così appena salito sul ponte dell'Ovo, all'asciutto (si fa per dire) scopro di assomigliare all'omino Michelin, con le braghe comicamente gonfie di litri d'acqua e allora decido di togliere tutto lo scafandro e di proseguire seminudo in calzamaglia, che tanto se proprio devo congelarmi almeno provo a camminare veloce.

In effetti, la cosa funziona e grazie anche al fatto che le altre zone da attraversare erano più alte e l'acqua arrivava solo alle ginocchia, dopo aver attraversato campo San Luca punteggiato dai libri della libreria Tarantola che galleggiavano a pelo d'acqua, arrivo finalmente a casa e trovo mia madre serafica in salotto che dopo un bacetto mi dice "Oh! bene, meno male che sei arrivato... asciugati, indossa gli stivali alti e vai a prendere tuo fratello che è uscito a cercarti cinque minuti fa e dovrebbe essere ancora in campo. Intanto ti metto su un caffè..."
La guardo stupito. "Scusa, mamma... ma non eri preoccupata per me?"
"Proprio no, quando mi sono svegliata questa mattina e ho visto l'acqua alta fin sul portone ho immaginato che o avevi dormito dalla tua amica o eri andato dai nonni. Sei stato da loro, vero?"
"Si... certo."
"Lo vedi? Avrai tanti difetti, ma su questo sei come me: quando serve te la sai cavare sempre. Lo so benissimo, altrimenti mica ti manderei in giro, cosa credi?".

Mia madre, che come tutti gli artisti era piuttosto stravagante anche nel modo di fare gli elogi, spesso mi lasciava nel dubbio che non si trattasse invece di un'ironia, ma in quel caso sentivo che era davvero un complimento e la cosa mi rende ancora orgoglioso oggi.

2 commenti:

  1. Divertentissimo stimo, nonostante la tragedia. Sembra di vederti con i barboni argentati ahah!! Questi murazzi non so che sono ...una protezione in muratura?

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  2. Grazie... in effetti dovevo essere molto buffo con quella muta argentata che poi si rivelò un epic fail. In quanto ai murazzi, si tratta di una diga, anzi di un muraglione piuttosto alto costruito con grandi macigni di pietra d'Istria che percorre gran parte della costa del Lido in direzione degli Alberoni e di Pellestrina per difenderla dalle mareggiate (fai conto il lato verso Chioggia, non quello verso Jesolo).

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