giovedì 31 maggio 2018

Noi, che negli anni '70 sentivamo un tintinnare di sciabole.


La bussola non è quella originale, che è crollata al piano di sotto assieme a camera mia e a tutte le cose che conteneva durante il drammatico incendio della nostra casa in Campo della Guerra. Questa nella foto l’ho ricomprata qualche anno dopo, ma è identica all'altra perché l’ho presa a Verona nello stesso negozio di articoli militari che mi aveva venduto la prima. Tutto il resto, invece, risale davvero ai primi anni ’70 ed è ormai soltanto un ricordo divertente di come eravamo. Perché avevo tutta questa roba? No, non serviva per le gite in montagna, anche se poi nella pratica quello fu davvero il suo utilizzo. Ora vi racconto tutto. Per chi si ricorda quegli anni, già nel luglio del 1964 (il caso Sifar) avevamo corso tutti il rischio di vivere una notte drammatica come quella che solo tre anni dopo avrebbe vissuto la Grecia. Ma anche nel 1970 si erano sentite nuovamente tintinnare le sciabole e c'era in giro una paura diffusa di un colpo di stato (poi rivelatosi fondata, quando si scoprì il tentato golpe Borghese) e di una risposta “cilena” all'avanzare elettorale dei partiti di sinistra con l’arresto e l’internamento dei militanti. Così, c'eravamo messi d' accordo con alcuni compagni (all’epoca militavo ancora nel Manifesto) che, in caso di allarme, ci si sarebbe avvisati per telefono l' uno con l' altro per metterci al sicuro e non farci prendere da polli in casa nostra (come se in caso di colpo di stato qualcuno si fosse potuto preoccupare di noi...). Inoltre, ipotizzando che il centro della resistenza operaia e degli scontri con i golpisti sarebbe stato inevitabilmente tra le fabbriche di Porto Marghera e che il ponte della Libertà con tutti i punti di accesso dalla terraferma a Venezia sarebbero stati bloccati, io ed altri quattro avevamo predisposto un piano di fuga in Jugoslavia che doveva realizzarsi la notte stessa raggiungendo con la mia piccola barca a motore, che poteva navigare nelle acque basse della laguna, il Lio Piccolo, la zona del Montiron e poi la terraferma a Caposile. Quindi, camminando di notte per i campi e rimanendo possibilmente nascosti di giorno avremmo raggiunto, inoltrandoci nel Friuli lungo il corso del Tagliamento, non il confine Jugoslavo, che immaginavamo presidiatissimo, ma, quello austriaco, che offriva anche maggiori opportunità di attraversamento.




Oggi, ripensandoci, quel piano (che ovviamente era molto più dettagliato) mi sembra una sorta di remake di Tre uomini in barca (cinque, nel nostro caso), ma all’epoca i miei amici ed io lo consideravamo molto ben congegnato e con una discreta probabilità di riuscita. Pertanto, dentro l' armadio di camera mia, stazionavano perennemente il sacco a pelo e uno zaino pieno di scatolame di sopravvivenza (che mia madre pietosamente e a mia insaputa aggiornava con le date di scadenza...) mappe militari del Veneto e della laguna, temperino svizzero multiuso, un binocolo, la bussola e la torcia elettrica con i filtri azzurri per le segnalazioni notturne. Una sera, per la verità, il temuto allarme scattò, perché mia madre verso le undici ricevette una telefonata concitata secondo la quale: “un compagno di Brescia che abita vicino alla caserma della divisione corazzata Tal dei tali, dice che ha sentito i carri armati mettere in moto i motori”. Ma, siccome ero andato al cinema e in pizzeria con Donatella, mia madre, poco impressionabile, se ne andò a dormire beatamente e me lo riferì due giorni dopo. Le dissi sdegnato che per causa della sua leggerezza, la lotta di classe veneziana (nella mia modesta persona) poteva subire un colpo tremendo. Lo sguardo scettico che ne seguì mi restituì il senso delle proporzioni. 

Ne parlai comunque qualche sera dopo a casa di Donatella, mentre cucinavo una spaghettata tonno e piselli per i suoi genitori che poi sarebbero andati al cinema. Infatti, tra me e suo padre, un bravo medico molto pragmatico, c’era una sorta di tacito gentlemen’s agreement secondo il quale, avendo lui purtroppo la disgrazia di avere una moglie e due figlie (la terza aveva tre anni dunque era esentata) assolutamente incapaci di cucinare qualsiasi cosa, io, in qualità di ragazzo della figlia più grande, oltre ad essere imbarcato d’ufficio come marinaio tuttofare sulla sua barca a vela, svolgevo anche mansioni di cuoco serale per la sua famiglia e in cambio lui faceva finta di credere che sarei uscito di casa poco dopo di loro. In pratica, anche lui vendeva la primogenitura per un piatto di lenticchie, anzi di spaghetti. Così Vittorio, tra una forchettata e l’altra, mi disse:” scusa, ma perché, per stare più tranquillo, non sei venuto a dormire qui da noi? Puoi metterti tranquillamente sul divano del salotto, non ci crei nessun problema e, comunque, se per caso avessi ancora bisogno di scappare, dalla finestra del salotto puoi scendere facilmente sul tetto vicino e da lì, stando attento a non scivolare e passando da una casa all'altra puoi calarti sulla terrazza dei De Nardus e poi scendere comodamente nel loro giardino, che a quel punto apri il cancello e sei nella calle che ti porta dritto in campo Sant’Angelo. Credo comunque che tu conosca bene il percorso, no?” 

Quest’ultima frase mi diede un brivido improvviso perché mi fu chiaro che era al corrente di quella volta, che doveva rimanere segretissima, in cui essendo rientrato all'improvviso per prendere delle bottiglie di vino ero fuggito precipitosamente per quella stessa finestra rimanendo per venti minuti in mutande sul tetto vicino, che dava proprio sul Canal Grande, venendo quindi immortalato dai flash dei turisti giapponesi in gondola che probabilmente dovevano avermi scambiato per un novello Casanova, visto che i ladri difficilmente si aggirano per i tetti seminudi. Cercai invano gli occhi di Donatella, per lanciarle uno sguardo del tipo “ Infame traditrice, tu saresti quella che sa mantenere i segreti?” ma era china sul piatto di pasta con le guance arrossate per l’imbarazzo. Per fortuna la discussione con suo padre non ebbe altro seguito. Ad ogni modo tornai a casa rinfrancato per quella disponibilità a darmi rifugio, tanto gentile, quanto inattesa.

Così, qualche settimana dopo, avendo ricevuto verso sera una telefonata di un compagno che diceva di aver visto attraccare al ponte della Veneta Marina, verso l’Arsenale un mezzo militare da cui era sceso un plotoncino di Lagunari del San Marco armati di tutto punto, anche se immaginavo che provenissero dal poligono di tiro delle Vignole, decisi di chiamare Donatella per dirle che prudenzialmente avrei preferito dormire da lei. Suonato il campanello e salite le scale, sulla porta di casa trovai Vittorio invece della figlia. Mi consegnò un piccolo mazzo di chiavi dicendo: “ho già avvisato il custode del Diporto velico a Sant’Elena che stanotte dormi nella nostra barca. Mia moglie ed io abbiamo pensato che così sarai molto più sicuro perché lì non ti cercherebbero di certo. Questa qui, se non vuoi suonare il campanello al custode, è la chiave per aprire il cancello del Diporto e questa è quella per aprire la tuga della barca e accedere alla cabina. Se ti ricordi come si accende il fornello domani ti puoi fare anche il caffè e se hai fame nell’armadietto ci dev’essere del tonno e qualche pacco di grissini. Casomai avessi freddo, sotto una delle brandine ci dev’essere una coperta. Domani mattina io sono di turno in ospedale, ma tu chiama Donatella o mia moglie e così ci dici se tutto è andato bene. Ora vai e in bocca al lupo…”. 

Rimasi malissimo, in realtà, perché i miei programmi per la serata erano del tutto diversi e lungo la strada verso Sant’Elena fui più volte tentato di invertire la rotta e tornare a casa, ma poi pensai alla figura che avrei fatto con suo padre e quindi andai a dormire in barca, anche se il lupo del custode del Diporto Velico non sembrava affatto contento della cosa. Accesa la luce interna la minuscola cabina mi apparve in tutto il suo disordine, confermandomi che in quella casa riordinare dopo l’ultima uscita in mare era un concetto sconosciuto. Così, già che c’ero, mi misi a lavare pentole e pentolini (per fortuna in barca si usavano piatti e posate di plastica) e mi venne persino il sospetto che Vittorio mi avesse spedito a bordo proprio contando su quello. Guardando nella cambusa, il caffè c’era, ma aveva preso un forte odore di muffa, i grissini erano fiappi e con le camole e del tonno promesso non c’era traccia a meno che non fosse stato confuso con una solitaria scatoletta di sardine sott’olio a cui però mancava la chiavetta per aprirla. Sopperii alla cosa prendendola selvaggiamente a coltellate fino ad aprirla, provocando però un serio allagamento di olio per tutta la cabina che immagino profumi di pesce ancora oggi. Però, siccome la fortuna alla fine gira, cercando l’altrettanto fantomatica coperta sotto le brandine e perfino nella contigua caletta delle vele, tra un sacco e l’altro saltò fuori una mezza bottiglia di Glenfiddich, sicuramente nascosta da Vittorio. Sul momento il mio innato senso di correttezza mi disse di metterla a posto, che non era roba mia, poi, la parte malvagia che alberga in me disse: “E no! Ca… spita. Qui si va sull’uno a uno e palla al centro, così impari…”. Dunque, nel corso della notte me la scolai tutta, anche in funzione di antiumidità, e dormii beatamente i sonni del rivoluzionario tranquillo.

Fortunatamente in quegli anni alla fine non successe nulla, ma mi viene da pensare cosa saremmo riusciti a fare se ci fossimo trovati nella necessità di mettere in atto i nostri piani di fuga. Probabilmente, pollastri come eravamo, ci avrebbero presi dopo 100 metri. Meglio non averlo sperimentato...