domenica 17 novembre 2013

Dell'acqua alta, del vento rabbioso di tramontana e di quel 4 novembre del 1966


Cielo color piombo, pioggia battente da tutte le parti, vento teso e gelido che ti rovescia l’ombrello e s’intrufola anche sotto il giaccone scacciando i tepori della felpa in pile e facendoti stringere i denti dal freddo, visto che ormai il cappuccino bollente ingurgitato al bar sotto casa è un ricordo lontano. Cammino già da un’ora tra i campi e le stradine sterrate dietro via Asseggiano con i jeans fradici sino al ginocchio e le scarpe e le calze intrise d’acqua mentre il bretone, che ormai sembra un mocio Vileda a quattro zampe, trotterella imperturbabile al mio fianco (dannati cani da caccia abituati ad andar per campi con ogni tempo) spostandosi pigramente di cespuglio in cespuglio e di albero in albero per marcare il territorio. All'improvviso, mentre come spesso accade in queste circostanze estreme mi sto domandando perché mai non avessi scelto un sedentario cagnolino da salotto, sento risuonare il cellulare con le note imperiose della Radetzky March, la musica che non casualmente ho associato al numero dell'elfa dopo un lungo e sofferto ballottaggio con la Marcia Imperiale di Guerre Stellari.



In tanti hanno cantato la Venezia turistica da cartolina, ma pochi hanno saputo 
cantare quella popolare, le sue emozioni e la sua vita come Alberto D'Amico.
Questa sua bellissima canzone mi emoziona ancora oggi.

Così, dopo aver strillato “Sitzen! Stai seduto!” al cane, che gli ordini in tedesco riescono sempre efficaci, mi riparo sotto un albero per riuscire ad estrarre il Nokia dalla tasca posteriore dei jeans maledicendo di non avere tre mani per tenere ombrello, guinzaglio e telefono contemporaneamente. Alla fine, tenendo stretto il guinzaglio tra le ginocchia e il cellulare tra spalla e guancia (che l’ombrello lo devo tenere con due mani, altrimenti il vento me lo strappa via) riesco a parlare. L'elfa, dopo aver esordito con l'atteso: "Era ora! Ma quanto ti ci vuole a rispondere?" mi dice di non aspettarla per pranzo perché forse dovrà andare in tarda mattinata a Rialto per sbrigare delle faccende di lavoro ma che però ha letto su internet che c'è lo sciopero dei vaporetti e anche l'acqua alta con punte ben oltre il metro, cioè di quelle che mandano sotto mezza città. Mi chiede quindi se le conviene andare per i Frari o per San Polo e la pescheria che sono le vie più brevi aggiungendo di guardarmi bene dal fare le solite ironie su quelle di terraferma che non sanno girare per Venezia (mio figlio sono riuscito a recuperarlo su questo punto ed ora è quasi autonomo, lei no).

Dopo averla rassicurata che non avrei fatto ironie di sorta perché tanto se l'era già fatte da sola, le spiego che se davvero è previsto oltre un metro di acqua alta in certe calli di quel percorso non ci passerà mai. Inoltre, anche raggiungendo il traghetto delle gondole di San Tomà, poi  per tornare verso Rialto doveva percorrere una calle che si chiamava Piscina San Samuele ed era libera di scoprire il perché. Le chiedo invece come mai non voglia fare il percorso per la Strada Nova che forse sino al campo dei Santi Apostoli ci arrivava con i piedi asciutti ma lei risponde che è troppo lungo e mi domanda se posso suggerirle qualche percorso alternativo. Ora io lo avrei anche qualche possibile percorso alternativo tra calli e campielli "sconti" da suggerirle, ma sono sicuro che una di terraferma come lei ci si perderebbe in un amen, dunque rinuncio in partenza per non consumare la batteria del cellulare in lunghe spiegazioni ad una che, oltretutto, è spumantina di carattere e si spazientisce facilmente. Siccome il rischio di dirle “appena sei ai Frari gira per la calle che fa angolo con il negozio di elettrodomestici” che magari nel frattempo è diventato una bottega di paccottiglia per turisti è alto, vorrei evitare di ricevere la telefonata frizzantina di una che si è persa tra le calli a causa mia.

In piazza con l'acqua alta e mio fratello con l'orrido cappellino
 impostogli dai nonni grazie all'arrendevolezza dei suoi 11 anni.(1963)

Così gioco la carta subdola della dissuasione affettuosa e le dico di considerare il fatto che se anche fosse riuscita ad arrivare a Rialto, probabilmente la Riva del carbon era già mezzo metro sotto acqua, quindi tutto si sarebbe risolto in una perdita di tempo, per non dire della pioggia e del vento che le garantivano un bel raffreddore. La mossa funziona, perché dopo il previsto "Quando ti si chiede una cosa non mi aiuti mai" m'informa di aver deciso di andare a Venezia in un altro momento, che tanto non non era poi così urgente. Nella soddisfazione dimentico però che occorre sempre temere l'ultima freccia avvelenata dell'elfa, così la mia arciera preferita riesce a scoccare un "Prendi tu il pane e il latte che io non ce la faccio" e poi chiude la telefonata. In tal modo non faccio a tempo a replicarle che, sempre per via della faccenda della terza mano mancante, forse la bottiglia del latte potevo anche infilarla nella tasca del giaccone ma il sacchetto del pane avrei dovuto tenerlo con i denti. Per fortuna, siccome una certa genialità di fondo non mi abbandona mai, realizzo che posso usare il manico dell'ombrello come un gancio per appendervi la borsa del panificio e così il problema è risolto.

Sistemata la consorte, sulla strada del ritorno, visto che ormai ero in tema, mi tornano in mente le acque alte di quando andavo a scuola e che talvolta tra il giubilo generale significavano niente lezioni perché qualche professore risultava non pervenuto assieme a tanti compagni di classe. Io, purtroppo, ero stato dotato di stivaloni di gomma sino al ginocchio e dunque non potevo esimermi, perché anche se non li avessi avuti mia zia all'epoca insegnava matematica e fisica nel vicino liceo scientifico e se ci arrivava lei non potevo non farlo io, visto che facevamo lo stesso percorso. Poi, davanti al portone del Liceo Foscarini, la cui fondamenta era molto bassa e tra le prime ad essere allagate, c'era sempre il preside Pareschi ad organizzare le squadre di soccorso degli studenti "stivalati" ai colleghi e ai compagni di classe bloccati in calle Racchetta o sul ponte dei Gesuiti. Che voleva dire caricarsi le persone sulle spalle e portarle di peso sino davanti al portone. Ovviamente le attenzioni maggiori erano riservate alle compagne di classe che venivano sempre messe in salvo con molta cura, soprattutto le più carine che venivano spesso issate sulle spalle facendo leva su punti anatomicamente rilevanti. Il professore di chimica, il temuto "Checco" gioia e delizia di intere generazioni di foscariniani, veniva spesso dimenticato sul ponte dei Gesuiti, che se lo pigliassero i bidelli.

Mio fratello davanti ad una passerella portata via dalla marea
 e con addosso uno dei giacconi di montone grezzo che avevamo preso
a Gerusalemme e che nostra madre appendeva fuori sul balcone perché
a suo dire puzzavano troppo da pecora per stare in casa.

Le stesse operazioni di salvataggio le avrei vissute diversi anni dopo quando, lavorando all'epoca alla Banca Commerciale che mi aveva incautamente assunto (del resto nemmeno io mi capacito ancora del perché fossi entrato in una banca essendo del tutto negato per quel mestiere), il direttore ci mandava a recuperare i colleghi che venivano da Mestre. Il problema era che la nostra banca per evitare lo scoccare di indebite scintille amorose o corteggiamenti tra colleghi e anche per una certa misoginia congenita, aveva poco personale femminile e quel poco che c'era era stato selezionato anche in base a rigidi criteri estetici. Infatti, come avvenenza le nostre colleghe rivaleggiavano con la signorina Silvani di Fantozzi e spesso perdevano la tenzone. L'unica che si salvava ed era decisamente carina era una nuova impiegata di Treviso, credo assunta per una raccomandazione. Infatti, c'era una vera e propria gara tra i colleghi per localizzarla e salvarla che spesso era risolta brutalmente con criteri gerarchici. Io, essendo all'epoca felicemente e fedelmente accasato con Donatella e non intendendo partecipare a quella competizione indecorosa, mi limitavo a portare all'asciutto gente che mi stava simpatica e una volta anche una famigliola di turisti americani bloccati sul ponte di San Moisè, che poi volle a tutti i costi lasciarmi "ten dollars" di mancia, che conservo ancora come il primo dollaro di Zio Paperone.

Poi, però, sarà per quel vento di tramontana che non aveva smesso un attimo di flagellarmi assieme alla pioggia, sarà per quello che avevo appena ricordato ma mi torna improvvisamente alla memoria anche quel drammatico 4 novembre del 1966 quando Firenze e Venezia vennero invase dalle acque con tutto quel che ne seguì. Quella notte di tregenda in cui il mare in tempesta spinto da un vento fortissimo ruppe gli argini ai Murazzi del Lido rischiando di spazzar via in un colpo Pellestrina e Malamocco  (si seppe solo dopo quanto si fosse andati vicini alla tragedia) e allagando la città io partecipavo tutto in ghingheri e vestito da gran sera alla festa dei 18 anni di una ragazza di quella buona borghesia veneziana che allora frequentavo e m’invitava perché non giravo ancora per i cortei a prendere manganellate con il Manifesto che spuntava dal tascone dell’eskimo e la sciarpetta rossa di cachemire (dono ironico di mia madre al suo figliolo lungocrinito, rivoluzionario di bon ton). Tra una danza e l’altra avevamo sentito più volte il lamento lugubre delle sirene dell’acqua alta, quel suono che a mia nonna ricordava i bombardamenti e sbiancava in volto ogni volta che lo ascoltava, ma nessuno ci aveva fatto caso anche perché da noi nei mesi classici dell’acqua alta la cosa è normale. Poi, verso le due del mattino, con ancora la festa nel vivo e molta gente che stava ballando, visto che un po' mi annoiavo decido di tornare a casa. Saluto e ringrazio la padrona di casa, scendo e alla luce fioca della lampadina delle scale mi pare di vedere che la palladiana dell’androne stia tremolando. Mi fermo sorpreso, ma poi penso si tratti solo di qualche bicchierino di troppo, così scendo quell'ultimo scalino e mi trovo sgradevolmente con l’acqua gelata alle caviglie.

Gatto che spunta dal buio di un sotoportego (1970)
Diversi gatti ci lasciarono le penne quella notte. A loro, che sono
parte dell'anima veneziana, va il mio pensiero commosso.

Maledico le maree e chi le ha inventate, apro il portone, scendo altri tre scalini che non ricordavo e l’acqua arriva di colpo alle ginocchia. Sorpreso dal trovarla così alta faccio istintivamente qualche passo in avanti per guardarmi attorno e in quel momento salta la luce in calle e in tutta la zona. Sento grida di sorpresa provenire dalla casa che ho appena lasciato, ma ormai il portone si è chiuso e il campanello, ammesso che riesca a ritrovarlo in quel buio, non funziona più. Provo a gridare, ma nessuno scende ad aprire o nemmeno mi sente. Così, siccome la casa dei miei nonni e di mia zia è solo a qualche calle di distanza e per fortuna ho anche le loro chiavi decido di raggiungerla. Quelle poche calli però si rivelano presto un cammino angosciante. Non ho punti di riferimento e cammino a tentoni come in un labirinto cercando di capire dove c'è il muro, ormai l’acqua mi arriva all'addome, sono mezzo congelato da quel bagno nell'acqua gelida e sporca e inizio a sentire anche un forte odore di nafta che fa girare la testa. Da qualche finestra si vede tremolare la fiammella fioca di una candela, per il resto è tutto buio pesto e non si sente alcun rumore, se non il miagolio straziante di un gatto rintanato da qualche parte e che deve passarsela male anche lui. Poi, per fortuna, dopo qualche minuto sento delle voci, mi faccio sentire e incontro due vigili con gli stivaloni e una torcia elettrica che mi dicono che c'è un vero disastro in città e mi ordinano di mettermi subito al sicuro, così mi faccio scortare sino a destinazione (che poi bastava girare l'angolo e fare un ponte ed ero arrivato).

Certe calli sono buie anche con la luce, figuratevi che bello percorrerle
senza e in mezzo all'acqua gelata...

Come salgo dai nonni, mentre la zia alla luce di un candelabro mi prepara un tè bollente e mi porta dei panni asciutti, provo a chiamare mia madre per tranquillizzarla, ma tutte le centraline telefoniche sono saltate e il telefono non dà alcun segnale. Aspetto sveglio le poche ore che ancora mi separano dal chiaro, poi poco prima delle sette esco per cercare di raggiungere casa mia, in Corte dell'Alboro. Il vento ancora forte continuava ad impedire alla marea di defluire dalle bocche di porto e quindi l'acqua non era affatto calata e in calle c'era ancora almeno mezzo metro. Così mia zia e la nonna, dopo aver rinunciato a convincermi che non era il caso di uscire di nuovo, mi aiutano ad imbragarmi alla meno peggio per affrontare la traversata. In casa c'è un paio di stivali di gomma, ma sono del tipo basso e quindi inutili. Però mia zia ha una specie di tuta in plastica che usa per sudare e perdere chili pedalando sulla cyclette. Il set è composto da una giacca e dei grossi bragoni argentati che si possono stringere sulle caviglie e alla cintura. Indosso solo i pantaloni gommati sopra una vecchia calzamaglia in lana del nonno e infilo i piedi dentro dei sacchetti di plastica della spesa e poi dentro gli stivali, sigillando il tutto con lo scotch da pacchi. La nonna insiste per strofinarmi le gambe con l'olio canforato per il freddo, ma rifiuto energicamente. Poi, sentendomi bardato come un palombaro, scendo in calle con la zia e la nonna affacciate in ansia alla finestra per vedere come procede il varo e inizio a camminare lentamente verso campo San Bartolomeo. Come ci entro dal sottoportico della Bissa per poco non mi scontro con un tizio che sta vogando sopra un sandolo. Lo spettacolo è incredibile: ci sono almeno altre tre barche e in acqua galleggia di tutto, compreso un gatto morto. C'è anche molta nafta uscita dalle caldaie delle case e l'acqua è lurida e maleodorante.

Due giorni dopo nei canali galleggiava ancora di tutto

Guardo le vetrine del negozio della Luisa Spagnoli e vedo che dentro ci sono vestiti che galleggiano e altri messi in salvo alla meno peggio con gli espositori sopra il bancone o appesi sugli scaffali più alti. Procedo ancora verso San Salvador e all'inizio delle Mercerie ci sono altre barche e soprattutto decine di scatole da scarpe e di cappelli di Marforio che navigano con loro. Però la zona è bassa e dunque il livello dell'acqua inizia a salire ancora. Ormai ce l'ho a metà del petto e sento che avendo superato la cintura sta iniziando ad entrare nei pantaloni appesantendomi le gambe neanche fossero di piombo. Così appena salito sul ponte dell'Ovo, all'asciutto (si fa per dire) scopro di assomigliare all'omino Michelin, con le braghe comicamente gonfie di litri d'acqua e allora decido di togliere tutto lo scafandro e di proseguire seminudo in calzamaglia, che tanto se proprio devo congelarmi almeno provo a camminare veloce.


 Le immagini di quel 4 novembre del 1966 
che portò ore drammatiche a Firenze e Venezia

In effetti la cosa funziona e grazie anche al fatto che le altre zone da attraversare erano più alte e l'acqua arrivava solo alle ginocchia arrivo finalmente a casa e trovo mia madre serafica in salotto che dopo un bacetto mi dice "Oh! bene, meno male che sei arrivato...asciugati, mettiti gli stivali alti e vai a prendere tuo fratello che è uscito a cercarti cinque minuti fa, dovrebbe essere ancora in campo."
La guardo stupito. "Scusa, ma non eri preoccupata per me?"
"Proprio no, quando mi sono svegliata questa mattina e ho visto l'acqua alta fin sul portone ho immaginato che o avevi dormito dalla tua amica o eri andato dai nonni. Sei stato da loro, vero?"
"Si... certo."
"Lo vedi? Avrai tanti difetti, ma su questo sei come me, quando serve te la sai cavare sempre. Lo so benissimo, altrimenti mica ti manderei in giro, cosa credi?".
Mia madre, che come tutti gli artisti era piuttosto stravagante anche nel modo di farmi gli elogi, spesso mi lasciava nel dubbio che non si trattasse invece di un'ironia, ma in quel caso sentivo che era davvero un complimento e la cosa mi rende ancora orgoglioso oggi.