giovedì 7 giugno 2012

Noi che abbiamo vissuto quel lungo esame del 1966


L’avvisaglia che ormai ci fossimo vicini l’avevo appena letta sul bel blog di Mìgola e subito dopo ne ho avuto conferma sulla pagina web di Repubblica: “Maturità conto alla rovescia: si preparano 450.000 studenti”. Questo semplice titolo è bastato per rimettere in moto come ogni anno ai primi di giugno quel senso di agitazione incoercibile che mi attanaglia al solo sentir pronunciare le parole: esame di maturità. Non so perché, ma essendone abbondantemente lontano (gli esami che si affrontano alla mia età sono altri e ben più fastidiosi…) ed avendo un figlio ormai laureato e con tanto di Master che a domanda risponde: “abbiamo già dato” dovrei leggere la notizia con superiore distacco o addirittura ignorarla. Invece, ogni volta che si avvicinano gli esami ed escono fuori le prove della maturità sono subito pervaso da un senso di solidarietà verso tutti quei miei giovani alias seduti sui banchi e da qualche oscuro timore retrospettivo. Apro ansioso il giornale, leggo i compiti assegnati e mi domando se sarei stato capace di venirne a capo e spesso, tanto per farmi del male, arrivo al punto di cimentarmi perfino con le versioni (tanto ho la traduzione e posso copiare). 

Forse tutto nasce dal fatto che la mia maturità l’ho vissuta come un incubo non del tutto rimosso e tuttora ignoro come abbia fatto a conseguirla. Parlo del diploma, ovviamente, non della maturità comportamentale. Mia moglie, infatti, dubita fortemente che io ne sia in possesso sostenendo da sempre che devo esser stato colto dalla sindrome di Peter Pan attorno ai sedici anni e che ancora oggi mi comporti di conseguenza.


In campo Sant'Angelo, con l'aria serafica che deriva
 dalla consapevolezza di non sapere un tubo.

L’esame, comunque, l’ho passato nel 1966, all'acerba età di diciassette anni, perché ero stato spedito a scuola avanti di un anno nella certezza che tanto prima o poi sarei stato bocciato e mi sarei rimesso in pari, invece non accadde. Era la maturità pazzesca in vigore prima della riforma degli anni '70, praticamente immutata dalla fine del 1800 e dove si portavano i programmi di tutti e tre gli anni di liceo, si facevano tutti gli scritti possibili e gli orali erano due, separati da una settimana e su tutte le materie. Prima c'era il blocco di quelle scientifiche, poi quelle classiche. In entrambi i casi, erano almeno due ore d'esame garantite e t'interrogavano anche in storia dell'arte, in chimica e in scienze naturali. Alla mattina e anche al pomeriggio. 

Io non ho mai pompato eccessivamente sui libri, ma in quelle settimane disperate in cui ci si giocava tutto restavo a studiare fino a notte fonda, con solo la gatta assonnata a tenermi compagnia. Un po’ ero motivato dal fatto che non vedevo l’ora di uscire dal mondo della scuola con tutti i suoi riti che non sopportavo più e molto lo facevo per orgoglio personale e per dare finalmente una gioia a mia madre, che se la meritava. Un pochino anche perché se mi avessero bocciato immaginavo le prese per i fondelli e i sorrisetti ironici dei miei amici nel chiedermi per tutto l'anno seguente a che facoltà mi fossi iscritto. Infine, c'era anche la faccenda della storia appena iniziata con Donatella, ma di questo ne stiamo già parlando altrove e ci ho scritto pure un libro, dunque ve la risparmio.


Quello che "potrebbe fare, ma non si applica.." colto in un momento
in cui si applicava (forse...)


Le dimensioni dell’esame e l’impegno richiesto erano qualcosa di terrorizzante e non solo per me, ma anche per i più bravi. Fin da gennaio non si pensava ad altro e l’ultimo mese di scuola non si riusciva neppure ad organizzare una partitella a calcio o un’uscita al cinema perché erano tutti chiusi in casa chini sui libri (avessero avuto Wikipedia invece del Bignami, magari…). Emanuele si faceva negare al telefono e Marcello si aggirava per le Mercerie con una faccia che sembrava l’urlo di Munch. Lino, invece, era stato mandato da sua madre Serenina in ritiro come i calciatori nella cinquecentesca villa avita di Biancade persa nelle campagne vicino a Treviso perché si concentrasse nello studio (difficile conoscendolo) tra vecchi libri e i quadri del nonno ed era irraggiungibile. Le ragazze poi non parliamone. Già molte di loro erano secchione per tendenza naturale, ma anche quelle allegrotte del tipo usato sicuro sembravano entrate in clausura, con le madri che rispondevano seccate al telefono “Lasci stare tranquilla mia figlia che deve studiare. Anzi, lo faccia anche lei, che le conviene…”. 

A spasso con una compagna di classe, ma solo per ripassare
il greco, che non si pensi male...

L’unico tra noi che appariva serafico era un certo Magrofuoco, un giovanottone mite, dinoccolato, con le camicie di flanella a quadrettoni tipo tovaglia di trattoria sul Piave, i sandali con il calzino bianco e gli occhiali da miope spessi come un fondo di bottiglia, che veniva dalle campagne attorno a Treporti e che dopo il liceo voleva entrare in seminario (infatti, fa il sacerdote). Lui era il fenomeno che quando ci davano la versione dal latino, visto che la finiva in quindici minuti, poi la traduceva anche in greco per la gioia del professore ed era abbonato al 10 con lode venendo portato ad esempio per tutta la classe. Per questo, pur essendo un degnissimo figliolo, stava sulle palle a tutti e quando alla maturità cannò entrambi i compiti e prese un misero sei in latino e in greco molti di noi (si dice il peccato, non il peccatore) fecero gesti scurrili davanti ai tabelloni con i risultati. 

Qualcuno tentava perfino la via del doping. Ricordo un mio compagno che su consiglio di “uno che sapeva” si era impasticcato di simpamina prima dell’orale per presentarsi lucido e brillante di fronte alla commissione. Purtroppo per lui la commissione sospese gli orali per qualche ora per dare spazio a due privatiste fuori elenco che dovevano ritornare non so dove e quando venne il suo turno la pastiglia aveva finito l’effetto galvanizzante e si presentò al colloquio con la stessa brillantezza di un bradipo esausto. 



C'è poco da fare, il diploma l'ho preso, ma la maturità...
beh, quella mi deve ancora raggiungere...

Qualche giorno prima dell’esame si era saputo che l’insegnante esterna di latino e greco sarebbe stata una certa professoressa Chiozzi di Modena. Qualcuno si prese la briga di telefonare al suo liceo e ne venne fuori la storia che era severissima e che a Modena generazioni di studenti se la facevano sotto solo a sentirne il nome. In realtà non la ricordo particolarmente crudele, anzi, era perfino una donna dotata di un bel senso dell’ironia espressa con un bonario accento emiliano. Infatti, appena mi sedetti di fronte a lei per sostenere l’interrogazione di greco mi guardò soddisfatta e disse: “Lo sa che non vedevo l’ora di conoscerla?”. Ovviamente lusingato le chiesi il motivo e lei prendendo il compito con la mia traduzione rispose: “Perché lei è uno stratega eccellente. La sua idea che Pericle suggerisca agli ateniesi di dare fuoco alla propria flotta per disorientare gli spartani che assediavano la città è assolutamente geniale…” . Provai a sostenere la tesi che Pericle in realtà faceva il doppio gioco ed era un infiltrato spartano, ma venni ugualmente rimandato ad ottobre in greco con un bellissimo 3 (numero spesso ricorrente in quella materia)


la sigaretta della notte prima con gli amici...

Per la prova di italiano scelsi il tema storico anche perché inizialmente ero stato tentato di affrontare quello su Ungaretti pensando che avrei potuto scrivere qualcosa sulla sua raccolta poetica “Ossi di seppia” ma per fortuna Emanuele mi suggerì che era di Montale e quindi lasciai perdere. Il compito chiedeva di descrivere il periodo delle campagne risorgimentali da Cavour a Garibaldi dove qualcosina, avendo madre e nonna piemontesi e sabaude, sapevo. Dopo quattro ore, al momento di consegnare, avevo scritto moltissimo della situazione socio-economica del Piemonte (anche con un sapido excursus sulla cucina delle Langhe e gli agnolotti con il plìn e il sugo di brasato) un po' di Cavour (giusto che amava mangiare il risotto con il tartufo al ristorante del Cambio), ma di Garibaldi nessuna traccia (doveva essere ancora in viaggio di nozze con Anita). Ero praticamente rimasto bloccato nei pressi dello Statuto Albertino e della fatal Novara come i gitanti della domenica al casello di Melegnano.


... ma anche la birretta della notte prima con gli amici
(che non ci facevamo mancare niente, noi...)

Quindi, rassegnato ad andare ad ottobre anche in italiano, oltre che in greco e forse altro, tralasciai di studiare per l'orale e di conseguenza andai molto male. Mi arrampicai sugli specchi come Messner quando mi chiesero del Parini (confuso con il Monti) e non riuscii a recitare a memoria i sepolcri del Foscolo oltre alle prime tre righe e a quel "vero è ben Pindemonte!" che declamavo con piglio tenorile. Mi risollevai un po' con Carlo Goldoni (avevo visto la Locandiera di recente), ma crollai quando gli attribuii una commedia di Giacinto Gallina. Dunque, presi un bel 4 con la commissione che sembrava molto rammaricata della cosa, come se da me si aspettassero tutt'altra performance, anche se non ne capivo il motivo (scusate, ma non avete visto chi avete di fronte?). 

Così, alla fine, visto che non ci arrivavo, il nostro commissario interno (il preside, ormai un vecchio amico per tutte le volte che mi mandavano a fargli visita) me lo spiegò e con mia grande sorpresa mi rivelò che avevo preso 10 nel tema, che all'epoca era un voto pazzesco, dunque i professori erano delusi perché si aspettavano che li stupissi con altrettanta brillantezza all’orale. Fatta la media, il voto finale in pagella fu 7 che andò ad aggiungersi ad un altro 7 del tutto estemporaneo in fisica, guadagnato perché il professore mi disse ridacchiando che intendeva premiare il coraggio spudorato di uno che per la disperazione si era inventato su due piedi la tortuosa dimostrazione di un teorema che ignorava, peraltro riuscendoci. Talento precoce, no? 


Pensoso e dubbioso sull'esito dell'esame. Sarò andato peggio in  greco o in latino?
Però in filosofia ho fatto un figurone...


Infine, ho ancora vivi nella mente il batticuore e gli sguardi di quella mattina sulla fondamenta davanti al Foscarini, tutti in attesa che si aprisse il portone per poter vedere i risultati affissi in bacheca. Ricordo le scaramanzie di Emanuele, con le bretelle che gli portavano buono e il profumo spagnolo di suo padre e quelle di Marcello, che indossava ancora la stessa camicia del giorno dell'esame (e si sentiva). Ricordo Annavera che stava assorta in disparte e non voleva parlare con nessuno, che neanche ti potevi avvicinare ed Elena che guardava fissa l'acqua del canale e ripeteva come un mantra "se è andata male non torno neanche a casa, mi butto e basta" e poi la corsa tumultuosa dentro l'atrio appena i bidelli avevano aperto, con il mio nome che era in basso e avendo tutte le teste che si agitavano davanti non riuscivo a vedere che ci fosse scritto. Finalmente Emanuele che mi dice: "Che culo! Hai solo greco" e il mio urlo di gioia neanche avessi segnato a San Siro nel derby.


La cena di fine liceo, con il sollievo di avere avuto solo greco da riparare ad ottobre.
All'alba mi troverò su una panchina della Giudecca ad aspettare
il vaporetto senza ricordare come ci fossi arrivato.

Poi tutti a consolare la povera Mavi che era stata bocciata e singhiozzava tutte le sue lacrime con il seno precocemente ipertrofico che le sussultava, mentre invece Maurizio, bocciato a sua volta quando pensava di avere due materie soltanto, appariva come un eroe omerico folgorato da Zeus e stava appoggiato allo stipite del portone come un corpo senza vita. Infine il girotondo sfrenato e collettivo in fondamenta con Marcello che declamava uno per uno i nomi di tutti i professori e noi che li vaffanculeggiavamo in coro fino a far venir fuori i bidelli (vaffanculeggiati anche loro, maledette spie del preside). 

A ben pensarci, quanta magia in quelle giornate ormai tanto, troppo lontane... (fermate il mondo, voglio scendere).

Dedicato con tanto amore a Marina, Cristina, Elena, Sandro, Francesco e Marcello che non ci sono più.