giovedì 18 luglio 2019

Delle mamme di una volta che giocavano a bridge e t' inducevano a giocare a scacchi


Qualche giorno fa, nella sala d'attesa del dentista, ho letto tra il divertito e il preoccupato, la notizia della cinquantenne pediatra padovana che aveva vinto ai Campionati Italiani di Salsomaggiore due titoli di campionessa italiana di bridge (complimenti!), ma era poi stata squalificata dal Tribunale dello Sport per doping in quanto avendo la pressione un pochino alta, come accade a molti dopo gli "anta", aveva preso un diuretico non consentito non sospettando che lo fosse e che occorresse segnalarlo. Soprattutto, questa povera signora non sospettava che il bridge venisse considerato come il calcio, il basket, il ciclismo, il tennis o altri sport "muscolari", dove agli atleti viene fatta fare la pipì dopo la gara per vedere se hanno assunto sostanze dopanti. Probabilmente, visto che al ridicolo non c'è mai fine, qualche mente insana annidata in chissà quale ufficio del CONI o di federazione sportiva internazionale ha ritenuto che reggere in mano un mazzo di tredici carte per un paio d'ore comportasse uno sforzo fisico non comune e tale da richiedere anche potenziamenti farmacologici che non fossero un paio di caffè ristretti per rimanere svegli e concentrati. Mi sono detto anche preoccupato in maniera retrospettiva perché mia madre, che a sua volta era molto brava a bridge, faceva anche tornei internazionali (e un paio li aveva pure vinti in coppia con una sua amica). Lei, prima di sedersi al tavolo verde di un torneo, prendeva come rito scaramantico un bel bicchiere di Glenfiddich con ghiaccio e, comunque, un diuretico ogni tanto lo buttava giù a sua volta. Dunque, a parte che immagino perfettamente la sua reazione se le avessero chiesto di fare pipì in una provetta dopo la gara, ho rischiato anch'io l'onta di avere una madre squalificata per doping come un ciclista? E poi... passi per le gare di bocce o di tamburello ma l'antidoping vale anche per i tornei di scacchi? Lo chiedo perché è vero che il trasportare malinconicamente e senza speranza del legname da un lato all'altro della scacchiera, come fanno molti giocatori, richiede comunque uno sforzo fisico, ma soprattutto perché con tutti i vecchietti in gara che soffrono di prostata la raccolta delle urine nelle provette potrebbe durare giorni.

Parlando del bridge a cui si dedicava mia madre, mi è tornato in mente un guaio che le avevo combinato involontariamente e che lei mi ha rinfacciato per anni. Durante la campagna referendaria per il divorzio nel 1974, il nostro corteo che defluiva da Campo Santo Stefano fu fatto passare per un’incredibile leggerezza della Questura proprio sotto il palco in Campo San Luca dove stava ancora tenendo il suo comizio avverso un senatore missino. Subito occupammo il campo e partirono slogan, pugni chiusi e fischi. Così partì anche il temutissimo reparto anti sommossa della Celere di Padova, nascosto come al solito nel campiello che portava al Cinema Rossini, che pestò con cura tutti quelli che trovava. A mia volta, dopo aver preso e restituito un mucchio di calci e spintoni, mi beccai nella ressa un pugno sul naso (temo sfuggito nella concitazione del momento ad un compagno) e poco dopo mi ritrovai nel campiello sotto casa mia, grondante sangue come un capretto sgozzato. Dopo un doloroso e maldestro tentativo di lavaggio alla fontanella del campo entrai di soppiatto in casa pregando Iddio che mia madre non ci fosse, ma essendo di sinistra e pure mangiapreti, le mie preghiere non furono ascoltate. Infatti, il mio ingresso fu accolto da altissime grida di raccapriccio. Nel salotto era, infatti, in corso una dura partita di bridge tra mia madre e un nugolo di contesse veneziane che quasi svennero al comparire di quell’energumeno in eskimo e con il viso tutto insanguinato. La partita fu così sospesa sine die per prestare soccorso all’infortunato che, più tardi, quando l’ultima contessa uscì da casa nostra, fu anche violentemente cazziato un po’ per lo spavento arrecato e un po’ perché la mamma quella volta stava giocando a soldi e vincendo con le pollastre di un centinaio di punti, che tradotto in soldi significava la spesa per l’intera settimana, visto che la pensione di reversibilità di un Capitano di Vascello caduto in missione, allora bastava a stento per arrivare a fine mese.

Comunque, la passione per il bridge di mia madre era così intensa che la spingeva, quando rientrava ben dopo mezzanotte dal Circolo Marina o da quello del bridge, a bussare alla mia porta ripetendo più volte la classica domanda inutile del "Carluccio, dormi?" perché è chiaro che se Carluccio si sente chiamare dalla mamma in pieno sonno, si sveglia comunque ed equivaleva alla classica "Esci?" di quando mi vedeva sulla porta con il cappotto addosso (e mi guardava storto quando le rispondevo. "No, è un' esercitazione") . Una volta ricevuto il mio grugnito e il "mamma, sei tu? ma che ore sono? c'è la colazione?" biascicato con la voce impastata di sonno, lei entrava spavalda, buttava il cappotto sulla sedia, si sedeva sul mio letto e diceva ancora indignata: "Non hai idea di cosa mi ha combinato l'Annamaria questa sera. Te la devo proprio raccontare... insomma... io dichiaro quattro cuori e lei mi guarda con l'occhio vitreo e mi chiede stupita "perché?" poi fa una licita a fiori che non c'entrava niente, che gli altri due giocatori si sono messi a ridere, capisci che figura? E poi si è anche offesa quando al bar del Circolo le ho detto che era meglio che giocasse a rubamazzo, che già scala quaranta per lei era troppo complessa." . Il fatto che io non capissi nulla di bridge e che delle castronerie al tavolo da gioco di questa Annamaria e altre sue amiche non m'importasse una cippa, non la turbava minimamente, dunque alla fine accettavo rassegnato il mio ruolo di sfogatoio delle sue indignazioni e pur sapendo che se le avessi detto "Vabbè, però visto che Annamaria è una tua allieva, potevi insegnarle meglio.. " lei sarebbe uscita immediatamente da camera mia lamentandosi di avere un figlio inguaribilmente cretino, per amore filiale non lo facevo. Alla fine, essendo di mio un bastian contrario, malgrado sapessi che il suo grande desiderio sarebbe stato quello di poter fare coppia a bridge assieme a me, per reazione ho preferito imparare a giocare a scacchi. 
Però ora non avete idea di come mi piacerebbe essere svegliato ancora nel cuore della notte per sentirmi raccontare che cosa le aveva combinato l'Annamaria. Perchè sono certo che lei starà giocando qualche partita anche lassù e chissà cosa le avrà combinato quel rintronato di San Pietro.

sabato 6 luglio 2019

Di come il destino si diverte facendoti incontrare gli amori che ti cambieranno la vita quando meno te l'aspetti


La mia nuova e giovanissima assistente aveva iniziato a collaborare con noi da pochi giorni quando, visto che per ultimare la sua tesi doveva fare una ricerca qualitativa di mercato, il docente che ce l’aveva segnalata mi chiese se potevamo aiutarla portandola dai nostri clienti perché potesse fare delle interviste per il suo lavoro e cominciare ad approfondire il contesto delle aziende. In questo modo iniziai il rapporto con Morena con una gaffe disastrosa. Forse sarà stato il destino che si era messo all'opera per le sue solite vie tortuose, ma comunque, per esaudire la richiesta, una mattina di maggio la feci salire (un po’ controvoglia, lo ammetto) a bordo della mia Delta e la portai a fare un giro nel Polesine, tra Occhiobello e Stienta, dove c’erano alcune aziende nostre clienti che la potevano interessare. 

La giornata era piena di sole e bellissima, come i colori della campagna e dei canneti del delta, così all’ora di pranzo, costeggiando un argine, fermai la macchina nello spiazzo davanti ad un’invitante trattoria all’aperto, con i tavoli sotto un tendone verde, dal lato ferrarese del Po. Lì, complici il vino bianco bello fresco e l’ambiente familiare, cominciammo a rompere il ghiaccio e a parlare di tante cose mentre un massiccio cameriere con giacca lisa e tovagliolo ascellare ci ammanniva “lento pede” delle robuste porzioni da camionista di gnocchi di zucca fatti in casa e anguilla in umido. Così passammo le due orette di quel caldo pomeriggio quasi estivo tagliando tabarri come vecchie comari e sghignazzando sulle mille disavventure delle nostre vite, con l’aiuto di un Trebbiano di buon corpo che scioglieva la lingua. 

Mentre lei sorseggiava il caffè di fine pranzo, mi alzai da tavola e visto che con tutto quello che avevo bevuto era saggio andare in bagno, ebbi la pessima idea di passare dalla cassa a chiedere che mi portassero il conto al tavolo. Errore fatale. 

Infatti, pochi minuti dopo che avevo ripreso il posto a tavola, arrivò il cameriere che assieme al foglio con il conto posò anche una bella chiave d’albergo, di quelle con la palla di ottone. Lo guardai sgomento, ma lui, ammiccando con aria complice, ci disse con un bell’accento emiliano: “Se adesso volete fare un riposino dopo mangiato, abbiamo delle stanze belle fresche su al primo piano”. Io dissi subito di no, ma Morena era inorridita e ora mi guardava torva, anzi, decisamente indignata. Pensava senza dubbio che quando ero andato alla cassa avessi chiesto la chiave convinto che ormai la pollastrella fosse cucinata a puntino e ci stesse. 


Quando ti guardano divertite perché
fai ancora il timidone che cerca di prendere tempo

Feci il viaggio di ritorno incartandomi sempre di più nel tentativo di spiegarle che la cosa non era stata voluta e che aveva sorpreso anche me. Lei ripeteva di sì, che mi credeva, ma capivo che era solo per educazione. Sapevo benissimo che mi considerava un vecchio porco che ci aveva provato. Comunque, il giorno seguente accettò le mie scuse sotto forma di un vistoso mazzo di rose rosse che suscitò invidia e sguardi interrogativi da parte delle colleghe di ufficio e i rapporti tornarono normali. 

Cominciando a fare amicizia, scoprii che Morena era molto, ma molto meglio di quanto l' avessi giudicata. Anzi, mi voglio rovinare: mi era diventata decisamente simpatica! Mi ero accorto che con lei stavo decisamente bene e mi piaceva ridere e scherzare da compagnoni (gran brutto segno! Quando ti piace ridere e scherzare con una donna come se fosse il tuo miglior amico probabilmente te ne stai innamorando.) 

Per me che sono un etereo sognatore, sempre pronto a far fughe in avanti, una donna che, invece di pendere dalle mie labbra di grande affabulatore, mi riportasse a terra tirandomi per la giacchetta era una novità assoluta e affascinante. Il solo problema, ma lo seppi dopo, è che spesso lo avrebbe fatto in maniera energica. Tra le sue virtù che a poco a poco si rivelavano mi piaceva anche molto il fatto che Morena fosse una persona leale, di modi franchi e solari, senza pensieri contorti e retrostanti. In particolare, mi colpivano molto alcuni aspetti della sua personalità veramente insoliti rispetto ai tipi di donne con le quali mi ero accompagnato fino ad allora. Lei era risoluta e determinata come un maschiaccio, con una grinta da far paura e scoprii presto che reggere lo sguardo di Morena “heavily incazzed” per più di due secondi era difficile anche per me, che pure ero allenato. 


Quando la mattina dopo vengono a fare colazione assonnate
e con addosso solo la giacca del tuo pigiama, sai bene che la tua vita da single durerà poco.

Mi piaceva meno, invece, il fatto che dopo aver detto scandalizzata: “Ma a questa povera Delta ci tiri mai il collo? Sembra un trattore” mi aveva fatto scendere e si era impadronita del volante facendomi vedere che giocando con le marce e lanciandola a tavoletta poteva anche toccare i duecento all’ora nel rettilineo autostradale tra Portogruaro e Latisana (per fortuna non c’erano pattuglie della Polstrada e ormai il reato è prescritto). Così, da quel momento in cui scoprii che avevo a bordo una specie di pilota di rally, ogni volta che si andava in trasferta, voleva guidare lei. Un giorno non lontano si sarebbe impadronita della mia vita, intanto cominciava con la mia Delta. 

Tornando al laborioso scoccare della scintilla tra noi, una mattina partimmo insieme per Portogruaro, dove avremmo dovuto pernottare in albergo perché ci attendeva del lavoro anche la mattina seguente. 

La sera, durante la cena di lavoro con i dirigenti dell’azienda nostra cliente, la mia giovane assistente, seduta di fronte a me sembrava davvero bellissima. Indossava una camicetta in lamé che ne valorizzava ampiamente la scollatura e aveva gli occhi che brillavano di una luce così densa di significati che tutte le mie attenzioni erano rivolte a lei. Il povero funzionario dell’azienda nostra cliente che continuava imperterrito a parlarmi di percorsi formativi e di processi di lavoro ne riceveva in cambio risposte vaghe o del tutto senza senso. D'altronde, che diamine, stava sbocciando un amore... 

Il salottino minimalista della mia casa da single arrampicata sui tetti di Calle del pestrin

Salutati i nostri ospiti, c’incamminammo per il corridoio dell’albergo verso le nostre stanze che, per un gioco del destino (o di una lauta mancia al portiere?) erano proprio una di fronte all’altra. In preda a vistoso imbarazzo e con il cuore in tumulto esitavo a dichiararmi, anche se avrei voluto, perché mi sarebbe dispiaciuto molto rovinare tutto con una mossa azzardata. Così, dopo una serie di assurdità del tipo “Se vuoi leggere ti posso dare il giornale” o anche “Vuoi dell’acqua minerale?” tanto per dirci ancora qualcosa nell’attesa di un segno di incoraggiamento da parte dell’altro, ci demmo la buonanotte e ci ritirammo delusi nelle nostre camere. 


Quello che la sua nuova vita da single è durata solo pochi mesi,
ma un grappino per festeggiare e vincere l'emozione ci vuole tutto...  

Sperando ardentemente in una sua visita, ad ogni buon conto lasciai la porta aperta. Lei, sperando ardentemente in una mia visita, a sua volta lasciò la porta aperta. Ci addormentammo tutti e due con la porta aperta, rischiando un torcicollo per via della corrente. E dormimmo saporitamente, per la serie: il fiore che non colsi... anzi, che non cogliemmo. Poche settimane dopo questi eventi mi ricoverai in ospedale perché, dopo l’incendio pauroso che aveva distrutto la casa di mia madre, dove ora abitavano mio fratello e mia zia ed altre sventure che non dico, mi era salita la pressione a livelli da pallone sonda e prima che m’innalzassi in cielo occorreva fare degli esami. Restai ricoverato dieci giorni in un triste reparto di nefrologia, in mezzo a vecchietti dializzati ed altri sofferenti. Ero molto abbacchiato, anche perché per un malato immaginario non c'è niente di peggio che stare da sano in mezzo a gente ammalata sul serio, quando un pomeriggio Morena arrivò con mia sorpresa (lei sola, tra tutti i miei presunti amici) a farmi visita. 


Appena pronunciato il "Sì!" e con una bella convinzione...

M’illuminai d’immenso e per un attimo fui tentato di abbracciarla e baciarla con passione, ma l’idea di fare incominciare il nostro amore in una stanza di corsia non mi sembrava particolarmente romantica. Così, ancora una volta mi astenni dal farmi avanti. Morena però, che da donna pragmatica era arcistufa del mio tergiversare, mi venne misericordiosamente a prendere in consegna il giorno dell’uscita dall’ospedale (ero pallido e debolissimo) e andammo a pranzo assieme alla Fiaschetteria Toscana. Il risotto con gli scampi e le zucchine e il Cartizze fecero miracoli e iniziai a sentire le energie perdute che riprendevano a scorrere nelle vene. Dopo pranzo si offrì di accompagnarmi fino a casa anche perché mi disse di essere curiosa di vedere se ero davvero una persona ordinata come mi vantavo. 

Una volta seduti sul divano del salotto fui preso dal panico perché non sapevo che fare, o meglio, lo sapevo benissimo, ma non avevo il coraggio di muovere il primo passo. In gran parte avevo timore di aver frainteso ancora una volta il suo atteggiamento e di venire rifiutato, ma un pochino avevo anche paura di essere troppo debole nel caso gli eventi avessero preso una certa piega e, per un minimo di decoro, non avrei voluto iniziare con la possibile figuraccia di un nulla di fatto. 

Alla fine, pur di superare quel silenzio imbarazzante iniziai a parlarle dei giochi simpatici che avevo sul mio Commodore 64 tanto per guadagnare tempo, finché lei mi fermò ponendomi la mano sulla bocca e, dopo uno sguardo divertito, sussurrò: “Ti decidi a baciarmi, stupido?”. 


And the winner is... (in realtà è stato un caso scolastico di Win -Win)

Dopo quattro anni di vita sostanzialmente serena, decidemmo che era il caso di continuare e che ci sarebbe piaciuto sposarci e mettere al mondo un nostro bambino. 

Ci sposammo nel Municipio di Venezia. La mia sposina, che come vuole la tradizione quella notte aveva dormito lontana da me a casa di mia zia, a due passi da San Bartolomeo,  arrivò tanto puntuale quanto elegantissima, con un bell'abito di raso scelto dalla collezione di non ricordo quale stilista, che naturalmente non avevo potuto vedere in anteprima perché porta male, ma che ci tenne in ansia per la consegna fino all’ultimo e tanti fiorellini tra i capelli. Naturalmente, le avevo raccomandato di stare attenta ai piccioni lungo la strada, che a Venezia si fanno un punto d'onore nel battezzare gli abiti delle spose in transito nelle calli. In quanto ad eleganza anch'io però non scherzavo, tutto impettito in uno splendido doppiopetto grigio ferro di Valentino acquistato da Longega con metà dei miei risparmi. 

A cerimonia conclusa, con l’altra metà dei risparmi ci concedemmo anche il lusso di un costosissimo corteo di motoscafi fino alla Punta della dogana per offrire ad una quarantina d’amici un dinner all’americana alla Linea d’ombra, il vecchio e glorioso bar con biliardo delle manche a scuola trasformato in locale di gran fascino e dal nome simbolico (sempre che uno abbia letto Conrad). Io la linea d’ombra l’avevo attraversata quel giorno, ma per tornare finalmente dalla parte del sole.