sabato 17 marzo 2012

Dell'antica arte veneziana di navigare in laguna e di procurarsi le barche


Come avevo promesso o minacciato, dipende dai punti di vista, con questo primo post  inizierò a descrivere il complesso rapporto che lega un veneziano “di laguna” (precisazione indispensabile, visto che per noi veneziani venuti al mondo ad "un ponte e una calle" da San Marco già dall'altra parte del Ponte della libertà inizia la campagna, con buona pace dei mestrini e di mia moglie) alla sua barca. Che non è come avere l’automobile per portare i figli a scuola, andare in ufficio o a fare le spese del sabato. La barca per noi è praticamente un’amante esigente alla quale dedichi cure, attenzioni, soldi (molti) e tutto il tempo libero che riesci a strappare alle tue giornate e ai tuoi altri amori (che di solito non la prendono bene), magari anche solo per stendere delicatamente la seconda mano di “Lustrofin” sul fasciame della prora, per ripulirne la chiglia dalle incrostazioni o per lucidarne le cromature con il Sidol (che se solo mia madre avesse sospettato l'impegno che ci mettevo mi avrebbe fatto lucidare subito tutta l'argenteria di casa). L'amore cieco ed assoluto che nutrivo per il mio barchino ha significato accettare per anni che in aggiunta al fitto mensile di 40.000 lire per il rimessaggio della barca ci fosse anche il puntuale pagamento di un pizzo "primaverile" di 135.000 lire. 

Il canale di San Piero di Castello, dove all'estrema destra si vede
 ancora la saracinesca del cantiere dove tenevo la barca.
Ah... il campanile è pendente di suo, non è difettosa la foto...
Questo avveniva perché ogni volta che mi recavo al cantiere di San Piero di Castello dove la tenevo per la prima uscita in mare quel bandito chioggiotto del capo cantiere si presentava da me sostenendo che provando in vasca il mio motore Johnson prima di riconsegnarmelo si era accorto che per il gelo invernale si era rotta la piccola elica in plastica del raffreddamento ad acqua e dunque me l’aveva cambiata d’ufficio. Per convalidare la tesi mi mostrava ogni volta il pezzo sostituito, affinché vedessi quanto fosse rotto, però era sempre quello, tanto che negli anni avevo imparato perfino a riconoscerlo. A chi si chiedesse come mai non cambiassi cantiere, ricorderò che a Venezia trovarne uno che accetti barche piccole e poco remunerative è impresa epica e lasciare incustodito e semplicemente legato ad una palina un barchino con un motore fuoribordo che chiunque può sganciare o mettere in moto è come lasciare una BMW aperta e con le chiavi nel cruscotto in qualsiasi periferia urbana. Occorre essere molto ottimisti per sperare di rivederla. In cambio la tua barca, permettendoti di girovagare per miglia tra le barene e le valli da pesca della laguna, da Punta Sabbioni sino a Chioggia, ti regalerà la libertà, le emozioni e le scoperte (anche le paure di trovarsi di colpo avvolto nella nebbia senza sapere più dove stai andando o di vedere il mare diventare di colpo grigio e le onde incresparsi per il vento del temporale che sta arrivando) che nessun veicolo a quattro ruote ti potrà mai dare. Forse solo la moto, per la passione che sa suscitare e le emozioni che ti può offrire, può esserle paragonabile. 


Questa è una topetta con un 20 hp. Si distingue dalla Sanpierota
perché è leggermente più grande e ha la prora alta e arrotondata.
Notare che chi la guida si è portato la sedia da casa.

D’altronde, quanto la barca sia radicata nella nostra cultura lo dice il  fatto che in realtà ne abbiamo creati e utilizziamo anche oggi quasi un centinaio di modelli diversi, di ogni dimensione e per qualsiasi uso (e prezzo). Dalle pesanti Peate, i Burci e le Caorline panciute per gli spostamenti tra le isole della laguna fino alle Tope e alle agili Topette per trasportare le merci tra i canali, passando per tutta la numerosa stirpe che deriva dalle gondole (Sandoli, Sandolini, Pupparini, Vipere, Mascarette…) per finire con le tipiche imbarcazioni a chiglia piatta dedicate alla pesca e alla caccia in laguna come le bellissime Sampierote dei pescatori, che potevi anche usare con la vela al terzo. Poi ci sono anche gli Sciopòni dalla carena larga (perché si tirava con lo schioppo alle anatre e non doveva ribaltarsi per il rinculo) i Cofani e, per l’appunto, i Caccia e pesca. Insomma, la dottrina vigente nella Serenissima Repubblica recita ancora oggi: a ciascuno la sua barca secondo i suoi bisogni (e il suo portafoglio). 

Topette e barchini corrono veloci lungo le Fondamente Nuove

La barca dei miei sogni l’ho incontrata all’inizio dell’estate all’Hotel Des Bains passeggiando solitario lungo la battigia, proprio come Gustav Von Aschenbach che incontra Tadzio e non riesce più a toglierselo di mente. Era lì sulla sabbia, tirata in secca dai bagnini e abbandonata a chiglia in su. E non si vedevano segni che ne facessero intuire un utilizzo da parte di un qualche ignoto padrone. Anzi, doveva essere lì da diverso tempo, forse anche dall’estate prima, tanto che ormai aveva assunto l’aria inconfondibile del relitto trascinato dalle onde sulla battigia a seguito di un qualche tragico naufragio del tipo:  "...e la barca tornò sola!"
Il sole estivo e la salsedine ne avevano già stinto i colori e la plastica dello scafo da bianca e rossa che doveva essere in origine, appariva ormai di un tenue colore crema-albicocca. Anche le cromature del bordo apparivano intaccate dalla ruggine e saltate in qualche punto.

La scialuppa, che di questo si trattava visto che di lunghezza era poco oltre i tre metri e mezzo, veniva unicamente usata dai bambini per fare tuffi sulla sabbia o giocare alla guerra, oppure dai più grandicelli come porta da calcio. Questi usi impropri le avevano lasciato anche un segno indelebile, rappresentato da una fenditura lunga una spanna che correva nella parte centrale della chiglia. 
Io mi recavo ad osservarla quasi tutti i giorni con crescente interesse, in primo luogo perché giaceva non molto lontano dalla nostra capanna e in secondo luogo perché in quell'estate mi trovavo in uno dei periodici momenti tipo: “non t’impegni seriamente nel nostro rapporto, dunque è meglio che ci lasciamo” che hanno segnato la mia quadriennale e travagliata storia d’amore con Donatella negli anni dell’università. Ovviamente, quando una storia d’amore s’interrompe ci sono anche dei danni collaterali da considerare e, appunto, chiudendolo con lei il rapporto si era chiuso anche quello con la barca a vela di suo padre, ma questo per fortuna era solo in teoria.

E' giunta l'ora di rientrare in cantiere e il faro di Murano ci farà da guida
anche perché le Fondamente Nuove le hai davanti e come fai a non vederle?

Infatti, disponendo, tra moglie e figlie, di una ciurma tutta al femminile e decisamente da salotto, ma essendo  molto pragmatico come tutti i medici, quel brav’uomo anche dopo la rottura con sua figlia continuava ad invitarmi per qualche uscita in mare (di nascosto da Donatella) perché non gli era sembrato vero di avere finalmente un marinaio di bordo capace di eseguire le manovre in un tempo accettabile e senza dover ricorrere agli urlacci e di certo non aveva intenzione di perderselo per le mattane della figlia. 

Tanto più che io sapevo anche cucinare il pesce ed eccellenti pastasciutte, mentre in tutto il settore femminile della sua famiglia nessuna andava oltre al petto di pollo ai ferri e comunque, a parte Donatella che sapeva tenere decentemente il timone, anche se ad ogni suo bordo repentino e senza preavviso il rischio di prendersi il boma in testa era elevato, l’atteggiamento medio dell’equipaggio era : “Voi fate pure le vostre manovre da uomini di mare che io mi metto in costume a prendere il sole a prora”. Dunque, la mia presenza a bordo era strategica. Però, ora la faccenda funzionava solo per qualche uscita sino alla boa del miglio fuori da San Nicolò tanto per tirar su lo spinnaker e fare qualche bordo di quelli tosti con l’Alpa 9,50 inclinata ai limiti e il mare quasi nel pozzetto di poppa. Perché la barca del padre di Donatella, con molto senso veneziano dell'understatement era stata chiamata "Co' rivo, rivo..." (quando arrivo, arrivo...) però quando c'era del buon vento da stringere filava che era una meraviglia.


Un' Alpa 9,50 come quella del padre di Donatella (la foto non è mia)

Invece, mi erano purtroppo precluse le favolose traversate notturne verso l’Istria vissute in precedenza. Quelle che dopo una notte passata al timone a fumare e chiacchierare sul senso della vita sorseggiando whisky bevuto a collo per scacciare l’umidità, rivolgendo lo sguardo alle sciabolate di luce dei fari sulla costa e cercando di capire se le luci che punteggiavano l’orizzonte erano ancora quelle di Lignano o se eravamo già al largo di Grado e Monfalcone (le luci di Trieste che andavano su fino alla collina erano inconfondibili) cominciavi a buttarti acqua di mare gelida in faccia per tenerti sveglio e non perdere lo spettacolo dell’alba perché almeno una volta nella vita occorre vedere il disco del sole sorgere lentamente in mezzo al mare dapprima come una piccolo punto rosso che poi in un crescendo tra bagliori rosa e arancioni, dissolverà gradualmente le tenebre. Ah.. naturalmente occorre guardare verso est, non verso ovest come avevo fatto io la prima volta, iniziando così a intaccare la mia reputazione marinaresca.


Vedere la costa dell'Istria alle prime luci dell'alba dopo una notte in mare
è un'emozione indescrivibile.

Alla mattina si gettava l’ancora nella baia di Rovigno o di Novigrad per farsi passare il sonno con un bel tuffo nell'acqua gelida, poi, dopo aver fatto scorta di acqua e di provviste e ripreso il largo in direzione di Mali Losinj (Lussinpiccolo) e le Incoronate si incontrava all'imbrunire qualche isolotto accogliente come Dugi Otok (l'isola lunga), Susak (Sansego) e Ilovik (l'asinello) dove potevi attraccare a qualche pontile e scendere a terra per accendere il barbecue o un falò e cucinare alla brace il pesce che ti vendevano a cassette i pescatori sottobordo e bere malvasia e quella Travarica d’erbe distillata in casa dai contadini che andava giù per la strozza come piombo fuso e dopo un bicchierino già ti sentivi brillo, ma avresti digerito anche il calcestruzzo. Il tutto facendo amicizia con l’equipaggio di qualche altra barca all'ormeggio (di solito tedeschi, ma tanto tra la gente di mare ci si capisce sempre) con il quale poi si finiva a suonare la chitarra (la mia) e a cantare le gesta della “mula de Parenzo” che aveva messo su bottega e di tutto la vendeva "fora che el baccalà", finendo a far bisboccia sino a notte fonda. Non lo potevo più fare perché in tal caso avrei trovato a bordo anche il resto della ciurma e per me e Donatella sarebbe stata dura ignorarsi condividendo gli spazi angusti di una barca a vela di soli nove metri. Tanto più che a me e a lei di norma era destinata per dormire la tughetta a prora dove si tenevano i sacchi delle vele, che già era dura dividerla da innamorati, figuriamoci dopo.


Lo squero del Rio dei mendicanti, uno degli ultimi dove si costruiscono le barche

Per tutti questi motivi, avevo rispolverato il sogno mai sopito di possedere una barchetta tutta mia per esplorare la laguna e le sue valli e magari anche per “rimorchiare” (così quella impara che non c’è mica solo lei al mondo…) e quella barca abbandonata sulla sabbia era proprio lì a dirmi che con un po’ di buona fortuna avrei potuto compiere l’affare della vita, acquistare la mia prima imbarcazione e realizzare le mie segrete ambizioni di navigatore. Si trattava solo di scoprire chi ne fosse il proprietario per vedere quanto avrebbe chiesto per liberarlo da quel rottame, che magari me lo avrebbe regalato pure. Purtroppo, pur avendo studiato letteratura inglese e conoscendo "La ballata del vecchio marinaio" di Coleridge ignoravo che per ottenere una maledizione sulle barche non è necessario uccidere un albatros , è sufficiente anche un granchio porro, il cui spirito evidentemente aleggiava su quel povero scafo abbandonato sulla spiaggia del Des Bains, ma cosa accadde, ve lo racconto la prossima volt...
(continua...)

sabato 10 marzo 2012

Eppure il vento soffia ancora...

Chi se ne importa se non è ancora arrivato il 21 marzo? Ormai è nell’aria. La sento e la vedo ovunque, nel vento teso di questa mattina che sollevava la polvere e le foglie secche e increspava l’acqua dei fossi luccicanti sotto il sole, ma anche lungo gli sterrati che percorro con il bretone e nei tanti minuscoli fiorellini celesti che punteggiano i prati attorno alla boscaglia del forte Gazzera, che da antro cupo come nei mesi scorsi ora sta riprendendo dei bei toni di verde. Nel mio giardino, invece, ha iniziato qualche giorno fa la solita famigliola di crocchi ad aprirsi la strada tra le foglie secche lungo il vialetto del cancello, subito seguita dagli steli dei narcisi e ora stanno fiorendo anche le primule, mentre l’albicocco è già pieno di germogli e speriamo che questo sia l’anno del riscatto visto che, dopo tante marmellate fatte in casa, la scorsa estate ci ha prodotto ben cinque frutti, uno dei quali ammaccato dalla grandine. 

I primi crocchi spuntano...

Invece, la vite che circonda la casa dopo la potatura di fine febbraio ha iniziato a “piangere” copiosamente la sua linfa zuccherina e questo temo farà comparire presto le formiche, per la solita guerra senza speranza dei cow boy asserragliati dietro la schiuma di Baygon messa in cerchio come una carovana per respingere l’attacco dei pellirosse, che mentre tu li aspetti armato di spray al pianterreno, entreranno silenziosi dalla terrazza del piano di sopra. In ogni caso, per la gioia del cane, ci sono già tante lucertole e qualcuna è entrata come al solito a perlustrare la cucina. L’orbettino, invece, è stato cortesemente invitato con sapienti colpetti di scopa a ritornare in letargo nel suo nascondiglio sotto le ortensie. Tutto questo mentre merli, tortore e i tanti passeracei che hanno eletto a loro domicilio la magnolia davanti alle finestre della nostra camera da letto mi costringono a spalancare gli occhi di buon mattino (che l’elfa non la svegliano neppure i temporali, figuriamoci un cinguettio) con i loro richiami d’amore, unendosi ai latrati di Kira, la Labrador dei nostri vicini che è in calore e sin dall’alba ci tiene a farlo sapere a tutti i cani del vicinato e ai loro padroni. Insomma, come avete certamente capito, sto parlando dell’imminente primavera, che, uscendo dal lirismo poetico (!?) di queste righe, già avverto anche dal fatto che mi tocca andar per campi con il collirio antistaminico e i fazzoletti a portata di mano. Perché, dopo un’estate, un autunno e un inverno vissuti da proprietario di un sedicente cane da caccia tra il solleone, i temporali, il fango, le nebbie e la neve, ora finalmente scoprirò per la prima volta che accade ad uno che soffre di rinite allergica da polline quando viene costretto a lunghe scarpinate primaverili in mezzo alla campagna in fiore. Qui sotto posto un breve filmato di celebrazione della primavera che ho appena realizzato con alcune delle mie foto e tanto per provare un nuovo programma di editing. Spero che vi piaccia.



Comunque, ora che, stregato da un’elfa, mi sono ritirato come un novello Cincinnato nel mio eremo agreste, non posso che ricordare con malinconia quanto fossero uniche le primavere veneziane. Perché per un giovane veneziano, a cominciare da Vivaldi che l’ha pure celebrata in musica, la nostra primavera rappresentava un vero rito magico. All’apparire del primo sole tiepido di marzo la laguna cambiava colore, l’acqua dei canali tornava di un bel verde chiaro dopo il grigiore nebbioso dell’inverno, i caffè sulla Riva degli Schiavoni e in Campo Santo Stefano rimettevano fuori i tavolini e tornavano a riempirsi di signore che sferruzzavano a maglia e spettegolavano mentre tenevano d’occhio i figli che giocavano a “tacco” con le figurine. Per inciso, io al gioco del tacco, che era una sorta di bowling dove al posto della boccia c’era un tacco di scarpa da uomo e al posto dei birilli un mazzo di figurine dei calciatori, ero bravissimo e avevo un tacco professionale borchiato con le puntine da disegno dorate per farlo scivolare meglio sui masegni del selciato. Grazie a lui e alla mia abilità balistica mi sono completato gratis due intere annate dell’album calciatori Panini. Invece ero una vera schiappa al gioco delle biglie, che riuscivo a perdere in quantità industriale, ma questo è un altro discorso.

Ai primi di marzo anche il bar da Nico sulle Zattere ricominciava a servire il gelato al gianduiotto e la panna in ghiaccio racchiusa tra le cialde di wafer alle belle studentesse del Marco Polo che facevano “manca” a scuola assieme ai liceali del Foscarini (ehm… honni soit qui mal y pense) prima di andarsi a baciare in Punta della Salute promettendosi eterno amore almeno sino all'estate. I gabbiani iniziavano a rincorrersi con grida feroci lungo il canale della Giudecca scintillante al sole per contendersi qualche buon boccone nella scia delle navi che andavano ad ormeggiare in Marittima e alla sera le gondole illuminate con le lanternine riprendevano a percorrere il Canal Grande piene di giapponesi entusiasti per il tenoretto alla Claudio Villa che cantava "O sole mio" e il fisarmonicista impazzito che svisava sulle note di "Funicolì funiculà". Poi su tutto calava il silenzio delle notti veneziane, rotto qui e là dai miagolii dei combattimenti tra i gatti randagi. Nei bacari il Torbolino esangue lasciava il posto al nerissimo Clinto che profumava di fragola, si serviva nelle ciotoline di terracotta (di nascosto perché era vietato, anche se lo bevevano pure i vigili) e macchiava indelebilmente di rosso scuro camicie e cravatte. 

...che in primavera da noi ci si bacia tra la gente (1971)

Tra gli altri riti primaverili veneziani, oltre alle prime corse al Lido con le biciclette sino agli Alberoni o a San Nicolò dove c'era la spiaggia libera e si poteva finalmente fare la prova di coraggio del tuffo in mare davanti alle ragazze (poi occorreva stringere i denti per non far vedere loro quanto si stesse morendo di freddo) c'era anche la prova di abilità della pesca notturna delle seppie dalla riva dell'Arsenale, con la fiocina e la lampada per attirarle (per avvicinarsi, si avvicinavano ma non ne ho mai presa una, però ho perso almeno due fiocine). Ma, soprattutto, dai primi di marzo accadeva che dalle medie sino al liceo le madri mettevano finalmente in naftalina i cappotti e nei campielli i loro figli ricominciavano la sagra delle partite di calcio del doposcuola. Perché Venezia, non avendo il pericolo delle macchine e presentando zone di assoluta tranquillità fuori dai percorsi del turismo di massa si presta benissimo ad essere un unico grande comprensorio calcistico giovanile.

Era alta di mezzo metro sopra la traversa...  (1970)

L’unico problema per il calcio all'uscita da scuola, dopo la colletta per l'acquisto del pallone in plastica, il mitico "Tele Santana" bianco con gli esagoni neri che ha svezzato generazioni di campioncini, era che, se non trovavi qualche oste o negoziante cortese che ti regalava dei cartoni, delle lattine o dei barattoli vuoti, scarseggiavano gli oggetti da mettere per terra per far da palo, ma dopo le prime corse a perdifiato, i maglioni servivano egregiamente. Era assai sconsigliato usare come pali gli zainetti perché in caso di fuga precipitosa per l’arrivo dei vigili, c’era sempre il rischio che venissero sequestrati e all’interno c’erano ovviamente il diario e i quaderni con nome e cognome del fuggitivo. Io, una volta, giocando nel campo di San Francesco della vigna, grazie alla retata di un nugolo di vigili chiamati dalle suore del vicino convento persi un bellissimo pullover inglese di lambswool e non potendolo recuperare dai vigili per non dover pagare la multa salatissima e affrontare le ire di mia madre dovetti inventarmi  la storia fantasiosa che lo tenevo appoggiato sulle spalle e salendo in vaporetto - ma tu guarda la sfortuna - era caduto in acqua. Nell’occasione andò peggio ad un mio compagno di classe che si vide sequestrare il vocabolario di greco, il costosissimo Rocci, che era stato messo a fare l’altro palo della porta. 

In età più adulta, per ogni veneziano degno di questo nome, l’arrivo della primavera significava soprattutto la messa in acqua della barca, che per noi era come avere finalmente l'automobile a disposizione. Io, a partire dall’età di 19 anni ero tra i tanti veneziani felici possessori di un barchino (da rapina, come lo definiva la mia ragazza dell’epoca)  acquistato con un vero raggiro d’incapace da una benestante signorina veneziana che non sapeva che farsene e lo aveva abbandonato in spiaggia, anche perché si era fessurato in chiglia (un po’ di resina e colla al silicone ed era tornato come nuovo). Lo avevo equipaggiato con un motore fuoribordo da 15 hp e così, quando ero solo e seduto a poppa, planavo e schizzavo sulle onde della laguna e tra le bricole come un ciottolo impazzito.

Il canale di San Piero di Castello, dove tenevo il mio barchino a motore

Per me, oltre ad un mondo nuovo che si apriva da esplorare (quello delle barene e degli isolotti della laguna interna, da Chioggia sino a Punta Sabbioni) l'avere il barchino significava in aggiunta al fitto mensile anche il puntuale pagamento di un pizzo "primaverile" di 135.000 lire perché ogni volta che mi recavo al cantiere di San Piero di Castello dove la tenevo (a caro prezzo, che mi sarebbe costato di meno un miniappartamento) per la prima uscita in mare quel bandito chioggiotto del capo cantiere si presentava da me sostenendo che provando in vasca il mio Johnson si era accorto che per il gelo invernale si era rotta la piccola elica in plastica del raffreddamento ad acqua e dunque me l’aveva cambiata d’ufficio. Per convalidare la tesi mi mostrava ogni volta il pezzo che mi aveva cambiato, affinché vedessi quanto fosse rotto, però era sempre quello, tanto che negli anni avevo imparato perfino a riconoscerlo. A chi si chiedesse come mai non cambiavo cantiere, ricorderò che a Venezia lasciare incustodito e semplicemente legato ad una palina un barchino con un motore fuoribordo che chiunque può sganciare o mettere in moto è come lasciare una BMW aperta e con le chiavi nel cruscotto in qualsiasi periferia urbana. Occorre essere molto ottimisti per sperare di rivederla. Ma, essendo un tema che immagino sconosciuto ai più, di come un giovane veneziano viva la sua barca e delle mie vicende nautiche in particolare ne parleremo nei prossimi post. Intanto iniziamo a goderci la primavera…

domenica 4 marzo 2012

Balle spaziali

Come forse avrete visto e letto, sul Corriere della sera di ieri c'era un ponderoso articolo a corredo di questa immagine che sarebbe stata scattata con il telefonino da un turista di nome Hector Siliezar nel lontano 2009 durante una gita alla piramide Maya di Chichen Itza e che rivelerebbe questo fascio di luce rosata, non visibile ad occhio nudo, che parte proprio dalla cima della piramide e che secondo tutti i profeti di sventura che all'alba del 22 dicembre 2012 dovranno chiedere asilo politico su Marte per sfuggire al pubblico ludibrio, altro non sarebbe che l'indicazione della via di salvezza offerta generosamente all'umanità dal simpatico popolo estinto. 

L'inquietante foto con il fascio di luce rosa sulla piramide Maya

Ora, a parte che il nobile popolo Maya, invece di perdere tempo a giocare con la numerologia pitagorica e il calendario gregoriano (tutta roba a loro sconosciuta, ma vaglielo a spiegare ai menagrami) per predire la fine dell'umanità forse avrebbe fatto meglio a prevedere la propria e, a parte che se si fotografa con quei fondi di bottiglia delle ottiche dei telefonini, questi sono i risultati (per non parlare della "roba " che circola in Messico perfino nell'aria che respiri e che può aver avuto la sua parte) occorre dire che questo signor Siliezar dev'essere piuttosto imbranato con Photoshop e i programmi di fotoritocco se ha impiegato 3 anni per fare quello che io ho fatto in 3 minuti scarsi. Ma chi glielo dice ora al Corriere?

E ora, cari Maya, come la mettiamo?

sabato 3 marzo 2012

Panta rei

La skyppata di mio figlio (dal verbo skyppare, ovvero: chiamare con skype e da non confondere con skip ovvero: saltare qualcosa ritenuta assolutamente inutile come le mie raccomandazioni) arriva inattesa poco prima di cena mentre sto ascoltando su You Tube un fragoroso pezzo degli Iron Maiden per la gioia del vicinato. Accetto la chiamata e dall’altra parte mi giunge una voce eccitata dalla felicità: “Papà! Ho appena guardato sul mio conto corrente: mi hanno versato il primo stipendio, anzi lo “stupendio”… sono 700 “beuri” tutti per me… che figata! Non ho mai avuto tanti soldi in vita mia…” 
Naturalmente, colto di sorpresa non mi ricordo di commutare l’audio sulle cuffie e così la frase di mio figlio si spande “a palla” per tutta la casa attraverso le sei casse acustiche e pure con il riverbero e i bassi sparati dal subwoofer in modalità loudness. Pertanto non faccio a tempo a felicitarmi con l’erede per il primo stipendio della sua vita che mi giunge dalla cucina al pianterreno la voce severa dell’elfa che ha sentito tutto. “Digli bravo anche da parte mia, ma ricorda al giovanotto che domani gli prelevo 450 euro per il bonifico dell’affitto alla sua padrona di casa, quindi che non faccia troppi sogni di gloria che con i 250 che gli restano deve mantenersi fino al 31 marzo…” 
Giacché l’erede è un mezzo elfo anche lui, ha orecchie buone a sua volta e sente attraverso il microfono a 300 chilometri di distanza, mi giunge immediatamente la sua voce ansiosa.“Che ha detto la momma? (crasi da mamma e mom ). E’ contenta vero?” 
Riferisco diligentemente la faccenda dei 250 euro da farsi bastare per tutto il mese, dunque, casomai fosse stato nei suoi progetti, niente shopping a Milano. 
Attimo di pausa, poi mi giunge una voce delusa: “Papà, ma tua moglie è proprio Joykilla… mi ha demoralizzato con un colpo solo”. 
Joykilla è una parola in slang che significa più o meno: sterminatrice di gioia altrui e quando mio figlio l’applica a sua madre si riferisce, non a caso, al nome di una potentissima arciera elfa livello 85 e con l’arco epico che nel gioco on line di World of Warcraft si dilettava a killare gli spensierati giocatori di livello basso, solo per il piacere sadico di far loro capire che aria tirasse nel gioco. Quando poi, in aggiunta, mio figlio definisce sua madre come “Tua moglie” vuol dire che è veramente amareggiato. Infatti, provo a consolarlo. 
Vabbè, dai… lo sai com’è la mamma… se non riporta bruscamente a terra almeno una volta al giorno noi che, secondo lei, facciamo sempre voli pindarici non autorizzati, pensa di non aver fatto il suo dovere di moglie e di madre. Comunque, ti farà piacere sapere che in questi giorni l'elfa ti ha messo le tende nuove e ha fatto stuccare e ridipingere le imposte di camera tua, così finalmente non avrai più da fare ironie sul tuo museo all’aperto del magnifico mondo della vernice scrostata e del legno marcito”. 
Altro attimo di pausa. 
“Davvero? Bravissima… ringraziala. Però adesso mi devi spiegare perché la puffetta (è sempre sua madre, ma quando lui prova amore filiale per lei) dopo anni che glielo chiedevo mi ha finalmente cambiato i mobili proprio quando sono andato in Lituania per l’Erasmus e ora che sono a Casorate mi cambia le imposte delle finestre sapendo benissimo che appena torno me ne vado per due anni a fare la specialistica a Vienna. Perché mi fa bella la stanza proprio ora che ci dormirò sempre di meno?” 
Già.... bella domanda. Dovrei scomodare qualche psicologo sul significato simbolico della cosa. Comunque, visto che torni giù per Pasqua almeno per tre giorni ti godrai la tua stanza rinnovata…” 
Voce imbarazzata dall’altra parte.
 “Ah… no! Scusa papà, ma non te l’ho detto. Katerina ed io abbiamo deciso che a Pasqua lei ritorna qui a Casorate, così la porto a visitare Vigevano, Pavia, la Certosa…” 
“Ehi! Come sarebbe che non vieni più giù a Pasqua? Io e la mamma ci contavamo di vederti e poi i nonni ci rimarranno malissimo… “ 
“Beh… lo sai com’è… Natale con i tuoi e Pasqua con chi vuoi, giusto?” 
Sì, ma tu il Natale lo hai già fatto a Brno con Katerina, quindi il detto non vale…” 
Scusa papà, ma quando avevi vent’anni e stavi con Donatella, quanti natali hai trascorso in famiglia?” (gli elfi giovani hanno sempre il contropiede velenoso) 
Oddio… così su due piedi non ricordo… ma qualcuno di certo” 
Risatina di quello che sa di aver colpito duro. “Sei proprio sicuro, sicuro?” 
Non lo so… ma comunque fosse erano altri tempi e la cosa non ti riguarda. Ad ogni modo, non è che potresti chiedere a Katerina di spostar….?” 
Sorry papà… la cosa non è negoziabile.” 

Il guaio dei figli è che crescono troppo alla svelta

Ecco… quel “Sorry papà” così perentorio, da adulto ad adulto, mi ha confermato una volta di più che quello che mi piace immaginare ancora come il nostro adorabile ragazzino è in realtà da tempo un uomo fatto e finito, con una sua vita autonoma, affettiva e ora anche economica e che il mio compito primario, che lo voglia o no, è terminato da un pezzo, anche se questi anni sono volati maledettamente alla svelta.

Insomma, fermo restando l’affetto reciproco e smisurato che ci unisce, a quanto pare mi dovrò cercare alla svelta un altro ruolo in commedia perché il giovanotto ormai questo richiede. Magari potrebbe essere quello del “Padre nobile” e autorevole che consiglia, incoraggia, suggerisce soluzioni... (temo puntualmente inascoltate). Ci devo pensare. E' una parte che non conosco ancora bene, ma mi ci dovrò abituare perché nella vita di un genitore... panta rei