venerdì 15 maggio 2020

Di quel buffo capodanno del 1971 a Budapest e delle pene d'amore per una ragazza toscana


L’aver ritrovato cinquant’anni dopo i tempi dell’università il mio amico veneziano Mario, ora nella sorprendente veste di chef, mi ha ovviamente riacceso i ricordi di un viaggio a Budapest per festeggiare il capodanno del 1971 che avevamo fatto assieme a suo fratello Edoardo e altri amici veneziani ed ora lo racconto. L'idea di quel viaggio era nata casualmente perché poco prima di Natale ero appena stato mollato per l’ennesima volta dalla mia ragazza con la solita tiritera del “Non ti impegni abbastanza negli studi, sei già al secondo anno e hai fatto solo tre esami” del “Pensi solo alla chitarra” e, soprattutto, del “Mi ero spesa con il nonno per farti fare pratica nel suo studio da avvocato, ma ti sei rifiutato…” alla quale ormai non mi degnavo nemmeno più di replicare perché tanto sapevo che bastava lasciar passare due o tre settimane e ci saremmo rimessi assieme. Però mi seccava passare le feste da solo e così Mario mi aveva proposto di andare con loro e altri amici a trascorrere il capodanno in Ungheria con un viaggio organizzato dal CTS (il centro turistico universitario) in collaborazione con l’Etas Kompass che era l’agenzia di viaggio dei sindacati. Così prendemmo nel cuore della notte un treno riservato che partiva da Genova raccogliendo lungo il percorso tutti i partecipanti dalle altre regioni italiane (quasi duecento persone) ed era in fortissimo ritardo dovendo aspettare le coincidenze e lasciar passare i treni ordinari. Anche se avevamo prenotato le cuccette, quella notte non riuscimmo a chiudere occhio, un po’ per l’eccitazione del viaggio, un po’ perché c’era da fare amicizia e conoscere tanta gente e poi perché tra quelli che suonavano la chitarra e cantavano in qualche scompartimento, con grida, risate e schiamazzi vari non sarebbe stato possibile. 




Comunque, tra la stazione di Villach e l’arrivo al confine ungherese con la sosta per far salire la Polizia doganale, mi presi una cotta fulminante per una ragazza fiorentina, una morettina ciarliera e dalla battuta pronta di nome Federica, che era al terzo anno di biologia, era in viaggio con un gruppo di amici della piccola compagnia teatrale in cui recitava e che, cosa assai interessante, si era appena lasciata con il suo ragazzo, dunque era libera e bella, proprio come me. Federica omise però di informarmi di un dettaglio molto importante, ma ne parleremo tra poco. Quando il convoglio ripartì cigolando quasi all’alba, dopo l’interminabile controllo dei visti e dei passaporti e il cambio della locomotiva, percorse pochi chilometri in un paesaggio da fiaba dove correvano solo i binari e l’orizzonte della pianura sconfinata era interrotto a tratti da qualche fattoria e rade macchie di alberi, ma poi si fermò nuovamente in una stazioncina con poche case persa in mezzo ai campi sepolti dalla neve. Restammo fermi oltre un’ora a domandarci quale fosse il motivo di quella sosta, che aveva degli aspetti inquietanti dato che si vedeva qualche soldato lungo i binari che sorvegliava i vagoni e alcuni ragazzi nel corridoio cominciarono a scherzare cantando in coro dal finestrino “Viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tze Tung” con il pugno chiuso perché secondo loro il Patto di Varsavia ci stava invadendo ed era bene far capire da che parte stavano. Poi, la risposta ai nostri quesiti si palesò sotto forma di un cestino da viaggio portato a destinazione da un camioncino e distribuito a tutti i partecipanti perché il programma prevedeva la colazione e, anche se eravamo in ritardo di molte ore, bisognava rispettarlo. Ricordo che il cestino comprendeva un salamino affumicato, una pagnotta, una specie di formaggino Mio e una mela, ma con la fame che avevamo ci sembrò una manna dal cielo. C’era anche un succo di pesca che con il salamino affumicato faceva a pugni, ma con la sete che ci tormentava da ore andava benissimo. 




Arrivati in stazione a Budapest ci accolse una banda che suonava sul binario per accogliere i “compagni lavoratori italiani”, giacché il treno era organizzato dai nostri sindacati, ma essendo noi tutti studenti disoccupati ce ne impipammo bellamente correndo a prendere posto sui bus che ci aspettavano. L’albergo era un enorme “Kombinat” da cinquecento camere sulla Collina delle rose con una bellissima vista sul Danubio e il Ponte Margherita, le stanze erano più che dignitose, ma caldissime, che se toccavi i termosifoni ti ustionavi, ed essendo noi in regime di pensione completa si mangiava anche benino (per noi abituati alle mense studentesche), con porzioni abbondanti, ma servite a rilento da cameriere con l’aria mesta e, oltre a ciò, con la presenza ossessiva nei contorni e nelle insalate delle rape rosse e dei cetrioli, che te li proponevano anche a colazione. Al secondo giorno, dopo il quarto piatto di rape e cetrioli, decidemmo che, essendo i prezzi convenientissimi, valeva la pena di provare la cucina locale nei ristoranti del centro. Così, mi feci coraggio, andai da Federica, che era rimasta al tavolo a fare colazione da sola, e le chiesi se più tardi le sarebbe piaciuto venire a pranzo con noi tre. 




Lei accettò volentieri e così al momento di uscire ci facemmo chiamare un taxi e siccome avendo abitato a Belgrado ricordavo ancora qualcosa del serbo-croato, per fare colpo sulla ragazza dissi ai miei amici di lasciar fare a me e chiesi al tassista se oltre a portarci in Vàci Utca (la via del passeggio e dello shopping) poteva anche indicarci qualche ristorante caratteristico. Lui però sembrava molto scortese e rispondeva a grugniti, tanto che Federica e i miei amici iniziarono a prendermi per i fondelli sulla mia conoscenza delle lingue slave. A quel punto il tassista si voltò a guardarci e ci chiese in inglese “Ma perché diavolo parlate russo se non siete russi? Di dove siete?” e così, una volta appurato che eravamo italiani, diventò gentilissimo e loquace e ci indicò anche un locale dove si mangiava la cucina tradizionale in modo eccellente. Dopo un lauto pranzo a base di porkolt (quello che noi chiamiamo gulasch) arrosto Esterhazy e palacinke al formaggio e funghi, debitamente annaffiato da un paio di bottiglie di Egri Bikaver e da qualche bicchierino di palinka di ciliegie, ci concedemmo una lunga passeggiata per i negozi del centro durante la quale Federica, che ormai camminava tenendomi abbracciato, mi raccontò nuovamente le sue pene d’amore (anche con la lacrimuccia) e le misi a disposizione tutta la mia esperienza e i miei saggi consigli in tema di abbandoni e riprese sentimentali. 
 


La mattina dopo mentre facevamo colazione Federica venne al nostro tavolo per sapere se avevamo voglia di andare con lei e i suoi amici ai Bagni Széchenyi, che sono uno dei più famosi stabilimenti termali della città, a provare il brivido del bagno all’aperto con l’acqua che fuma mentre fuori ci sono dieci gradi sottozero, che loro l’avevano fatto il giorno prima ed era bellissimo. Naturalmente nessuno di noi aveva pensato di mettere in valigia il costume da bagno e la cuffia in pieno inverno e, anche se capivo dal modo come mi guardava che ci teneva molto alla mia presenza, preferii rinunciare, non solo perché negarsi e farsi desiderare da una donna rientra nelle tattiche classiche del corteggiamento, ma anche perché uno dei suoi amici aveva tirato fuori dalla borsa, per mostrarcelo, il costume fantozziano da socialismo reale che si poteva comperare direttamente all’ingresso del Bagno e francamente non era il caso. 

Verso le dieci di sera, decidemmo assieme ad altri ragazzi rimasti ad annoiarsi in albergo di fare una passeggiata “audace” nella notte ungherese lungo il Danubio, affrontando un freddo cane (tutto il giorno eravamo stati a -10°) e la neve che scricchiolava come vetro sotto ai piedi. Strada facendo Federica ed io, con la scusa di affacciarci al parapetto per guardare dei blocchi di ghiaccio portati dalla corrente, rimanemmo volutamente indietro rispetto al gruppo. Lei, dopo un lungo silenzio, indicandomi un bellissimo cielo stellato sopra le nostre teste mi disse che si sentiva felice quella sera ed aggiunse con gli occhi che le luccicavano: “Non mi chiedi perché?” . Io provai un tuffo al cuore perché capii che stava per scoccare la scintilla del primo bacio e per un attimo immaginai il tepore delle sue labbra sulle mie. Ma poi lei aggiunse: “Lo sono perché stamattina mi sono rimessa con Enzo e volevo che tu lo sapessi per primo perché sei stato davvero carino con me in questi giorni e mi hai aiutato tanto”. Purtroppo il piccolo dettaglio che aveva omesso di raccontare quando c’eravamo conosciuti era che il suo ragazzo con cui si era lasciata non era rimasto a Firenze come credevo ma viaggiava assieme a lei e al suo gruppo di amici. Essendo uno che sa perdere sportivamente, o almeno ci prova, le risposi che ero davvero felice per lei per questa bella notizia, ma probabilmente mi uscì lo stesso tono di voce che avrei avuto dopo un goal preso dall'Inter al novantesimo e non dovetti essere molto credibile, tanto che lei dopo avermi scrutato per bene con lo sguardo indagatore per capire se fossi sincero decise di tagliar corto invitandomi ad allungare il passo per raggiungere gli altri. 




Questa delusione imprevista giustificò ampiamente gli eventi successivi e la sbronza triste durante il veglione in albergo della sera seguente, di cui, in queste foto qui sotto, si vedono già i segni nella mia espressione malinconica e nel numero delle bottiglie già scolate. Durante il cenone, guardando verso il tavolo di Federica individuai finalmente chi fosse questo Enzo e, sempre per la faccenda della mia sportività, capii che in realtà non avrei avuto alcuna possibilità perché era un gran bel ragazzo, alto, magro, con l’aria molto più adulta della mia e con gli occhiali da intellettuale. Era anche precocemente stempiato, per amor di cronaca, ma immaginavo che lei non ci facesse caso. Però, malgrado cercassi di mettermi il cuore in pace, la cosa mi rodeva assai, tanto da trovare fastidiosi e insopportabili i cinque violinisti tzigani in abito tradizionale della Pustza che suonavano tra i tavolini e che dopo la lauta mancia pretesa da tutti i clienti prima di uscire di scena suonarono per gratificarci in quanto italiani “funiculì funiculà” e “o’sole mio”. Così, di tristezza in tristezza, al momento dell’arrivo dell’ennesima insalata di rape rosse e cetrioli, mi alzai e, infilato il giaccone, me ne uscii a camminare fuori dall'albergo dove c’era già la gente alticcia che faceva dei girotondi per strada con chiunque s’incontrasse anche se non era ancora la mezzanotte. Dopo aver trovato un gruppo di ragazzi genovesi della nostra comitiva, finimmo ad aspettare l’anno in un locale enorme dove sembrava ci fosse la nebbia da tanto fumo che c’era e dove cameriere trafelate e in un vociare assordante servivano in continuazione piatti enormi di wurstel affumicati con patate e bicchieroni di birra da litro, che, più che a Budapest, sembrava di essere all’Oktoberfest. 




Tornato in albergo e rinunciato subito a telefonare a casa per fare gli auguri di buon anno a mia madre, giacché davanti ai due soli telefoni nella hall abilitati alle chiamate all'estero e solo dopo la richiesta al portiere, c’era una coda interminabile, trovai i miei due compagni di viaggio tristi e mogi perché le due ragazze magiare spuntate dal nulla all'inizio dei balli per sedersi al loro tavolo, si erano dileguate dopo essersi fatte offrire di tutto. Così, ordinata una bottiglia di Palinka per scacciare i brutti pensieri, ricordo solo che ad un certo punto Mario ed Edoardo andarono a dormire ed io rimasto solo ad osservare le ultime coppie che ancora ballavano e a finire la bottiglia, che era un delitto lasciarla mezza piena sul tavolo, ho pensato che l’indomani avrei chiamato la mia ragazza per dirle che accettavo di fare praticantato nello studio legale di suo nonno e al ritorno avrei studiato Diritto Costituzionale ed Esegesi delle fonti del Diritto Romano per la prossima sessione di esami. Poi, devo aver preso sonno e credo di essere scivolato dalla sedia sul pavimento, perché mi sono risvegliato all'alba sotto al tavolo con le cameriere che stavano già mettendo a posto per le colazioni e ridacchiarono parecchio alla mia vista con commenti che immagino salaci, ma che per mia fortuna erano in ungherese. 




Il due gennaio, dopo un giorno intero passato a dormire e a bere caffè per recuperare dalla sbornia, abbiamo lasciato l’albergo (Federica era sparita chissà dove) per la prevista breve escursione del mattino in una cittadina storica lungo il Danubio dal nome impronunciabile, ma alla fine non ci andammo nemmeno perché i nostri bus furono bloccati nel parcheggio in attesa della Polizia. Infatti, rifacendo le stanze, il personale si era accorto che erano spariti degli asciugamani di spugna e ora volevano fare ispezionare tutti i bagagli degli ospiti per trovarli, giacché quei beni erano di proprietà dello Stato e del popolo ungherese e la faccenda per loro era piuttosto seria. I colpevoli, quattro ragazzi di Livorno che erano su un’altro pullman, vennero fatti scendere, multati, denunciati e spediti a casa con foglio di via e noi, sicché tra una cosa e l’altra si erano perse quattro ore, nel pomeriggio, dopo un semplice panino per pranzo, fummo accompagnati in stazione a riprendere il treno per l’Italia e mai viaggio di ritorno mi sembrò più lungo.

venerdì 1 maggio 2020

Dei miei nonni materni, della loro tenera storia d'amore e della guerra



A ben pensarci la vita mi ha riservato un destino decisamente curioso: quello di avere, per varie vicende, due nonne totalmente diverse, come il giorno e la notte. La nonna paterna infatti era un’ altezzosa nobildonna molto raffinata e colta. L'altra nonna, quella materna, si chiamava anch'essa Maria, ma era di ben più ruspanti origini (tra le due, durante i rari incontri, intercorrevano occhiate assai incuriosite e perplesse...). Tra loro c'era in comune, oltre al nome di battesimo, solo la data di nascita. Infatti, la nonna Maria era nata anche lei nel 1898 in quel di Viarigi Monferrato, figlia del fattore che amministrava e coltivava le campagne del suo futuro marito nel paesino di Valmadonna, vicino ad Alessandria. Aveva fatto solo la terza elementare e, appena in età, era andata a lavorare come operaia alla Borsalino, dove aveva vissuto da fervente socialista l’epopea dei primi scioperi, delle fabbriche occupate e delle cariche, a sciabola sguainata, dei Regi Carabinieri a cavallo. E fu lei che m’insegnò - fin da piccolo - a cantare l’Internazionale. Nonostante le cariche e i fervori ideologici era però rimasta, da buona piemontese, di fede saldamente monarchica e, dentro il cassetto del comodino da notte, conservava gelosamente un piccolo sacchetto di velluto viola contenente una manciata di terra di Cascais che Sua Maestà Umberto di Savoia, in esilio, le aveva fatto benevolmente pervenire, non so bene in quale circostanza. 

L’avventura della sua vita fu, in ogni modo, quella di avere in giro per casa, subito dopo la fine della Grande Guerra, il giovane rampollo dei suoi padroni che era stato inviato in campagna per ricostituirsi nel fisico debilitato dalla prigionia, visto che, stante la drammatica penuria di viveri anche per le truppe regolari e la popolazione austriaca, i prigionieri venivano nutriti con brodaglie fatte con bucce di patate o altri avanzi immondi ed era ridotto a pelle e ossa. Appena diplomato ragioniere lo avevano arruolato al volo, gli avevano fatto un veloce corso di abilitazione e ai primi di ottobre del 1917 lo avevano messo al comando di un piccolo reparto di mitraglieri appostato a mezza costa di un monte vicino a Tolmino, a pochi chilometri da Caporetto, per controllare una strada. Così il nonno, da come mi raccontava, il 24 di ottobre, mentre già si sentivano degli spari a fondo valle, si vide arrivare alle spalle della sua postazione un drappello di soldati tedeschi sbucati silenziosi dalla nebbia del mattino e che dovevano aver risalito la montagna durante la notte lungo i sentieri. Lui e i suoi uomini venero disarmati senza poter sparare un colpo e gli ordinarono di rimanere fermi al loro posto che sarebbero arrivati gli austriaci a farli prigionieri e quindi proseguirono per la loro strada. Gli austriaci arrivarono poco dopo, quando mio nonno e alcuni suoi soldati stavano cercando di scendere lungo il bosco nella speranza di ricongiungersi al reparto. Vennero nuovamente catturati e così si fece un anno di dura prigionia. 


I nonni qualche anno dopo le nozze

La giovane Maria, quando vide arrivare nella fattoria del padre quel bel giovanotto, per quanto ossuto e malandato fosse, se ne innamorò perdutamente e siccome era proprio una bella contadinotta svelta e furba, lo fece innamorare a sua volta (gli argomenti non le mancavano). Così, con un vero colpo di teatro, nel giro di pochi mesi i due decisero di sposarsi in gran segreto. Il mio futuro nonno, che si chiamava Virginio Peretti Pirattoni (ed era un vero sabaudo d.o.c.), diede quindi seguito alle sue molte e ferventi serenate con il mandolino alle finestre dell’amata (pare usasse così…) organizzando anche una romantica fuga d’amore in calesse per convolare a nozze. Qualche tempo dopo, consumata una breve luna di miele a Milano (?!), il nostro eroe si recò baldanzoso a Torino per presentare la giovane moglie a sua madre Francesca, un’austera gentildonna piemontese. Ma, come questa vide che suo figlio si era sposato la Maria, figlia del fattore, sbiancò in volto e non fece loro neppure oltrepassare la soglia del portone di casa. E ignorava per fortuna che suo figlio, per amore della sua Maria, era diventato a sua volta un fervente socialista, altrimenti penso che gli avrebbe sguinzagliato contro i cani.

Quella porta rimase chiusa con ostinazione tutta piemontese per oltre quattro anni, e solo dopo la nascita di mia mamma Carla Margherita (che era già la secondogenita!) e per le buone intercessioni d’amici di famiglia e parentado, la Maria fu finalmente ammessa a palazzo. L'occasione della riconciliazione fu fornita da una cena importante e quindi mia nonna fu sottoposta, da una dama volonterosa, ad un corso accelerato di galateo conviviale (se non sai cosa fare con quella posata o quale bicchiere usare, guardare sempre cosa fanno gli altri...) che le consentì di reggere il gioco alla grande fino al momento del dessert, che era costituito dalle fragole con la panna. Lì la nonna crollò clamorosamente (si divertiva molto a raccontare la sua impresa, ma, forse, suo marito si divertì meno nell’occasione...) quando, estasiata da tanta bontà, si mise avidamente a leccare il piatto. E la porta si richiuse per sempre. 

Il nonno Virginio, attorno alla metà degli anni trenta, dopo aver vissuto ad Alessandria in una delle case di famiglia, che in seguito fu rasa al suolo dai bombardamenti alleati, si trasferì a Venezia dove era stato nominato vicedirettore della Banca Commerciale Italiana e assieme alle loro due figlie Francesca e Carla (mia mamma), vissero gli anni della seconda guerra mondiale a Venezia, nella loro grande casa di S. Lio dove nei giorni più duri dei rastrellamenti e delle deportazioni aveva trovato nascondiglio nel sottotetto anche l'inquilino del piano di sotto: l’avvocato Magrini, che era israelita. Mio nonno Virginio, che di guerre se n’era già sopportata una, era stato richiamato alle armi come ufficiale della riserva e così, la mattina dell’otto settembre del 1943, si trovava nel bel mezzo del Comando Militare di Verona proprio mentre i tedeschi stavano procedendo all’arresto di tutti gli ufficiali. Lui, però, approfittando della confusione generale, mentre era alla stazione di Verona si dileguò e sfuggi' per un pelo alla tradotta per la Germania. Quindi, indossati degli abiti civili regalatigli da un contadino, tornò a Venezia a piedi, per i più sperduti sentieri di campagna. Ci mise sei giorni, camminando quasi soltanto di notte. Anche lui rimase nascosto nel sottotetto per un bel po'. La sua pistola e la sciabola da ufficiale finirono dapprima sotto i coppi del tetto e poi, dopo che mia nonna, terrorizzata, aveva visto qualche soldato della Wehrmacht passare sopra i tetti durante un rastrellamento, in fondo al canale. 




Di quegli anni terribili, e, in particolare, a partire dal 1943, mia nonna mi raccontava soprattutto la fame e i tanti patimenti subiti per la mancanza sempre più grave dei generi di prima necessità. Si facevano code interminabili davanti ai negozi dove si era sparsa la voce che fosse arrivato un qualche prodotto alimentare per ottenerne (se andava bene) delle misere razioni. Mancava tutto, e la gente si arrangiava come poteva (le floride popolazioni dei gatti e piccioni veneziani passarono brutti momenti, rischiando l’estinzione). A volte s’interrompeva per giorni anche la fornitura d’acqua potabile e così ci si recava con i secchi a Santa Maria Formosa dove era stato riaperto il pozzo artesiano. Anche le medicine erano introvabili e prendersi una bronchite o una gastroenterite diventava un affare serio. Fortunatamente mia madre prestava aiuto come crocerossina all’ospedale e li, grazie alla cortesia di qualche medico, si poteva rimediare qualche farmaco urgente. Mia nonna cucinava anche le bucce delle patate, già ben note a mio nonno, e, la sera, si recava con le sue figlie sulle Fondamente Nuove per lanciare quanto più al largo possibile (a Venezia, si sa, le fogne scaricano in acqua…) la bottiglia con lo spago che serviva a raccogliere l’acqua salmastra della laguna. Questa era poi sottoposta, durante la notte, a lunghe ore di bollitura sulla cucina economica per ottenere, raschiando il fondo della pentola, un pugnetto di sale. Questo sale era quindi negoziato con i contadini dell’entroterra e barattato con generi alimentari di prima necessità (farina, uova, burro ecc...). Durante questi viaggi si viveva nel duplice rischio di incappare in qualche controllo (tali piccoli commerci erano proibiti e si rischiava la galera…) e in "Pippo il mitragliere". 
Costui era, secondo la leggenda popolare, un pilota americano che, per rancori di sconosciuta origine, mitragliava con il suo Mustang non solo soldati e installazioni militari, ma anche civili inermi, animali e qualsiasi cosa gli capitasse a tiro. 

Di fatto, di questi Pippo ce ne dovevano essere molti, dato che furono numerosi gli innocenti che ci lasciarono le penne solo perché rincasavano in bicicletta lungo un argine scoperto. Anche il nostro vicino di pianerottolo Paolo Gibellini, una sera, fece ritorno a casa dalle campagne tutto pallido in viso. Era stato mitragliato da un caccia solitario e stringeva ancora sotto il braccio la sua borsa di pelle, attraversata da una pallottola da parte a parte. 

Quasi ogni giorno, negli ultimi due anni di guerra, suonavano le sirene e dalle case, che di notte erano completamente oscurate per non dare punti di riferimento ai bombardieri, si correva a rifugiarsi in cantina o nel bunker in cemento armato di campo S. Maria Formosa. Mia mamma invece, con incoscienza giovanile, correva in terrazza ad osservare lo spettacolo di quei puntini argentati che tracciavano scie nel cielo e i fiocchetti neri della contraerea che si aprivano sempre troppo in basso. Qualche volta poi di bombardieri se ne vedevano tanti, in una processione interminabile, perché utilizzavano Venezia come punto di virata per bombardare Padova e Treviso.


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Quando i Liberator rasero al suolo Treviso (con diverse migliaia di morti...) perché pensavano che Mussolini e Hitler fossero in città (invece erano a Feltre...) dall’interno del rifugio in campo S.Maria Formosa si sentì la terra vibrare per ore e ore. E fu lo stesso quando tocco' a Padova. 
Quel giorno la zia Franca era appena uscita dall’Università e per un puro caso (un collega l’aveva trattenuta qualche minuto per discutere della tesi) non si trovava già dentro la stazione quando arrivo' una valanga di bombe da 500 kg. Scesa la densa nuvola di fumo e polveri che aveva avvolto la zona, si trovò in mezzo ad uno spettacolo apocalittico di rovine e di morte, ma salvò la pelle tornando a casa molte ore dopo e con mezzi di fortuna, quando ormai i suoi la davano per morta (anche la motonave da Chioggia, quel giorno, era stata affondata e la radio aveva detto che c'erano stati molti morti). Tra le tante cose che mia nonna mi ricordava di quei giorni di coprifuoco e di legge marziale, c'era l’angoscia che si provava quando, nel silenzio della notte, si sentiva rimbombare nella calle il lugubre passo cadenzato del pattuglione della Wehrmacht che perlustrava la città immersa nell’oscuramento più totale. 

Poi, trascorso un interminabile inverno di gelo e di stenti, una bella mattina di primavera, mentre le notizie sulla vicinanza delle truppe alleate (in casa ascoltavamo regolarmente Radio Londra, come tutti...) correvano sempre di più, si sentirono degli spari in città. Era l’aprile del 1945 e l’insurrezione di Venezia stava iniziando. Di lì a qualche giorno, arrivarono le truppe inglesi, ma ormai la città era già saldamente in mano ai partigiani, che sfilarono poi in Piazza S. Marco in mezzo alla folla in festa. Qualche tempo dopo dovettero sfilare di nuovo e con ben altro spirito per consegnare le armi agli Alleati, ma questa e' un'altra storia.

La nonna e il nonno ufficiale riservista nella primavera del 1943

Anche la nonna Maria rimase fino all’ultimo giorno della sua vita terrena, totalmente piemuntèisa e continuò imperterrita a parlare il suo dialèt lisandrèin nel cuore delle terre del leone di S. Marco. E restò anche una grandissima cuoca, interprete delle migliori tradizioni gastronomiche del suo Monferrato. Ravioli di magro, agnulòt, grive, farciòt, bagna cauda, cervella fritta e finanziere rallegrarono a lungo, con la loro fragranza, i nebbiosi inverni sulla laguna ed i miei robusti appetiti giovanili. Seguendo le sue solide tradizioni contadine in casa nostra si rispettavano alcune curiose usanze: per esempio, la sua strepitosa zuppa di ceci con la salvia e il rosmarino si poteva gustare solo il 2 Novembre, per la ricorrenza dei Morti. Prima non c'era verso. 
Invece, per tutte le domeniche dell’anno - implacabile - la nonna ci ammanniva il pulàster, lesso o arrosto che fosse, preceduto dai cappelletti in brodo (di pulàster). Così, parafrasando i comandamenti cattolici, mio fratello ed io sostenevamo che il nostro precetto di famiglia fosse: "ricordati di pollificare le feste". 

Quando la nonna mi vedeva lievemente pallido, o per corroborare i miei studi, faceva spesso capolino alla porta della mia stanza porgendomi con aria complice una fragrante rosetta imbottita di fresca cipollina novella, condita con olio e sale. Con il tempo, e a furor di popolo (inteso come le mie ragazze) dovetti rinunciare a tanta delizia, ma, a ripensarci, mi torna l’acquolina in bocca e ogni tanto mi concedo ancora quest’appetitosa e profumata golosità. 

Tra le molte immagini che ho ancora vive della nonna Maria c'è, per esempio, quella di lei, già sessantenne, intenta in un gelido inverno a spaccare la legna per la stufa sulla nostra grande terrazza coperta, con la forza e l’allegria di una ragazzina. E come una ragazzina imprudente si comportava. Ogni tanto, infatti, anche se godeva di una salute di ferro, si lamentava di lievi disturbi di stomaco. Approfondendo preoccupati la cosa, scoprivamo regolarmente che il lieve imbarazzo digestivo era causato dal fatto che, colta da un raptus famelico, si era mangiata golosamente round midnight prelibatezze come una scodella di peperonata avanzata o di pasta e fagioli gelida di frigorifero. Roba da stroncare un portuale giudecchino (ma, a quanto pare, non una contadina del Monferrato...).
E ricordo quando la scoprivo di prima mattina, con le maniche rimboccate, il fazzolettone sulla testa e immersa in una nuvola di farina, intenta a tirare energicamente la sfoglia con il mattarello, sopra quel bel tavolone ribaltabile che si era portato dalle sue campagne. Io, che ero ghiotto del ripieno di spinaci, uova e ricotta dei suoi ravioli di magro, mi sedevo, come un docile cuccioletto, vicino alla spianatoia, aspettando con ansia l’immancabile cucchiaiata. Offrendomi poi di tagliare i ravioli con la rotellina ottenevo il premio più ambito: leccare la scodella. Talvolta, con vere e proprie azioni da commando, sorprendevo nel frigorifero la scodella con l’impasto, e allora i miei prelievi erano troppo radicali per passare inosservati. Così la nonna, esauriti tutti i rituali: "va s' la fùrca !" e rimpolpato l’impasto, sorvegliava assiduamente il suo tesoro nel frigo restando in cucina a fare le parole incrociate fino a quando non era ben sicura che io stessi dormendo (e senza far finta...).

La nonna Maria si concedeva anche qualche strana civetteria e, dopo aver ciabattato in grembiule per tutta la settimana, la domenica usciva come una farfalla dal bozzolo e andava a messa tutta frusciante di sete, con il foulard di Hermès (di mia mamma...), il filo di perle, la scarpina con il mezzo tacco e, grazie a qualche sconosciuta (ed economica) parrucchiera, con i capelli tinti di un incredibile sfumatura azzurrina. Aveva anche maturato con il tempo un curioso rispetto per la mia cultura umanistica. E così, ogni tanto, mi interpellava con un : "Carletto, tu che sai tante cose..." lasciandomi intendere di essere consultato per risolvere chissà quale sottile questione filosofica. Invece, quasi sempre, si trattava di risolvere colonne orizzontali o verticali della sua adorata Settimana enigmistica, compilata rigorosamente con un vecchio mozzicone di matita copiativa del nonno. Detta matita (di quelle con la mina violacea, da inumidire con la lingua che poi prendeva il suo bel colore magenta...) veniva da lei curiosamente tenuta appoggiata dietro l’orecchio, proprio come fanno i salumai. 

La nonna custodiva gelosamente nel cassetto del comodino una misteriosa scatoletta di latta. Un pomeriggio che si era addormentata in salotto andai a rovistare nel suo cassetto alla ricerca del sacchetto delle liquirizie. Trovai così la scatoletta del tesoro. Curioso come ogni ragazzino la aprii, scoprendo così che tutta la sua presunta ricchezza era costituita da una vecchia foto del suo Virginio in divisa da ufficiale di fanteria, un rosario, un rametto d’olivo rinsecchito e una lettera del nonno che, nella sua semplicità, era una delle più belle lettere d’amore che avessi mai potuto leggere.