martedì 28 febbraio 2012

Modestamente...

Che poi uno si sente anche lusingato... ma chi glielo spiega ora all'elfa che magari la gaia biondina è solo una mia lettrice? Conoscendola mi sa che è andata in garage a prendere l'arco da gara e le frecce al carbonio oppure sta già brandendo con aria minacciosa la padella in ghisa per le caldarroste. Purtroppo con lei il buon vecchio: "Amore... non è come sembra, posso spiegarti tutto..." non ha mai funzionato.

giovedì 23 febbraio 2012

Un assaggino di Ars Amandi Veneziana

Siccome le promesse sono promesse, un amico mi ha passato il filmato della commedia e, anche se le riprese sono state effettuate da lontano e nella parte iniziale c'è il disturbo dei soliti ritardatari che, secondo la peggior tradizione italiana, cercano di trovare posto al buio della sala facendo un casino immane, ne ho realizzato al volo un filmino, tanto per darvi un assaggio della faccenda. Ho messo nel filmato una ventina di minuti iniziali e la scena finale (la commedia durava in tutto un'ora e dieci). Dunque, mancano all'appello le scenette della (litigiosa) convivenza tra Donatella e Carlo, le schermaglie con la suocera onnipresente, la scoperta del tradimento che manderà tutto a monte e, soprattutto, la mia magistrale interpretazione del padre di lei a cui il giovane Carlo la va a chiedere in sposa. Malgrado tutto questo, spero di strapparvi qualche sorriso...
P.s.: Stefano, il posteggiatore della scena al ristorante, ci terrebbe a far saper che lui la chitarra la suona benissimo e che la scelta di fargliela strimpellare con accordi casuali e cantando da stonato è esclusivamente della regia.

martedì 14 febbraio 2012

Dell'antica arte veneziana dei commedianti

Prologo: o del teorema dell'autosfiga. 

Essendo di solito un laico razionale non sono molto superstizioso e, da buon veneziano, limito le mie scaramanzie o al toccare l’addome pingue e portafortuna del bassorilievo di soldato che si trova su una delle colonne delle Procuratie Nuove, oppure al non pestare la pietra rossastra di calle Zorzi, a Castello, dove, secondo la tradizione, si fermò definitivamente la grande pestilenza del 1575 che nel giro di due anni mandò al creatore più di mezza città. Detta pietra, che è posta proprio nel centro del sottoportico tra i due tabernacoli votivi dedicati alla Madonna che ne adornano le pareti, viene da secoli schivata con manovre anche spericolate da ogni studente perché pare che se calpestata garantisca la bocciatura o un’interrogazione nefasta. Tutto qui. Eppure domenica mattina, il giorno dello spettacolo, la mia razionalità laica è stata messa a dura prova al momento di aprire la finestra, alle sei e quaranta del mattino. Le prime luci del giorno, infatti, mi rimandavano le immagini di una fitta nevicata in corso e delle strade già completamente ricoperte da almeno una decina di centimetri di manto immacolato. Subito dopo il “ma vaffa…” ho pensato: “Ecco! Lo sapevo… qualcuno me l’ha chiamata!” e mi sono subito immerso nella ricerca del menagramo perché cose del genere non possono rimanere impunite. Morena stava ancora dormendo con l’aria innocente (la perde durante il giorno) e, comunque, non mi ricordavo che avesse fatto o detto nulla di particolare nelle giornate precedenti. Anche le mie amiche di blog erano state tutte bravissime e nessuna si era fatta scappare il temutissimo augurio porta sfiga. Dunque, non potevano essere state loro. 

Lo sberleffo maligno delle elfe ai mariti preoccupati per  la neve

Scendo in cucina a preparare il caffè per l’elfa che è stata risvegliata dalle mie imprecazioni e mi cade l’occhio sulla pagina del Gazzettino di sabato che titolava: “Venezia fortunata! Il Blizzard porta il gelo a Carnevale, ma niente neve”. Ora, a parte che da mille anni quel vento gelido per noi veneziani si chiama il Borìn (la piccola bora che arriva dal golfo di Trieste ancora abbastanza forte da far cadere tegole e camini) e non si vede perché ora debba anglicizzarsi, mi era finalmente chiaro chi fosse il colpevole della nevicata che avrebbe sicuramente decimata la presenza del pubblico. Il tempo di lamentarmene con Morena che nel frattempo era scesa in cucina e lei ridacchia dicendo: “Sei sempre il solito! Non avevi scritto un post la scorsa settimana che parlava del fascino romantico della neve? Eccoti servito“ . Così, ho scoperto che mi ero autosfigato da solo. 

 Cronache dal backstage

Avendo scomodato moltissimi santi però qualcosa ottengo perché verso mezzogiorno spunta un bellissimo sole che inizia a sciogliere la neve, tanto che alle due e mezza, quando vado al Teatro Lippiello le strade sono già perfettamente sgombre. La compagnia è già tutta presente (i grandi artisti come me, arrivano sempre con un pelino di ritardo perché fa chic), compreso Fabio, l’attore che ha uno dei ruoli principali e che sabato sera aveva la febbre e un possente raffreddore, tanto che lo avevamo fatto recitare a mezza voce per evitare che si presentasse afono. Infatti, Fabio è una specie di parafarmacia ambulante e ha nascosto dietro le quinte una borsa contenente ogni sorta di medicinale, dal Benagol alla Tachipirina e perfino l'aereosol per il Fluimucil. In caso di necessità, mentre le luci saranno puntate su Camilla dall'altro lato del palcoscenico, lui si avvicinerà e gli somministreremo una veloce spruzzata di spray al cortisone. Intanto, le due graziosissime Ilarie, che all’inizio si erano rifiutate di ballare come le ragazze cin cin di Colpo Grosso, si erano studiate le coreografie su You Tube a nostra insaputa (che ormai è molto di moda, tanto che sembra che anche Schettino comandasse la Concordia a sua insaputa) ed al mio arrivo stavano provando il balletto ed erano semplicemente divine, come se lo avessero fatto da sempre. 

L'elfa si aggira tra le consolle dei tecnici audio prima dello spettacolo

Appena gli attrezzisti e lo scenografo finiscono di sistemare le luci, la mia poltrona di scena (una normale sedia girevole da ufficio trasformata in una elegante poltroncina da casa patrizia) e di smistare le tante cose che dovevano rimanere sul palcoscenico e quelle che andavano dietro le quinte, dopo gli esercizi in gruppo per riscaldare le voci (la “ooooo” di pancia mi è venuta benissimo) Simone ci ordina di iniziare la prima delle due "filate" che precederanno lo spettacolo e che per la prima volta saranno effettuate con le luci di scena, quindi al buio per tutti quelli che non sono sul palcoscenico (però abbiamo delle piccolissime pile a led per leggere i copioni e non perdere il filo di quel che dobbiamo fare).

Fabio e le truccatrici al lavoro

La commedia è piuttosto complessa da mettere in scena, perché, oltre al gioco dei rimandi tra gli attori che impersonano Carlo e Donatella adulti e i due che li impersonano da giovani, ci sono tante entrate e uscite da coordinare con precisione svizzera, le varie posizioni sul palcoscenico da rispettare per non uscire dalle luci e anche diversi ambienti da cambiare. Inoltre, dietro la mia quinta (uno spazio minuscolo a fianco del palcoscenico con una linea rossa sul pavimento da non oltrepassare per non essere visti dal pubblico) siamo nascosti e pigiati in cinque senza contare che alcuni attori dovranno cambiarsi il costume in mezzo a noi e comunque, anche se ci sono tre sedie dovremo rimanere in piedi per tutto lo spettacolo. Dietro l'altra, ce ne sono altrettanti, più molti oggetti di scena che dovranno comparire al momento giusto. Simone, il regista, avvisa che taglierà le mani e altre parti del corpo non precisate a chi si deconcentrerà e, infatti, il gruppo delle comparse vestite da calciatori che devono solo irrompere sulla scena quando Carlo, dopo la separazione da Donatella riscopre i pregi della vita da single, canna il tempo dell'uscita e arriva sul palcoscenico alla spicciolata, tra l’altro dimenticandosi di non pestare troppo sul pavimento in legno per non sembrare la carica dei bisonti. Dopo la cazziata ai reprobi si riprende e questa volta va bene, così uno dei calciatori che deve cambiarsi per vestirsi da posteggiatore in costume da gondoliere si fionda dal palco nella nostra quinta dove ha gli abiti per la nuova scena. In tal modo scopriamo quanto sia duro far rivestire al buio e in tre minuti un giovanotto atletico e pure con una chitarra in mano in mezzo a sei persone pigiate. Soprattutto il farlo in silenzio e senza smoccolare per le gomitate e le pestate di piede.


Con il gatto Belzebù e il sigaro cubano (mio originale) nei panni del  terribile padre
 di Donatella a cui Carlo dovrà chiedere la mano della figlia. 
Così truccato mi faccio impressione.


Tutto va di nuovo per il meglio quando nel bel mezzo della scena del ristorante si apre la porta della sala ed entrano tre signore impellicciate, convinte che lo spettacolo iniziasse alle quattro. Vengono cortesemente rifocillate (un bicchiere di tè non si nega a nessuno) e invitate a ritornare. Poi tutti le maledicono perché Simone, che è un perfezionista, ci fa ricominciare tutto da capo. Così come ripetiamo otto volte la scena del bacio tra i due giovani Carlo e Donatella perché l’inclinazione delle teste al momento cruciale non è naturale e poi Teresa lascia intravedere a volte il trucco di baciarsi il pollice messo apposta sulle labbra di Sebastiano. Alla fine, verso le sette e mezza arrivano finalmente le truccatrici e si indossano i costumi di scena. Io pure, anche se cerco di svicolare, vengo truccato da una signora bravissima con una specie di fondo tinta e altro per evitare di sfavillare con le luci di scena. Mi sembra di essere Berlusconi. Sotto i miei occhi invece, la povera Camilla (che interpreta con una bravura e una padronanza scenica davvero sorprendenti la parte di Donatella adulta) viene invecchiata a tal punto che pur essendo una carinissima diciannovenne ne dimostra almeno venti di più: Anche Fabio verrà invecchiato a dovere come è giusto che tocchi ad un Carlo adulto, però devo dire che i capelli pepe e sale e stirati gli conferivano un’aria da intellettuale non malvagia. 

Fabio e Camilla, anche loro ingrigiti a dovere
Alle otto e venti, con l’eccitazione di tutti alle stelle e dopo che uno dei calciatori ha rovesciato nelle quinte delle bottiglie di birra che servivano per una scena, vengo convocato d’urgenza sul palco per  il rito tradizionale di scaramanzia della Vanguardia Nonsensista. Così mi ritrovo in circolo con tutti gli attori che si tenevano per mano in un certo modo e sono costretto a gridare con loro e con voce possente: “merda…merda….merda”  pure con il salto finale. Una sorta di haka degli All Blacks, ma più ruspante e, comunque, sono lieto che l’elfa non mi abbia visto farlo perché è arrivata due minuti dopo.

Tutti sul palco prima di aprire le porte per il rituale della Vanguardia Nonsensista

Dopo un'ultima rapidissima checklist di Elena (la precisissima aiuto regista) per verificare che tutti gli oggetti e le persone fossero nei posti giusti, finalmente il dato è tratto. Si aprono le porte della sala e noi ci stipiamo tutti tra le quinte nel massimo silenzio. Arnaldo alla consolle fa partire di sottofondo “un amore” di Ricky Gianco, che oltre ad essere una canzone bellissima dura sei minuti e quindi aiuta ad accogliere il pubblico e a fargli prendere posto. Siccome il brusìo cresce in continuazione e io sono curioso di mio, contravvenendo all’ordine di non sbirciare sposto un pochino la tenda della quinta e resto senza parole: la sala (140 posti) è completamente piena. Si spengono le luci e dopo una pacca beneaugurante Fabio sale gli scalini e inizia deciso il suo monologo d’apertura. Sento di colpo il calore del faro che lo illumina dalla colonna delle lampade e che è proprio sopra la nostra testa e la cosa mi fa sentire lucido e determinato, come spesso mi capita quando so di essere in gioco e che non c'è più spazio per le ansie. Intanto, Sebastiano, appena tornato single, entra in scena con l’aria tristissima, la scatoletta di tonno in mano e la musica di Ecce Homo (la sigla di Mr. Bean). Il pubblico inizia a ridere e a divertirsi, segno che stanno al gioco. Ottimo...


Teresa e Sebastiano /(Carlo e Donatella giovani).
Notare il kilt scozzese di lei originale anni'70  e la cravattina sottile di lui, come si usava allora
(bravissimi i costumisti)


La Ilaria piccola (si fa per dire, che lei ha diciotto anni e l’altra 22) che è vicina a me e di cui percepisco il nervosismo, mi bisbiglia di essere in ansia per il balletto e, visto che mi sento il nonno della compagnia, cerco le parole giuste per tranquillizzarla. Poi quando tocca a lei e parte la sigletta di Colpo Grosso schizza fuori decisa come i fanti dalle trincee del Carso assieme all’altra Ilaria e, come mi ha detto Morena, balleranno stupendamente. Come volevasi dimostrare. Infatti, poco dopo appena il gondoliere chitarrista che al ristorante disturba continuamente la dichiarazione d’amore di Carlo a Donatella, scende tra il pubblico cantando una canzonaccia popolare, tutti partecipano al coro battendo il tempo con le mani e c’è il primo applauso a scena aperta (altri ne seguiranno appena entra in scena quell’istrione di Pierpaolo con la sua performance del cameriere veneziano pagato a percentuale). Il quale Pierpaolo, forse perché Fabio parte in anticipo con la sua battuta, si dimenticherà di portare fuori un piatto (peccato venialissimo, tanto nessuno del pubblico lo sapeva) e tornerà tra le quinte disperato e rabbioso con sé stesso, tanto che l'Ilaria grande, che è anche la sua compagna nella vita, avrà il suo bel daffare a consolarlo.


Sebastiano e Teresa (Carlo e Donatella giovani) al ristorante in balia
del cameriere Pierpaolo pagato a percentuale


Insomma, tutto fila alla grande fino a che Sebastiano inizia a spogliarsi furiosamente in scena scagliando via i vestiti  a casaccio mentre Donatella si sta preparando per la loro prima volta. Rimarrà in canottiera e mutande e scapperà a nascondersi tra il pubblico appena sentirà la voce del padre (io) che ritorna inaspettato a casa. Il guaio è stato che, pur prestando più attenzione che durante le prove, dove aveva rovesciato una quinta con il lancio di uno scarponcino e abbattuto con l’altro, come fossero i birilli del bowling, tutto quel che c’era su un tavolino di scena,  questa volta al momento di rientrare nella quinta e con due soli minuti a disposizione per rivestirsi, mentre si infila spasmodicamente la camicia prorompe in un angosciato, quanto espresso diligentemente sottovoce: “cazzooo! Dove sono finiti i pantaloni? Cercatemi i pantaloni, non posso tornare in scena nudo! “ . Inizia così una frenetica caccia al tesoro sul pavimento con la piletta fino a che individuiamo una massa scura in fondo al palco, vicino alla porta del camerino, che però non potremmo raggiungere perché ci vedrebbe il pubblico. A quel punto, parte una serie di cenni disperati verso il regista che con molta prontezza di riflessi dall’altra quinta ci fa cenno di anticipare subito l’uscita delle due Ilarie che hanno il compito di cambiare le scene facendo finta di essere le camerierine che riordinano la casa. Così, con una pedata ben assestata le braghe vengono buttate giù dal palco e rientrano in possesso del legittimo proprietario (ma non la cintura, finita chissà dove). 


Seba mi chiede la mano di Donatella e io per dispetto gliela concedo,
ma come il megadirettore galattico di Fantozzi non gli stringo la mano.


Poi è stato il mio turno, e siccome sono un vecchio istrione, all'ultimo istante mi sono divertito a colorire il mio personaggio con qualche battuta fuori dal copione e giocando con il gatto che faceva tanto capo della Spectre solo per vedere la faccia di Sebastiano diventare bianca sotto il cerone. Poi, dopo una risata diabolica (non prevista) gli ho finalmente detto che, se proprio la voleva, "Quella dolcissima, meravigliosa... ma vorrei dire anche (pausa) grandissima rompicoglioni di mia figlia Donatella, era tutta sua!" e mi sono rivisto tanti anni fa quando la cerimonia rituale di richiedere la mano della mia compagna a suo padre era toccata a me, ma per davvero. Retrospettivamente mi sarebbe piaciuto che suo padre mi avesse parlato con tanta franchezza...

Con Fabio, Ilaria 1, Pierpaolo il gatto Belzebù, Ilaria 2 e Camilla
per ricevere l'applauso del pubblico
Da quel momento in poi e fino all'ultima scena tutto è andato liscio e, insomma, abbiamo avuto tre minuti filati di applausi e altrettante chiamate che detti così sembrano pochi, ma vi assicuro che in scena fanno molto effetto. Ah! Dimenticavo di raccontare che quei giovani bastardi della Vanguardia mi hanno fatto un bellissimo scherzo perché si sono messi d'accordo tra loro e siccome sapevano che al momento dei ringraziamenti reciproci avrei detto al pubblico che era stato bellissimo lavorare con questi ragazzi che "si erano rivelati dei grandi professionisti" sono scoppiati tutti in una risata clamorosa con inchino, lasciandomi in piedi in mezzo alla scena a fare la figura del pero (però è scattato un altro applauso del pubblico). 


Ecco, questo é tutto e vi assicuro che ora che dopo l'attesa è tutto alle spalle ho una grande malinconia addosso. Mi sa proprio che ad ottobre faremo una replica...

venerdì 10 febbraio 2012

Meno tre... meno due... e non sono le temperature.

Ormai ci siamo... la data che sembrava lontanissima, tra una prova e l'altra, tra una battutaccia goliardica e una sigaretta fumata al gelo in cortile,  tra una frittola e un caffè nella pasticceria di fronte al teatro è arrivata al'improvviso alle porte e domenica sera, pronti o non pronti, si va in scena con la commedia. 
Insomma... alea iacta est.

E' stato un po' come quando me la prendevo calma con gli esami universitari, che tanto all'appello mancava ancora un mese e  c'era tutto il tempo da dedicare alla ragazza e agli amici. Poi  di colpo il tempo, forse per via della teoria della relatività o di qualche altro principio di Einstein, si metteva a correre come un centometrista e così una bella mattina scoprivo che l'esame era la settimana dopo e mi mancavano ancora da studiare i capitoli sul diritto di famiglia e le successioni. Ricordo che avendo innalzato l'arte dello studio frettoloso per capitoli e sommi capi a livelli di eccellenza, riuscii perfino a lucrare un ventidue in Storia del diritto romano studiando il capitolo del Codice Giustinianeo sul treno per Padova, tra le stazioni di Mira e quella famigerata di Vigonza-Pianiga (in quegli anni per scoprire se eri matricola e sottoporti ad ogni tipo di angheria i goliardi che facevano le ronde tra gli scompartimenti del treno locale per Padova ti chiedevano cosa ci fosse in mezzo tra la stazione di Vigonza e quella di Pianiga e qualsiasi paese tu dicessi era sbagliato perché la risposta esatta era: il trattino) . 


Al mio tavolo di lavoro, facendo finta di studiare (1970)

In seguito, in pieno '68, ebbi la brillante idea di chiudere a chiave nel suo studio il preside di facoltà perché ritenendo che non avessi frequentato le sue lezioni si rifiutava di mettermi la firma sul libretto per sostenere l'esame di diritto civile. Io sapevo di essere nel giusto perché le lezioni le avevo frequentate tutte anche se le svolgeva l'assistente ed era solo sfortuna se l'unica che avevo bucato era proprio quella in cui lui, poco prima di Natale, era arrivato in aula di sorpresa a prendere i nomi di quei pochi che c'erano. Così, con il coraggio e la determinazione dei miei avi guerrieri gli dissi che non lo avrei fatto uscire di lì finché non mi avesse messo quella firma che mi spettava. Ma siccome sono sempre i piccoli dettagli che rovinano le grandi imprese non mi accorsi che il mio prigioniero poteva tranquillamente uscire da una seconda porta che aveva alle spalle per chiamare i bidelli e farmi portare via. Così, evitate per l'intercessione di un docente che mi aveva preso in simpatia, tutta una serie di denunce oltre all'espulsione dalla facoltà e conscio del fatto che probabilmente avrei superato l'esame di diritto civile solo all'alba del 2000, mi trasferii per l'ultimo anno all'Università di Ferrara e questo migliorò moltissimo le mie performance perché in tal modo potevo preparare gli esami con tutto l'agio possibile, avendo quasi un'ora a disposizione per studiare tra Mira e Rovigo. Ma torniamo alla commedia...

Ormai da qualche sera ci siamo spostati definitivamente al teatro Lippiello, per mettere giù assieme ai nostri tecnici le scenografie e provare finalmente gli impianti audio per le musiche, le luci e anche i costumi di scena.
Questi ultimi saranno molto curati perché la vicenda, proprio come il libro da cui è tratta, si svolge agli inizi degli anni '70 e il regista ci tiene molto a rendere tutto realistico e quindi, per esempio, la costumista è diventata matta a trovare la gonnellina kilt scozzese con lo spillone dorato che indosserà Teresa (Donatella) nella scena del primo bacio, ma anche i mutandoni rossi a pallini bianchi che dovrà indossare Carlo al momento della fuga sui tetti (e tra il pubblico) per non farsi sorprendere dal padre di lei rientrato all'improvviso (è la citazione da una triste vicenda realmente accaduta all'autore che però ci tiene a dire che all'epoca del fattaccio indossava dei normalissimi boxer bianchi). Anche il ragazzo (bravissimo) che ci prepara i materiali di scena, dopo aver creato tutte le portate della cena al ristorante (il suo piatto di linguine alla buzara, anche se in plastica e lana, faceva venire voglia di mangiarselo) ha dovuto riprodurre esattamente la copertina introvabile del long playing di Pinball Wizard che Carlo porterà in dono e che lascerà cadere per terra al momento del bacio (fortuna che almeno il vinile destinato a scheggiarsi non è quello originale, che costerebbe un patrimonio). Ora so che è alle prese con la creazione di un finto salame che dovrà comparire nella prima scena, ma se me lo dicevano ne portavo uno io, che forse era più suggestivo e realistico.


Una prima sorpresa è stata che l'Auditorium ha un palcoscenico in legno di dimensioni adeguate ma che è rumorosissimo come una grancassa e quindi dovremo muoverci a passi felpati  per evitare di coprire le voci degli attori con una carica di cavalleria. Soprattutto la mia stazza renderà la cosa difficile, anche se cercherò di muovermi lieve come l'ippopotamo di Walt Disney nella danza delle ore. La seconda sorpresa è stata che l'impianto di illuminazione è buono e abbastanza potente, ma manca il segui persone, cioè l'occhio di bue, che nel nostro allestimento è fondamentale per evidenziare solo l'attore che recita in quel momento e lasciare in ombra gli altri che devono essere inattivi. Dunque, lo noleggeremo. La terza sorpresa è stata che il teatro, pur ristrutturato di recente, ha un impianto di riscaldamento con dei diffusori sul soffitto che producono un ronzio di fondo molto fastidioso e pertanto lo spegneremo prima dello spettacolo confidando in tutti i sensi nel calore del pubblico. 

Infine, abbiamo scoperto che, al contrario di quanto ci era stato detto, non ci sono delle quinte, ma solo delle semi quinte e non c'è un sipario per cambiare le scene. Dunque, siccome la storia si svolge in diversi ambienti (dal ristorante veneziano alla casa di lui e quella di lei) abbiamo dovuto far costruire alla svelta dallo scenografo due pannelli aggiuntivi per nascondere al pubblico in sala almeno i mobili e gli attori in attesa di entrare di volta in volta in scena. Siccome tra i ragazzi della compagnia si fa sfoggio di creatività abbiamo escogitato sul momento una cosetta geniale per cambiare la scena con garbo. 

Infatti, abbiamo vestito da camerierine le due (graziosissime) Ilarie della compagnia (con le gonnelline plissettate nere, le traversine bianche e la crestina di pizzo) in modo che, mentre gli attori recitano, entrino in scena alle loro spalle facendo finta di spolverare e sostituendo gli arredi, spostando i tavoli e cambiando le fodere del divano per creare la nuova ambientazione. Ieri sera poi, avendoci preso gusto, abbiamo chiesto alle due ragazze di entrare in scena anche nella sequenza iniziale in cui Carlo, dopo la separazione da Donatella,  riassapora la libertà da single e tra le tante cose che riscopre ci sono anche il calcio in televisione e, naturalmente..."Colpo grosso" (lo so... è degli anni '80, ma le Kessler con il loro "Pollo e champagne" erano meno sexy). L'idea era quella di fare entrare in scena le due Ilarie mentre risuonava la celebre sigla della trasmissione (cin cin ...ricoprimi di baci) sculettando alle spalle di Carlo proprio come le "Fruttine" di Umberto Smaila. Ma c'è stata la sollevazione indignata delle due ("Giammai! Avremo i genitori in sala...") e abbiamo dovuto battere in ritirata.      

In tutto questo, abbiamo un regista (Simone) e soprattutto un' aiuto regista (Elena) tanto bravi quanto esigenti e severissimi, che ieri sera ci hanno preso per la collottola e siccome alcuni di noi (non pensate male, non ero io) avevano sbagliato i tempi e il tono di alcune battute ci hanno tenuto a provare sino a mezzanotte. Unico conforto concesso agli attori: una pausa di un quarto d'ora per una pizza al taglio fredda e ingozzata stando seduti sul bordo del palcoscenico (e solo coca cola, niente birra...). L'elfa, quando ha saputo l'ora che avrei fatto, ha ridacchiato maliziosamente e dopo aver detto "Me la stai contando giusta? Sono sicura che sei proprio a teatro?" ha soggiunto " Comunque, la bella novità e che a quell'ora sarò a letto perché io devo alzarmi presto per andare al lavoro, mica come te che sei lì a  divertirti e quindi o ti danno un passaggio, o torni a casa a piedi".  Ed è quello che ho fatto, perché il teatro è anche sacrificio, che diamine!

Ah! Niente auguri, mi raccomando. A teatro siamo tutti scaramantici...

domenica 5 febbraio 2012

Varda che nèvega (forse...)

In questi giorni ho letto nei blog delle mie amiche dei pezzi molto belli e pieni di poesia sulla neve e quindi provo a raccontare qualcosa a mia volta, anche se le immagini dolomitiche delle piazze e delle strade di Roma, confrontate ai pochi centimetri che sono caduti qui a fine gennaio mi rendono difficile farlo. Meno male che le foto e i racconti della nevicata che ha nascosto in poche ore la nostra auto parcheggiata a Casorate Primo (Pavia), mi hanno tolto quella fastidiosa sensazione che l’Italia si fosse rovesciata come la Costa Concordia. Tra l’altro, il nostro giovane ambasciatore veneto nel pavese mi ha appena comunicato che questa mattina stava nevicando di nuovo e il mio pensiero è corso subito alla bella Katerina che domani lo raggiungerà da Brno dopo un viaggio di 12 ore tra treno, autobus, metropolitane e lande innevate (cosa non si fa a vent’anni per amore…).

Carlo "Amundsen" con il suo fedele cane da slitta Whisky "Armaduk"
in attesa di dirigersi verso il pack polare della Gazzera .
Notare la presa al collo del cane da slitta per farlo stare finalmente fermo.

La giovane feldmarescialla morava, malgrado la Czech Republic non sia ai Caraibi è piuttosto freddolosa e dunque spero che mio figlio le spieghi con precisione teutonica e non con la sua deplorevole approssimazione italiana dove le ha nascosto le chiavi di casa perché possa entrare a scaldarsi mentre lui è al lavoro e non passare un intero pomeriggio seduta al bar con le valigie. Ma, soprattutto, spero che si ricordi di mettere le chiavi nel nascondiglio al momento di uscire di casa, perché il sangue del mio sangue quando è assonnato è una mina vagante, proprio come suo padre che ormai non conta più le volte che si è chiuso il cancello alle spalle senza prendere le chiavi. Fortunatamente, so che Gianmarco (che oggi ha rinunciato alla partita e sta pulendo la casa a specchio per prepararla all’arrivo del severissimo ispettore generale) le sta preparando per la cena un sontuoso gulash con le patate e tanta paprika gulàshova (sua madre ce ne ha regalata una confezione grande come un proiettile d’artiglieria e dobbiamo smaltirla) e spero che questo, servito bello fumante assieme a qualche bicchiere di Bonarda dell’Oltrepo’ (acquistata su consiglio paterno, che lui manco sapeva esistesse) possa corroborarla a dovere. Di mio ci aggiungerei una polenta gialla non troppo soda, che possa sciogliere nel suo grembo lo straordinario gorgonzola di quelle parti, ma sono raffinatezze che i figli non conoscono ancora.

Piazza  San Marco sotto la neve, vista dal campanile (1970)
  
Tornando alla neve, devo dire che qui a Venezia da diversi anni è un evento abbastanza raro dato che, se proprio deve, nevicherà una o due volte, non di più.  Piuttosto ghiaccia un bel po’ di laguna come in queste ore, che di notte, quando è sereno come ieri,  si arriva molto sotto allo zero, ma neve non se ne vede. Però mi ricordo benissimo quanta ne veniva giù e che freddi erano gli inverni degli anni ’50, quando, non potendo seguire mio padre da una base navale all'altra per via della scuola, abitavo nella grande casa dei nonni, a San Lio. 

Allora, per i miei occhi di bambino la neve era una specie di magia ed era attesa come tale. L’avvertivo fin dal giorno prima, quando il vento di bora assieme ai nuvoloni grigi me ne portava il profumo, perché la neve ha un suo profumo sottile, che se ci fai attenzione lo distingui tra mille. Veniva giù silenziosa quasi sempre di notte, quando i fiocchi “attaccavano” bene sui masegni in pietra d’Istria delle calli e dei campielli perché nessuno li calpestava, tranne forse qualche gatto randagio in cerca di riparo nei sotoporteghi o di qualche prelibatezza nei sacchi della spazzatura. La mattina, appena aperti gli occhi, sentivo la nonna che brontolava in cucina che era tutta colpa della bomba atomica (qualsiasi evento atmosferico in quegli anni era attribuito dalla vox populi agli effetti degli esperimenti nucleari) e la mamma che discuteva con la zia se mandarmi a scuola o meno. Così, appena spalancate le imposte della mia camera sul canale mi appariva lo spettacolo dei tetti bianchissimi a perdita d’occhio, delle cupole di San Zanipolo che sembravano enormi meringhe coperte di panna montata, delle barche ricolme di neve e del ponte delle paste con le ringhiere tutte ghiacciate e le impronte dei pochi ardimentosi che rischiavano lo scivolone sui gradini.

La piazza vista dal lato Procuratie nuove (1970)

Se il gran consiglio di famiglia decideva per la scuola, allora, dopo essere stato preventivamente corroborato con due rossi d’uovo sbattuti con tanto zucchero, venivo imbacuccato da strati di sciarpe fino agli occhi. Inoltre, nonostante il cappottone spigato con la martingala, portavo il Gazzettino infilato sotto la canottiera per ulteriore difesa dal freddo. Quando mi chinavo il giornale scrocchiava con mio grande imbarazzo e, se sudavo, mi restava impressa sul torace gran parte della pagina. In quel periodo si usavano dei pessimi inchiostri da stampa. Comunque, l’andata a scuola significava ogni volta il ritorno a casa con la neve fin dentro al collo, la sciarpa e il grembiule fradici e una nota sul diario, per tutte le pallate di neve che ci scambiavamo nel cortile dell’Armando Diaz. Naturalmente, significava anche le urla della mamma e della zia e il classico “Questa volta se ti ammali vai in ospedale!” che ha accompagnato tutta la mia infanzia.

Faccio presente ai lettori più giovani che all’epoca indossavo un cappottone da deportato in Siberia non in qualità di precursore del look fantozziano, ma perché nell’austero clima di povertà del dopoguerra i cappotti e i vestiti passavano di padre in figlio, anche perché in famiglia qualche nonna o mamma brava con la macchina da cucire la si trovava sempre. La mia nonna materna era, infatti, perennemente in azione con la sua Singer a pedale e con il gessetto bianco per segnare le stoffe sopra le carte modello quadrettate di Burda. Credo che a forza di cucire gonne e vestiti per la mia mamma e la zia, avesse pedalato almeno quanto Coppi e Bartali messi insieme.
Il mio primo cappotto non riciclato (1959)
Da un vecchio cappotto con la martingala di mio padre n’era fuoriuscito il cappottino con la martingalina che accompagnò la mia infanzia accoppiandosi nei giorni di gran freddo con i resti di un collo di lince appartenuto a mia madre e che, in seguito, terminò, decisamente spelacchiato, la sua ventennale ed onorata carriera sul cappotto di mio fratello più piccolo. Dopo gli undici anni ebbi finalmente il primo cappotto tutto mio: una specie di loden con il collo di pelo sintetico che mi fece compagnia fino quasi al ginnasio. Quelli erano comunque anni in cui non si buttava via nulla e si riciclava tutto, dalle croste del formaggio per il minestrone,  alle branchie del pesce (le ganassette fritte, buonissime) fino alla cenere che serviva per il bucato e anche l'arte del rammendo dava il suo contributo all'economia domestica tanto che, per esempio, colli e polsini delle camicie venivano pazientemente rivoltati per raddoppiarne la durata. Anche per abbandonare un paio di scarpe occorreva che il calzolaio, all’ennesima richiesta di risuolatura, confessasse l'impotenza della scienza calzaturiera a procedere oltre ed emanasse la luttuosa sentenza scuotendo sconsolato il capo (il calzolaio, in genere, non parlava mai perché aveva sempre la bocca piena di chiodini.). Infatti, io devo aver portato lo stesso paio di scarponcini con la suola Vibram per alcuni anni e almeno fino a quando il piede non ne volle più sapere di entrare, nemmeno con il calzascarpe e il borotalco.

Se invece si decideva per il “resti a casa, ma non illuderti che tanto questo pomeriggio i compiti li fai lo stesso” allora potevo stare a leggere qualche fumetto seduto vicino alla grande stufa a legna e carbone in ghisa e maiolica che troneggiava al centro della cucina e che riscaldava tutta la casa, fornendo anche la brace per il ferro da stiro e dove, aprendo un apposito sportellino, si potevano anche abbrustolire le patate americane e il pane raffermo. Noi la legna e il carbone li tenevamo sulla grande terrazza coperta della casa, con una vista spettacolosa su mezza Venezia e ricordo ancora la nonna (quella materna, che veniva dalle campagne del Monferrato, l’altra era una principessa altezzosa che al solo pensiero sarebbe inorridita) che in pieno inverno tagliava in due i ciocchi di legna con l’accetta (a me era proibito anche di avvicinarmi al ceppo e al massimo potevo aiutare a portare il secchio del carbone per rifornire la stufa).

Il fotografo di Piazza San Marco e la neve (1970)

Tra i ricordi di quegli inverni freddissimi, mi viene in mente che a metà degli anni ’50  l’appalto per spalare la neve era stato dato dal Comune ad un certo Belanda, un tale che aveva un'impresa di pulizie e che era un trafficone molto chiacchierato. Questi sperava di poter lucrare sulla quota fissa riconosciutagli comunque dal Comune intascandosela per mancanza di precipitazioni. Invece quel gennaio nevicò per giorni e giorni e ricordo benissimo mentre andavo a scuola attraversando campo Santa Maria Formosa le squadre di spalatori che cantavano in coro sotto la neve “Belanda, Belanda, questa è Dio che te la manda… te la manda grossa e fina, perché vuol la tua rovina”.

Anni più tardi, ai tempi del liceo, la neve era vista invece con particolare interesse perché c’era sempre la possibilità che qualche professore scivolasse sui gradini con il bordo in marmo del ponte di Campo dei Gesuiti, che portava al Marco Foscarini e che era sempre ghiacciato per via del vento della laguna che giungeva dalle Fondamente Nuove. In seconda liceo, la terribile Gigia, la professoressa di matematica, forse spinta dalle preghiere di decine di allievi, scivolò proprio su quel “maledetto ultimo ponte” e rimase a casa per due settimane facendo saltare diversi compiti. Poi la Gigia una volta risanata recuperò con gli interessi e le sue decimazioni tramite interrogazione o compitino a sorpresa fecero stragi, ma fu comunque un bel ricordo.

Mi fermo qui, perché ora mi pare di sentire il profumo della neve… che sia la volta buona?