sabato 27 ottobre 2012

Repetita iuvant (dal teatro a Splinder, passando per Firenze)

Di solito scrivo per il blog alla sera, anzi, proprio di notte quando tutto tace, la pizzeria Vesuvio ha chiuso finalmente la saracinesca, il bretone ronfa dietro di me sopra quella che una volta era la mia poltrona dei pisolini e che ora è la sua cuccia abusiva, l'elfa ronfa a sua volta nella stanza vicina sognando le cose da farmi fare la mattina seguente e mio figlio, dopo aver chattato su Facebook per ore con Katerina da località perennemente "altrove" (tanto lo vedo dal pallino verde che sei on line, cosa credi?) si degna finalmente di aprire la chat con me per scrivere: "Ora stacco... ciao pà, ...notte!.". Così, finalmente solo, posso assaporare in santa pace il mezzo dito di Lagavulin con acqua ghiacciata a parte (è il mio rito notturno) e iniziare a far scorrere i pensieri e le dita sulla tastiera.

La mia "tana" e quella del bretone (la mia poltrona)

In queste settimane però è diventato tutto più complicato perché quando meno ci pensavo gli amici della Vanguardia Nonsensista, la compagnia teatrale universitaria che aveva messo in scena la mia commedia, (questo qui sotto è il loro nuovo sito molto professionale, con tutte le foto di scena degli spettacoli realizzati)


mi hanno comunicato che intendono andare in scena nuovamente con l'Ars Amandi Veneziana il 17 di novembre al Teatro Lippiello di Mestre e il sabato successivo - udite, udite - pure in trasferta, al Teatro Filodrammatici di Este (Padova). Quindi, visto che lo scorso febbraio incautamente avevo accettato di interpretare il ruolo del professor Barbaro, il severo padre di  Donatella, nella prima edizione e considerando che il tempo per provare è pochissimo (il copione è stato leggermente modificato) ora trascorro molte sere a teatro a fare le prove fino a tardi peraltro divertendomi un mucchio, tranne quando si fanno gli esercizi di riscaldamento vocale e arriva il momento della "erre", nel mio caso della "evve" (che poi tutti ridacchiano...). Questo però comporta che il tempo da dedicare alla mia produzione notturna di testi per il blog, si sia piuttosto rarefatto. Dunque, fino al termine degli spettacoli in programma la mia produzione letteraria sarà alquanto risicata. Ovviamente, me ne scuso e cercherò di rimediare in qualche modo.

Prima di entrare in scena, truccato da professor Barbaro e con il gatto Belzebù

Per esempio, qualche sera fa, forse per le malinconie di questi giorni piovosi, mi è venuto in mente che proprio in questo periodo lo scorso anno iniziava la lenta dissoluzione di Splinder, dove avevo scritto di tutto e di più per due anni filati (compreso il libro a puntate da cui è stata tratta la commedia). Avendo salvato tutto il blog in un file di ben 700 mega (ho scritto tanto, eh?) sono andato a rileggermi qualche pezzo di allora (tanti nemmeno li ricordavo) e tra questi ho trovato per combinazione un piccolo post del 2010 che era proprio l'antefatto di quello che ho scritto qualche settimana fa su Ferrara e la stanza numero 3 dell'Hotel Europa. Perché in quella notte di ottobre in cui l'elfa ed io ci siamo persi tra le nebbie estensi stavamo proprio rientrando da una gita in Toscana e questa che segue è la descrizione della disavventura fiorentina che avevamo vissuto prima di quella notte magica ferrarese, che per fortuna ci ricompensò adeguatamente. 

Il racconto s'intitolava: "An american restaurant in Florence (Italy)" e ve lo ripropongo, anche perché delle mie lettrici e lettori di allora, se non sbaglio, dopo la diaspora degli splinderiani ho ritrovato solo Redcats, Maude e Alessandra (che immagino lo rileggeranno volentieri) mentre per i nuovi arrivati tra i miei amici su Blogspot questo racconto è... un inedito.
Dunque, buona (ri)lettura.


La home page del mio Splinder. Sempre attraversato dal dubbio, eh?

La ragazzona bionda in salopette e con le guance coperte di efelidi ci accolse festosa sulla porta del locale: «Bienvenuti, vollete cenarei?… » invitandoci ad entrare con un sorriso scintillante. Lo sguardo sconcertato dell'elfa arrivò saettante come una delle sue frecce al carbonio e non aveva torto. Nella mia recherche du temps perdu con cui, a suo dire, l’affliggo ad ogni nostra vacanza cercando di tornare sempre nei posti dove sono stato felice, appena usciti dall'albergo fiorentino che ci ospitava l’avevo fatta scarpinare avanti e indietro tra Palazzo Vecchio, San Lorenzo e Santa Croce alla ricerca di una piccola e deliziosa trattoria casalinga in cui mi aveva portato anni prima un collega fiorentino e dove si mangiava toscano autentico, tra tagliate di manzo, carciofi fritti, trippe e ribollite preparate dalla mamma e dalla nonna del proprietario, tra profumi di salvia e rosmarino, in una linda cucinetta che sembrava quella di casa. Ne ricordavo solo vagamente il nome e che vi si accedeva da una specie di sottoportico tra alcune viuzze strette. Alla fine, chiedendo e richiedendo, l’avevo rintracciata, però qualcosa non quadrava e non mi riferisco solo alle tovaglie lise che ora erano giallo intenso, alle luci che da soffuse ora erano a giorno e ai quadri astratti alle pareti al posto delle vecchie pentole in rame e tutta la paccottiglia delle trattorie di una volta. Mi riferisco a quel che era del tutto inatteso, a cominciare dall’accento della ragazza, tragicamente yankee. Ora, io, in genere, se proprio non si mettono a fare gli sceriffi in giro per il mondo, non ho problemi di antiamericanismo, ma sapendo come i loro unici contributi alla gastronomia mondiale siano stati il Big Mac e il Kentucky fried chicken tendo a diffidarne dal punto di vista della ristorazione. Così, sperando che quella sorta di sorella florida di Fonzie fosse lì solo per servire ai tavoli, le chiesi se per caso avessero cambiato gestione. 
«Oh sì, certo! L’abbiamo rilevato due mesi fa con altri amici americani che studiano in Florence. Abbiamo appena riaperto da tre giorni, dopo il restauro…» . Ed effettivamente l'odore di vernice delle pareti pitturate di fresco sovrastava qualsiasi possibile profumo di cucina confermando il tutto.
Poi, mentre mia moglie aveva già sul volto l’aria del “ma dobbiamo proprio? ” la giovanotta lentigginosa aggiunse con la sua vocina alla Heather Parisi:  «Oh... ma guarda che si mangia benèi, sai? », annuendo con convinzione. 

Cipressi, vino toscano, la mia Delta e colei che per la gioia mia
e della Polizia stradale viaggiava di norma a 180 km/h.

Quell'ultima precisazione non richiesta assieme all'uso disinvolto del "tu” mi riempì il cuore di altri sinistri presagi. Di solito, l'oste serio non ti dice che il suo vino e' buono. Dovrebbe essere il suo vino a parlare per lui... 
«Lo immagino... » replicai, e mi venne fuori un mezzo sorriso che in realtà significava: «. ..lo spero ». 

Appena seduti a tavola esaminai il menu, scritto a mano su di un foglio di carta da macelleria. Era veramente notevole. Non l' elenco delle pietanze, ma il numero di macchie e ditate unte che erano riusciti a fare in soli tre giorni. Davvero una bella impresa! Quanto alle pietanze, come temevo, ero di fronte ad un vero pianto. La lista recitava melanconicamente una serie di proposte che spaziava dagli spaghetti al pomodoro a quelli al ragù, dalle orecchiette panna e gorgonzola alle immancabili "pappardelle panna - prosciutto - piselli" (una vera piaga nazionale che andrebbe sanzionata severamente) per terminare con un tristissimo passato di verdura dal vago sentore ospedaliero. Per i secondi, c’era invece un' ampia scelta che andava dal pollo arrosto al pollo lesso (con verdure) fino - stupore e meraviglia! - alla paillard di vitello ai ferri.

Ora, essendo a Firenze uno si sarebbe aspettato almeno una bella costata di chianina alla brace, o magari anche solo un antipasto di finocchiona, ma sul menu non ve n’era traccia alcuna. Sbirciai ansioso Morena intenta alla lettura del menu con aria sempre più sbalordita e la sua risposta non si fece attendere: «Se abbiamo scarpinato due ore per questo, scusami se sciupo i tuoi preziosi ricordi, ma non mi sembra un granché! Forse era meglio andare in pizzeria, non credi? » fu il suo primo commento. 
Cercai di recuperare mentendo miserevolmente : «Beh, dai... come facevo a sapere che avevano cambiato gestione? Ci hanno accolto sulla porta con tanta gentilezza, non potevo mica essere così maleducato da girare i tacchi e andarmene. Lo vedo anch'io che propongono cose banalotte, ma magari le fanno bene. E poi la cucina toscana e' fatta di sapori semplici, no? Anzi, che tu ci creda o no, io avevo proprio voglia di un bel piatto di orecchiette alla panna e gorgonzola, che e' tanto che non le mangio. ». 
« Vuol dire che hai nostalgia della mensa aziendale... » fu la risposta raggelante.

Qui l'elfa è in un rifugio di montagna,
ma lo sguardo è lo stesso di quella sera fiorentina.

Lasciai pertanto perdere i discorsi consolatori e la panna con il gorgonzola e mi guardai attorno. Il ristorante era deserto. Ed era un brutto segno, ma pensai che forse i fiorentini cenavano più tardi. Anzi… c’era una prenotazione su un tavolo vicino e la cosa mi diede un po' di sollievo. Se qualcuno ha prenotato, pensai ancora per farmi coraggio, vuol dire che non e' poi così male. Lo dissi all'elfa che, essendo una malfidata, si alzò subito per controllare, poi tornò ghignando «Non c’è scritto alcun nome…forse lo tengono per bellezza o per i creduloni come te ». 

Non raccolsi la provocazione e mentre mi dibattevo nel dubbio se, contravvenendo alla buona educazione, convenisse alzarsi e andare via o restare, la ragazzona ritornò a prendere le ordinazioni. Così, per disperazione, ordinammo come antipasto dei crostini con la milza e, passando direttamente ai secondi, l'unica cosa che sembrava appetibile: un tortino di zucchine, anche perché ci venne subito dipinto come: « specialità della casa, sai ? ». Ordinammo subito anche un mezzo litro di vino. Avevo provato a chiederle la carta dei vini, ma dopo un po' di tentativi di farle comprendere cosa fosse mi ero rassegnato al suo Chianti che era sfuso, si, ma anche « tanto, tanto buono, sai ? » . 

Visto che ormai il dado era tratto, inizio, avendo finalmente dei buoni motivi per farlo, ad illustrare a Morena (che sentendola da diversi anni, a questo punto di solito si distrae e guarda il soffitto) la mia ardita teoria sul rapporto tra decadenza dei costumi e tramonto della cultura gastronomica popolare quando arriva in tavola una bottiglia etichettata Cabernet del Piave (!?) e piena a metà. Inorridisco: « Scusi, ma ... questa cos’e'? » 
« E' il vino, no ? E’ il Chianti… » 
La ragazzona aveva l’aria di chi si era appena sentita domandare la cosa più ovvia del mondo. 
« Si, lo vedo e lo spero, ma mi riferisco alla bottiglia che sembra usata! ». 
Mi guardò paziente, come si fa con i clienti un po' troppo esigenti. 
« Oh! Sii...la botillia ... (sospiro) tu ci devi scusarei, ma il grossista non ci ha ancora mandato i servizi che gli abbiamo ordinato! Ma guarda che la botìllia e' pulita, sai? » 
Anche se almeno l'igiene sembrava salva, ero così allibito che non trovai neanche le parole per replicare, tanto più che assieme al vino era arrivata in tavola una ciotolina cinese (?) di quelle azzurrine a "chicchi di riso" contenente il patè di milza da spalmare sui crostini. Che non c'erano. 
Dopo una vana attesa richiamai la nostra giovane yankee: «Signorina, per cortesia, può chiedere in cucina quando arrivano i crostini? ». 
« Oh...ma il pane e' lì davanti a te! » rispose indicandomi il cestino del pane con l'espressione di chi in Piazza San Marco si senta chiedere dove è il campanile. 

Respirai profondamente mentre l'elfa iniziava a darmi calcettini leggeri sotto il tavolo perché lasciassi perdere: « Senta, se si chiamano (e lo avete scritto voi, non io...) crostini con la milza, ci devono essere da qualche parte i crostini e non il pane comune! Non le pare?» 
«Oh... certo che si usa il pane. La milza si spalma su pane. Tu prova a spalmare su pane... e' molto buono, sai ? ». 
Mi accingevo paternamente a spiegarle alcuni punti chiave della cucina toscana, con particolare riferimento al concetto di crostino quando Morena mi fece arrivare un nuovo calcetto sotto la tavola perché stessi zitto e dopo aver messo in stand-by la ragazza con un cenno imperioso di mano suggerì : « Probabilmente non sa cosa vuole dire crostino. Prova a dirle: toast... magari funziona.» . Ma, per prudenza, non seguii il consiglio e  dopo aver congedato la nostra giovane ignara dicendole che non importava e andava bene così, mi rassegnai a spalmare sulla mezza rosetta (non c'era neppure il pane toscano!), una melmetta grumosa e fredda da freezer che sapeva vagamente da milza.

               
Tuscany at her best
(come si prepara il vero pane toscano)

Arrivò a ruota, su un bel piatto da portata, il pezzo forte della cena: il tortino di zucchine, che a prima vista era così composto: forma semi-circolare con pareti a tratti bruciacchiate e abbastanza regolari nell'emisfero prospiciente il lato nord del tavolo. Vasto terrazzamento centrale delimitato da quattro fette di zucchina cruda (abbellimento, dimenticanza o delirio del cuoco?) cui seguiva, in direzione sud, una progressiva inclinazione con frane e smottamenti sempre più marcati che davano origine ad un' ampia zona acquitrinosa, color giallo uovo con vari sedimenti non classificabili, ma comunque in tinta con la tovaglia. 
« Scusi… questo cosa sarebbe?» La mia meraviglia ormai non aveva confini. 
«Ma e' tortino di zuchìnei ! Lei ha chiesto il tortino di zuchìnei…» Rispose ormai rossa in viso e spazientita da quel cliente così pignolo che faceva una questione di ogni cosa . 
«Guardi signorina, sicuramente in America il tortino di zucchine viene cucinato così e non lo discuto, ma dalle mie parti, una roba del genere,  se va bene, viene classificata come "frittata" e quando invece riesce così, viene denominata "un castròn”» 
«What's castròn? » Sgrano' gli occhioni azzurri come folgorata. Che avesse capito l'ingiurioso giudizio in veneziano sul "tortino di zuchìnei" specialità della casa? Così, dopo una pausa per calmare lo sdegno che le faceva gonfiare ritmicamente il petto dentro la salopette sbuffò, stufa di noi e dei nostri capricci: «Oh my God! Ma se tu no piace tortino, io lo porta via. » 
L'elfa, che quando serve è donna di pochi convenevoli, s’intromise decisa: «Si, benissimo...lo porti pure via. Vorremmo due caffè e il conto. Grazie.» 
Il caffè, brodoso il giusto, arrivò servito in due bicchierini di plastica di quelli che si usano negli ospedali (sempre per via del perfido grossista che...). 
Quanto al conto, accompagnato sul piattino da due caramelle di liquirizia  era, come temevamo, in linea con i peggiori prezzi turistici fiorentini. Lasciammo le banconote sul tavolo senza discutere ulteriormente (perché noblesse oblige ) e ci avviammo alla porta. Che ci fu aperta da una nuova americanina (la prima, forse, si era buttata sul letto a piangere) anche lei tutta pimpante . 
«Tutto benei ?» ci chiese ansiosa. 
«Certo, grazie, e complimenti per il pane….davvero squisito! » fu la nostra sdegnata risposta, e nuovamente ci perdemmo (affamati) nelle buie stradine attorno a Santa Croce alla ricerca almeno di una pizza al taglio.

venerdì 12 ottobre 2012

Ok... now I'm sixty- four (and so?)

Vuoi per questa settimana eternamente piovosa, vuoi per la consapevolezza che un ulteriore anno stava per aggiungersi al mio già considerevole mucchietto di "anta" e vuoi per la tosse e il mal di gola che non mi danno ancora tregua (perché quando le elfe rientrano da un viaggio se tu le accogli con un bel mazzo di fiori loro ti baciano d'impeto senza avvisarti che sono raffreddate e così ti attaccano quei loro potentissimi bacilli sconosciuti al genere umano, che poi diventi matto per debellarli, anche perché la tua avvenente farmacista stregandoti con i sorrisi ti rifilerà i suoi costosi rimedi erboristici che fanno passare in soli sette giorni un raffreddore che altrimenti sarebbe durato una settimana), sino a ieri mattina il mio umore era sul tristerello e propenso a musiche struggenti del genere "As time goes by" da ascoltare sorseggiando la splendida Slivovitz di prugne fatta in casa dal nonno di Katerina e giunta  in cambio di una partita di salumi piacentini (rientra nel protocollo d scambi culturali tra Italia e Repubblica Ceca)

                                              

Tra l'altro, sto lavorando da mesi con lo scanner e Photoshop per digitalizzare e restaurare il migliaio di foto della mia famiglia ereditate da mio padre e da altri parenti sparsi per il mondo perché non vadano disperse (le foto attraversano un intero secolo e due guerre mondiali e alcune sono dei primi del '900 come questa di mia nonna paterna nella sua casa di Smirne). 


Maria "Bebitza" De Andria in Volebele Vay  (1915)

Ora, finché ti occupi di persone ormai lontane nel tempo e che non hai praticamente conosciuto se non da bambino o di cui ignori del tutto il nome e cerchi di capire dai tratti del volto, da dove sono o da chi hanno vicino chi possano essere, è puro piacere di ricerca storica ed è anche divertente, ma quando poi prendi gli album più recenti e ti capitano per le mani immagini come queste due, ti rendi conto di come il tempo intercorso tra l'una e l'altra, che sembrava sconfinato e che era il "tuo" tempo di vita, in realtà sia volato via maledettamente veloce e così le malinconie aumentano in modo esponenziale...


Io a venti giorni in braccio a mia madre
 (la spilla di mia madre oggi l'indossa l'elfa. bello, vero?)


Mio figlio a venti giorni in braccio alla mamma
(i miei due amori)

Per fortuna, questa mattina le malinconie si sono dissolte come la nebbia a mezzogiorno perché, come spesso mi succede, io m'intristisco sino alla sera prima di compiere gli anni (il giorno prima di compiere i '50 ero uno straccio lamentoso, chiedere a mia moglie...), poi, appena li ho compiuti, è come se si resettasse tutto e mi sento subito meglio perché penso che in fondo ora ho altri 365 giorni davanti prima di pensare ad un nuovo compleanno. Dunque si riprende il cammino e come gridavano i nostri "Capitani da mar" ai marinai delle galeazze per incitarli prima delle battaglie: "Duri i banchi, fioi!".




Inoltre, a  migliorare ulteriormente l'umore, appena sveglio mi sono ricordato di questa marcetta divertente che i miei vecchi amici John, Paul, George e Ringo avevano scritto sicuramente per me circa quarant'anni fa e che, anche se contiene alcune imprecisioni (non ho nipotini di nome Vera, Chuck e Dave da tenere sulle ginocchia e non intendo affittare cottage sull'isola di Wight) non potevo certo perdere l'occasione di utilizzarla come colonna sonora del mio sessantaquattresimo compleanno. Anche questo mica è da tutti, no?