sabato 22 dicembre 2012

Delle profezie dei menagrami e delle 21 maledizioni bibliche che rivolgo loro


La fatidica ora delle 12 e 12 minuti del 21.12.2012 è passata nella vana attesa di qualcosa di più significativo del fatto che nell'ostello universitario di Vienna hanno fregato dal frigorifero di mio figlio i due wurstel che si era comperato per pranzo. A parte una scissione nel PDL, un farfugliamento di Bossi e le solite beghe sulle candidature nel PD non ho sentito di maremoti, meteoriti, eruzioni vulcaniche, cataclismi epocali e perfino gli alieni mi hanno deluso. Anzi, li ho attesi invano pensando che magari avessero problemi con il traffico natalizio o con la nostra nebbia che magari non è quella loro di azoto e idrocarburi. Alla fine ho pensato che magari non sapevano dell’ora legale e quindi che, appena accortisi del ritardo, avessero rinunciato perché se fossero giunti alle 13 e 12 avrebbero tolto ogni valore alla profezia, che se non rispetti l’ora, che profezia è? 

dal sito del Corriere; la fine del mondo vista dal web

Scherzi a parte, ora che anche la profezia dei Maya è finita nel cestino delle bufale metropolitane, vorrei ripagare di ugual moneta tutti i menagrami che, oltre a lucrare sulle anime semplici con libri e interviste, ci grattugiano periodicamente gli zebedei con le presunte profezie di popoli che avrebbero fatto meglio a prevedere la propria estinzione invece di quella dei posteri, gli allineamenti dei pianeti, le comete portasfiga, gli asteroidi invisibili e i buchi neri creati per sbaglio in laboratorio, per non dire delle classiche centurie di Nostradamus da rispolverare ad ogni capodanno assieme ad Astra e all'oroscopo di Branko.

La profezia di sventura nel frigo dell'ostello universitario di Vienna
a difesa del burro e dello jogurt dalle rapaci mani dei vicini di stanza

Così, proprio come il furto dei wurstel ha indotto il mio erede a formulare a sua volta una tremenda profezia di sventura su chi osasse fregargli anche il burro e lo jogurt, rivolgerò a tutti coloro che ci hanno afflitto per mesi con i Maya una serie di 21 maledizioni bibliche, tante quanto la data in cui sarebbe dovuto finire il mondo. Dunque, maledetti menagrami, sappiate che invocherò gli Dei affinché :

1. Possa il vostro vicino di pianerottolo vendere l’appartamento ad un centro massaggi cinese. 

2. Possano i clienti del centro massaggi cinese sbagliare regolarmente a citofonare a qualsiasi ora. 

3. Possano gli operatori di telefonia chiamarvi sempre appena siete seduti a tavola per proporvi le loro promozioni “tutto compreso e senza canone”. 

4. Possa il mobilificio friulano proporvi gli sconti sulle camerette da bambino appena avete riagganciato con l’operatore di telefonia e vi siete risieduti a tavola 

5. Possa essere il vostro capo che vi chiama per lavoro o vostra suocera che v’invita a cena quando alzate il telefono e gridate “ma vaffanculo, va!” pensando che sia ancora il mobilificio friulano. 

6. Possa vostro figlio o figlia appena maggiorenne firmare il contratto d’acquisto rateale di un’enciclopedia da 300 volumi pensando di farvi contento. 

7. Possa vostra moglie parcheggiare regolarmente in zona ZTL e sotto le telecamere. 

8. Possano i testimoni di Geova suonarvi il campanello ogni domenica mattina alle sei e mezza. 

9. Possano i vostri amici invitarvi a una cena a base di nduja calabrese ignorando che soffrite di emorroidi. 

10. Possa il vostro barattolo di olive denocciolate contenerne una ancora con il nocciolo e che possiate avere in bocca l’impianto nuovo pagato una cifra. 

11. Possa il decoder del vostro televisore guastarsi prima della partita e sovrapporre il canale di Tele Medjugorje a quello della telecronaca. 

12. Possa vostra suocera religiosissima farvi visita con il parroco per benedire la casa proprio mentre state esprimendo ad alta voce la vostra opinione su Tele Medjugorje. 

13. Possa la signora moldava che vi fa le pulizie passare lo straccio imbevuto di Lysoform sullo schermo del vostro I-Pad e poi spruzzarlo anche con il Vetril. 

14. Possa la signora moldava che vi fa le pulizie lasciare uno strato di Calinda in polvere sulla tavoletta del vostro water senza risciacquare. 

15. Possa la signora moldava che vi fa le pulizie buttare i vostri pantaloni in lavatrice senza verificare se avete dimenticato il Blackberry nella tasca posteriore. 

16. Possano i vostri suoceri invitarvi a cena ogni volta che c’è il posticipo di serie A o avete la partita di calcetto con gli amici. 

17. Possiate invitare a casa i vostri amici e colleghi ad una festa a sorpresa per il compleanno di vostra moglie e scoprire che è appena fuggita con il postino. 

18. Possiate scoprire che il postino prima di fuggire con vostra moglie vi ha recapitato una cartella esattoriale di Equitalia da oltre 10.000 euro. 

19. Possano i vostri figli inserire tra gli eventi su Facebook un invito a casa per una festa e una bevuta in allegria lasciandolo “pubblico” e non “solo per gli amici” 

20. Possa il vostro ristorante preferito e che raccomandate caldamente agli amici essere chiuso dai NAS per frode alimentare e gravi carenze igieniche. 

21. Possiate digitare Legnano anziché Lignano sul Tom Tom al momento di partire per le vacanze al mare e ascoltare durante tutto il viaggio in autostrada l'avviso: “invertire il senso di marcia...” oppure, qualora foste diretti in montagna, seguire le indicazioni del navigatore per Campitelli in Abruzzo anziché Campitello in Val di Fassa. 

venerdì 30 novembre 2012

Del doloroso antefatto alla commedia e del pollo al barolo a modo nostro


Nell'attesa di avere i filmati dei due spettacoli che abbiamo messo in scena a Mestre e ad Este (andati alla grande) per farvene la cronaca e mostrare qualche sequenza, mi trovo costretto a fare da badante al bretone che due settimane fa è stato azzannato da un grosso bull terrier in versione libero e bello (dice che gli è scappato, ma non ci credo) che gli ha spezzato la zampa posteriore destra facendolo finire due ore e mezza sotto i ferri. Tranquillizzandovi subito sul fatto che il chirurgo ha garantito che il giovanotto torna come nuovo, la cosa ha comportato anche l'avere un clone saltellante di Pietro Gambadilegno, che quando passeggia di notte sul parquet del corridoio con i suoi "toc... toc.." ci fa svegliare con il cuore in gola perché ci pare di avere qualcuno in casa. Inoltre, avendo la casa disposta su due piani, ora posso allenarmi nella disciplina olimpica di "trasporto in braccio su e giù per le scale di cane inerte, categoria 24 chili" e se non mi viene l'ernia, di sicuro avrò di nuovo degli addominali scolpiti da far invidia ad un cubista. Speriamo che l'elfa, che ultimamente è molto critica sul mio aspetto fisico, da lei definito "florido", lo apprezzi.

Comunque, il nostro aggressore oltre a sforacchiare il bretone in varie parti (gli hanno messo diversi punti di sutura) ha pensato bene di assaggiare anche la mano che gli aveva appena dato un pugno sul cranio per staccarlo dalla gola del suo cane, cioè la mia. Così, siccome le ferite da morso dei cani s'infettano facilmente, oltre al ciclo di antibiotici ho dovuto anche sottopormi ad una bella medicazione ambulatoriale con dolorosissime infiltrazioni di acqua ossigenata nella ferita (meno male che sono di una generazione che si è formata con i John Wayne operati sul tavolaccio stringendo solo del cuoio tra i denti, così non ho urlato per non dare soddisfazione alla dottoressa che me lo aveva preannunciato) e, soprattutto, sono stato costretto a recitare con un vistosissimo ditone medio color verde menta (sono dei nuovi cerotti elastici tipo velcro e quando ho chiesto se si poteva almeno avere un colore meno vistoso mi è stato detto che era disponibile in alternativa solo quello per bambini, rosa fucsia e con gli smiles. A malincuore ho dovuto tenere il ditone leghista). Naturalmente il ditone mi ha anche impedito di scrivere al computer, dato che ogni volta che premevo un tasto come minimo ne usciva un "QWERTY" o cose simili.

Il nostro giovane e creativo regista Rico "Silver" Silvestri, al suo debutto
sulle scene e immortalato fuori dal teatro di Este

Malgrado ciò desideravo scrivere appena possibile per non lasciare il blog inattivo da troppo tempo e ora che ho tolto la medicazione, finalmente posso farlo. Ho solo l'imbarazzo della scelta. Potrei raccontare, per esempio, che questa mattina l'elfa quando mi ha visto tornare tutto bardato con il piumone con il collo di pelo, la sciarpa e il berrettone di lana calato sulla fronte dalla passeggiata nel gelo con il pirata Gambadilegno mi ha chiesto subito come fosse andata la pesca delle aringhe, dato che le sembravo il comandante di un peschereccio delle isole Lofoten, tuttavia non lo farò (ehm...) perché poi lei si lamenta che la metto in cattiva luce sul blog e, comunque, io non sono permaloso (ehm...). 

Così, essendomi sostanzialmente rotto le scatole di tutti quelli che in questi giorni pedalano nella farina sui giornali e nelle televisioni per dimostrare all’inclito pubblico elettore (che ormai ci siamo quasi) che Tizio è migliore di Caio e ci condurrà ad un nuovo ballo Excelsior con il trionfo della Luce sull'oscurantismo e tanto di magnifiche sorti e progressive incluse, stacco un attimo e riprendo a raccontare la mia quotidianità (la buona vecchia fuga nel privato…) e magari a frugare nel cassettone delle mie cavolate giovanili, che lì è terreno fertile.


Eccomi in scena nei panni del padre di Donatella,
con il ditone verde che spicca vistosamente 
sul bianco del gatto Belzebù.

Dunque… avendo un figlio ventiseienne che, dopo gli esordi in Erasmus a Vilnius con un discutibile ragù al ketchup (si giustificò dicendo che non sapendo il lituano credeva di aver preso una passata di pomodoro) oggi sostiene di essere ormai un giovane Cracco e ci racconta con orgoglio di leggendari risotti alla ricotta e speck cotti nella birra scura, per non parlare del suo sushi da far invidia a Jiro Ono e di essere diventato il più rinomato e ricercato cuoco tra i suoi amici di Vienna e ora di Düsseldorf, (però quando torna a casa non mette nemmeno il pentolino del latte sul fuoco) mi sono inevitabilmente ricordato i miei disastrosi esordi in cucina, sempre in ambito studentesco, anche se padovano, che qui ripropongo anche a fine didattico e di monito agli apprendisti cuochi.


Gli esordi da cuoco di mio figlio all'Ostello dell'Università di Vilnius.
Raffinato ed elegante come le cene di Arcore...

All'epoca avevo preso alloggio in un miniappartamento a due passi dalla facoltà assieme a Roberto, un simpatico cialtrone figlio di un ufficiale di Marina (collega e amico di mio padre) e drammaticamente indietro negli esami come me. Non che ce ne fosse realmente bisogno dell'appartamento essendo Padova a 30 minuti di treno da Venezia, ma alle nostre rispettive madri sembrava un’eccellente idea per far in modo che i due pargoli studiassero tranquilli insieme, unendo le loro mediocrità per proseguire spediti nel percorso universitario. Per noi, invece, era la realizzazione di un sogno: iniziare il vorticoso giro di donne e di vita dissoluta che era nei nostri piani.

Dopo poche settimane, però, iniziarono i problemi di convivenza perché Roberto, che da figlio unico era viziatissimo (mentre io, avendo un fratello minore, ne ero sicuramente esente), non faceva letteralmente un tubo per tutto il giorno. Di solito, come il Giovin Signore del Monti, entrava in bagno verso le nove e ne usciva verso le undici, fragrante di dopobarba e sbucando da una nuvola di borotalco. Io, nel frattempo, avevo lavato i piatti, rifatto i letti, fatto la spesa e stavo cominciando a cucinare. Dopo essersi vestito, il milordino veniva a tavola e, allontanando con aria annoiata il suo piatto, diceva “...ma non sai fare altro che pastasciutte ? ”. Roba che se oggi mi permettessi di dirlo all'elfa mi troverei con quattro palmi di coltello da cucina nello sterno o inchiodato sulla porta da una sua freccia al carbonio senza neppure capire come. Così, a parte che avendo già superato i livelli basic del burro e formaggio, del gran ragù Star e del pomodoro e basilico vi posso garantire che i miei sughi non erano per niente male, capii che se non avessi interrotto subito la faccenda poteva succedere che: o alla lunga lo strangolavo, o mi sarebbe venuto il complesso di Cenerentola. Quindi, essendo tendenzialmente un non violento e anche troppo giovane per mettermi in analisi dallo psicologo, lo sfidai, se si riteneva tanto bravo, a cucinare lui.

La cucina dell'appartamento padovano. Il tavolino per la colazione,
come gran parte del'arredamento minimalistico/proletario,
 era un mio design esclusivo dal nome:
"due assi  messe in croce, rubate di notte da un cantiere"

La sfida, che integrava quelle quotidiane a flipper nel bar sotto casa e a calcetto sul tavolo del salotto con i tappi del gingerino riempiti di pongo giallorosso per lui che era della Roma e nerazzurro per me (il Subbuteo di allora), fu subito accettata e fu così che arrivò il gran giorno del pollo al barolo. Un avvenimento gastronomico di grandissimo rilievo durante il quale Roberto, che lo aveva annunciato a mezzo mondo, si sarebbe esibito nella preparazione del prelibato manicaretto su autentica ricetta di sua madre, già citata come formidabile artista dei fornelli. L'aspirante cuoco si alzò dunque di buon ora e andò in Piazza delle Erbe a scegliere il pollo dai banchetti dei contadini, perché doveva essere assolutamente ruspantissimo. In casa, frattanto, era spuntata già da qualche giorno una pregiatissima bottiglia di Barolo Gaja 1964 d.o.c. (presa in prestito sine die  immagino dalle rinomate cantine del padre o di qualche Circolo Marina).

Al mercato, non senza un qualche trauma, perché all'epoca i contadini vendevano i polli vivi e gli tiravano il collo alla presenza dell’acquirente, il nostro eroe comperò (si fece rifilare…) un bestione di volatile, buono per sei persone e lo portò trionfante a casa. Così, indossato un pesante grembiulone cerato della Marina Militare (fregato a bordo dell'Impavido), di quelli che si usano in cambusa per pelare patate e preso un catino, cominciò subito una delicatissima operazione di spiumaggio della povera bestia che fin dalla prima penna si dimostrò particolarmente coriacea e decisa a rendergli dura la vita. Dopo aver tentato (invano) di sostenere che occorreva aspettare qualche ora affinché il rigor mortis dilatasse i pori del pennuto e che notoriamente le piume delle galline padovane sono più attaccate di quelle delle galline livornesi, Roberto cominciò ad accanirsi su quella povera salma e la lotta durò quasi due ore, tra lazzi (miei), bestemmie (sue) e piume (del pollo) che volavano da tutte le parti. Finalmente, nella tarda mattinata, l’ormai ex-pennuto finì nella casseruola e una volta affogato nel barolo, con l’estremo oltraggio di una carota nel sedere, fu infilato festosamente nel forno. A momenti, sembrava il varo della Queen Elisabeth.


Il tavolo da pranzo dell'appartamento padovano, dove perfino
il compagno Lenin inorridì alla vista del pollo al barolo

Nell’attesa golosa di gustare tanta prelibatezza, incominciammo a studiare diritto amministrativo, che sembrava fatto apposta per tenere l'appetito a bada. Dopo una ventina di minuti, però, avvertimmo un odore strano, ma Roberto, che se ne intendeva, affermò che, ovviamente, quello era l’aroma tipico del vino di gran corpo che si sprigionava e non ci preoccupammo un granché. Quando il pollo arrivò in tavola ci buttammo avidamente sul sughetto, sul petto e sulle cosce. Poi, tolta la carota e aperta la carcassa, fui colto da un vago senso di allarme. Chiesi a Roberto, che stava facendo avidamente scarpetta col pane: “ Ma... hai messo dentro anche il ripieno?”. Lui, con la bocca piena, e unto di sugo fino agli occhiali, mi rispose stupito: “No... perché?”. Il perché era rappresentato da una poltiglia scura, molliccia e rivoltante. Quello sciagurato, comperandoli sua madre dal macellaio, non sapeva che i polli ruspantissimi vanno anche puliti dalle interiora! 

Grazie a lui, nell’ambiente studentesco di Padova fummo a lungo celebri come quelli che si erano mangiati il poulèt a la merde .

sabato 10 novembre 2012

Le elfe e le loro notti inquiete


Cronaca della notte trascorsa in un interno di casa borghese tra due coniugi di lungo corso di ritorno da un breve soggiorno in Germania per godere al prezzo di saldo della bassa stagione di un sole primaverile del tutto inconsueto, con noi in piumino d'oca e i Deutschen a passeggio in maglioncino (raffreddore gentilmente offerto dalla mia signora che quando viaggiamo non si fa mancare nulla). Comunque, dopo qualche giorno di pioggia, anche qui è sbocciato il sole come a mille chilometri più a nord, ma in compenso ieri tirava vento di bora e oggi fa un freddo cane, di quelli che ti metteresti il maglione sopra la felpa anche per stare in casa. Dunque, appena superato lo shock termico dell'elfa che, al solito, appena è sotto la trapunta infila i suoi piedini ghiacciati tra le mie gambe per scaldarseli, mi concedo almeno dei sogni in controtendenza.

02.50 – Mi trovo in spiaggia a Jesolo (Malibu non me la posso permettere nemmeno nei sogni) e stravaccato sulla sedia a sdraio assaporo un long drink al gin e maracuja guarnito con una fetta di lime e un bellissimo ombrellino giallo, quando finalmente Gwyneth Paltrow, la vicina di ombrellone che sta leggendo un mio libro giallo, si accorge di me e mi sorride allegra incurante del fatto che Cameron Diaz stia languidamente sdraiata sul lettino al mio fianco intenta a risolvere i cruciverba della Settimana Enigmistica. Le sorrido a mia volta e lei mi dice qualcosa, ma il rumore improvviso di un elicottero copre le sue parole. Poi mi accorgo che è il frastuono di un tritaghiaccio in azione e il mio sguardo infastidito scorre verso il barista cinese del vicino chiosco che ha il sorrisetto inquietante di Jackie Chan e che sta preparando delle granite.

02.51 – Il rumore del tritaghiaccio sembra trasformarsi in quello di qualcuno che scava nella ghiaia con tanta intensità da farmi perdere concentrazione e indurre la Paltrow e la Diaz ad andare assieme a prendere una granita al caffè  al baretto della spiaggia.

le elfe appena conosciute sembrano innocue...

02.52 – Il rumore della ghiaia rimescolata ormai ha invaso i miei pensieri e si è arricchito con il cigolio di un cassetto di fine ottocento. Provo ad aprire gli occhi ancora appiccicati di sonno e nella penombra scorgo una figura in camicia da notte felpata intenta a frugare con una piccola pila nel comò tra collane aggrovigliate, bracciali, gioielli e bigiotteria varia. Farfuglio qualcosa tipo: “Chi sei? Sei un ladro?” (questa è un’ottima domanda, le cronache nere pullulano di ladri in camicia da notte felpata che rispondono affermativamente).

02.53 – La figura risponde “Scusa…” poi spegne la pila e accende brutalmente la luce. Riconosco l'elfa all'interno della camicia da notte.  E' una felpata rosso lacca punteggiata da tante pecorelle bianche e da una nera. La pecora nera mi conferma che non può che essere lei...

02.54 – Dopo aver nascosto la testa sotto il cuscino ed espresso un giudizio sferzante sulla moralità della mia consorte di cui pagherò le conseguenze in seguito, cerco a tentoni la sveglia dell’Oregon Scientific sul comodino per cercare di capire che ora sia, ma la faccio cadere ed esplode come suo solito sul pavimento scagliando le pile nel raggio di diversi metri e comunque sempre sotto qualsiasi mobile da dove le potrò tirare fuori solo con la scopa. Immagino che le bombe a grappolo funzionino così.

02.55 – Ho recuperato abbastanza lucidità da iniziare un dialogo serrato con l'elfa.
Si può sapere che stai cercando a quest’ora di notte?”
Lei, senza smettere di rovistare nel cassetto, con il tono infastidito di chi ti sta dicendo una cosa ovvia e solo perché tu non ci arrivi,  mi svela l'arcano.
“Gli orecchini…tu dormi e non te ne preoccupare”
"Ah... va bene... " Sul momento la cosa appare del tutto ovvia e mi viene perfino da chiederle scusa per averle posto una domanda così ingenua. Subito dopo cerco disciplinatamente di sprofondare nel sonno come ordinato. Tuttavia, man mano che inizio a riprendere coscienza di me, avverto l'anomalia della faccenda.
“Quali orecchini e, soprattutto, perché?”
“Quelli in oro bianco a mezzaluna con gli smeraldini, hai presente?”
“No. Possiedi un numero di orecchini tale che mi servirebbe il database del CERN di Ginevra. Comunque, perché li cerchi alle tre di mattina?”
“Non mi ricordo se li ho portati in albergo e non vorrei averli dimenticati in camera. Non riesco a prendere sonno se non mi tolgo il pensiero”.
“Logica ineccepibile. Se non sai di averli portati non puoi neppure sapere se li hai persi. Mi ritiro dalla discussione, ma sbrigati che vorrei riprendere a dormire.” 

03.05 – La mia disturbatrice notturna dopo un’incursione al piano di sotto ritorna in camera tutta felice. “Che scema che sono, li avevo lasciati sulla mensola del bagno”. Avrei dovuto pensarci. Mia moglie, proprio come mio figlio e la sveglia dell’Oregon Scientific, tende infatti ad esplodere appena varcata la soglia di casa. Le chiavi della macchina di qua, la borsa di là, la giacca sul divano, le scarpe in lavanderia e gli occhiali e le sigarette chissà dove. Ovvio che gli orecchini fossero sulla mensola del bagno di sotto… comunque, finalmente, bacetto, si spegne di nuovo la luce e si torna a dormire.

Poi, con un sorrisetto s'impadroniscono delle tue notti e dei tuoi sogni

03.15 - Si riaccende la luce e l'elfa scende di scatto dal letto.
"Oh mio Dio!"
"Che c'è ancora? Non ti ricordi se hai perso la collana?"
"Macché! Ho dimenticato di mettere il telefonino sotto carica..."
La rivelazione mi getta nell'ansia più profonda perché la frase "mettere il telefonino sotto carica" pronunciata  dall'elfa implica da sempre come pena accessoria una tremenda rottura di palle.
"Ti prego, dimmi che sai dov'è il caricabatterie..."
"Ma sì che lo so! Dovrebbe essere ancora nella tasca della valigia"
"E' il dovrebbe che mi preoccupa..."
Infatti, dopo una ricerca affannosa lo si scopre ancora attaccato ad una presa della cucina al piano terra.
Ci rimettiamo a letto e dopo il "Buonanotte amore..." (augurio improbabile visto che tra poco sarà l'alba...) le giro le spalle e cerco di tornare alla spiaggia del sogno.

03.30 – Arriva una piccola grattatina sulla schiena proprio mentre Gwyneth Paltrow spazientita ha preso su la sua roba e sta uscendo dalla spiaggia e Cameron Diaz è ancora seduta al tavolo del bar a scherzare con Jackie Chan davanti ad una granita enorme. 
Dormi?
Con te è molto improbabile. Cosa c‘è questa volta?
Sono io che ho le vampate di calore o fa molto caldo?
La seconda che hai detto. Se metti i termosifoni al massimo è ovvio che poi fa caldo… perché non scosti la trapunta dalla tua parte e mi lasci riposare?”
“Ti spiace se abbasso il riscaldamento?”
“No, fallo pure, ma poi non ti lamentare che hai freddo appena si abbassa la temperatura…”
“Non mi lamenterò, non sono mica come te che fai una tragedia di tutto…” 
(scende da basso dove c'è la caldaia, esegue, ritorna e si ristende al mio fianco).

03.32 - Mentre sprofondo nel sonno mi pare di sentire una che dice: "Eccola, la maledetta..." ma mi impongo di non farci caso. 
03.35 – Nuova grattatina. Anzi, questa volta è proprio una gomitata nelle costole.
“Mi ha punto…”
"Ma chi? Chi ti ha punto?"
"Una zanzara. Mi ha punto sul lobo dell'orecchio"
"Ma che dici? Non ci sono zanzare a novembre, sono tutte morte per fine contratto..."
"Questa non l'hanno avvisata. A parte il prurito, la sento benissimo che mi ronza attorno alla faccia..."
Le chiedo un istante di silenzio ed effettivamente, forse per la suggestione, ma alla fine la sento ronzare anch'io. 
“Si, è una zanzara. Probabilmente il caldo estivo e subtropicale a cui ci costringi sparando al massimo il riscaldamento ai primi freddi deve averla ingannata, oppure è una Highlander e allora siamo nei guai. Comunque, mettiti l’Autan…”
“No perché poi resta l’odore sulle lenzuola… piuttosto, se la trovo, metto la piastrina “
“Con noi dentro la camera a respirare il Baygon? Ma fammi il piacere..." 
"Non c’è un altro modo per tenerla lontana?”
“Potrei provare con la moral suasion ma dubito di riuscire a convincerla. Mi passi una tua pantofola? ”
“Scherzi? Non voglio che le schiacci sul muro che poi rimane il segno…”
“Veramente volevo massacrare te a colpi di ciabatta, mica la zanzara…”

Quello che vorrebbe dormire tranquillo
senza quei due umani che discutono nella stanza a fianco...

Segue immediatamente un breve scambio di villanie e recriminazioni reciproche, tra le quali, non so perché, il fatto che lei mi chiede da tre mesi di dipingere la porta del garage e io me ne frego come al solito. Il bretone in tutto questo si affaccia alla porta con l'aria seccata di chi chiede un po' di silenzio per dormire, ma viene scacciato bruscamente in corridoio, che non è il momento.

Ore 04.00 – Si riaccende all'improvviso la luce e cosi Cameron Diaz fugge definitivamente con Jackie Chan e le sue granite. Mi giro verso la mia compagna che ora è appoggiata allo schienale del letto con un libro in mano (e neppure uno dei miei…).
Si può sapere che fai, ora?
Mi guarda seccata con l'aria di chi te la farà pagare. “Che vuoi che faccia? Per colpa tua che mi hai innervosita non riesco più a prendere sonno, quindi leggo… e grazie per la notte in bianco!”.

sabato 27 ottobre 2012

Repetita iuvant (dal teatro a Splinder, passando per Firenze)

Di solito scrivo per il blog alla sera, anzi, proprio di notte quando tutto tace, la pizzeria Vesuvio ha chiuso finalmente la saracinesca, il bretone ronfa dietro di me sopra quella che una volta era la mia poltrona dei pisolini e che ora è la sua cuccia abusiva, l'elfa ronfa a sua volta nella stanza vicina sognando le cose da farmi fare la mattina seguente e mio figlio, dopo aver chattato su Facebook per ore con Katerina da località perennemente "altrove" (tanto lo vedo dal pallino verde che sei on line, cosa credi?) si degna finalmente di aprire la chat con me per scrivere: "Ora stacco... ciao pà, ...notte!.". Così, finalmente solo, posso assaporare in santa pace il mezzo dito di Lagavulin con acqua ghiacciata a parte (è il mio rito notturno) e iniziare a far scorrere i pensieri e le dita sulla tastiera.

La mia "tana" e quella del bretone (la mia poltrona)

In queste settimane però è diventato tutto più complicato perché quando meno ci pensavo gli amici della Vanguardia Nonsensista, la compagnia teatrale universitaria che aveva messo in scena la mia commedia, (questo qui sotto è il loro nuovo sito molto professionale, con tutte le foto di scena degli spettacoli realizzati)


mi hanno comunicato che intendono andare in scena nuovamente con l'Ars Amandi Veneziana il 17 di novembre al Teatro Lippiello di Mestre e il sabato successivo - udite, udite - pure in trasferta, al Teatro Filodrammatici di Este (Padova). Quindi, visto che lo scorso febbraio incautamente avevo accettato di interpretare il ruolo del professor Barbaro, il severo padre di  Donatella, nella prima edizione e considerando che il tempo per provare è pochissimo (il copione è stato leggermente modificato) ora trascorro molte sere a teatro a fare le prove fino a tardi peraltro divertendomi un mucchio, tranne quando si fanno gli esercizi di riscaldamento vocale e arriva il momento della "erre", nel mio caso della "evve" (che poi tutti ridacchiano...). Questo però comporta che il tempo da dedicare alla mia produzione notturna di testi per il blog, si sia piuttosto rarefatto. Dunque, fino al termine degli spettacoli in programma la mia produzione letteraria sarà alquanto risicata. Ovviamente, me ne scuso e cercherò di rimediare in qualche modo.

Prima di entrare in scena, truccato da professor Barbaro e con il gatto Belzebù

Per esempio, qualche sera fa, forse per le malinconie di questi giorni piovosi, mi è venuto in mente che proprio in questo periodo lo scorso anno iniziava la lenta dissoluzione di Splinder, dove avevo scritto di tutto e di più per due anni filati (compreso il libro a puntate da cui è stata tratta la commedia). Avendo salvato tutto il blog in un file di ben 700 mega (ho scritto tanto, eh?) sono andato a rileggermi qualche pezzo di allora (tanti nemmeno li ricordavo) e tra questi ho trovato per combinazione un piccolo post del 2010 che era proprio l'antefatto di quello che ho scritto qualche settimana fa su Ferrara e la stanza numero 3 dell'Hotel Europa. Perché in quella notte di ottobre in cui l'elfa ed io ci siamo persi tra le nebbie estensi stavamo proprio rientrando da una gita in Toscana e questa che segue è la descrizione della disavventura fiorentina che avevamo vissuto prima di quella notte magica ferrarese, che per fortuna ci ricompensò adeguatamente. 

Il racconto s'intitolava: "An american restaurant in Florence (Italy)" e ve lo ripropongo, anche perché delle mie lettrici e lettori di allora, se non sbaglio, dopo la diaspora degli splinderiani ho ritrovato solo Redcats, Maude e Alessandra (che immagino lo rileggeranno volentieri) mentre per i nuovi arrivati tra i miei amici su Blogspot questo racconto è... un inedito.
Dunque, buona (ri)lettura.


La home page del mio Splinder. Sempre attraversato dal dubbio, eh?

La ragazzona bionda in salopette e con le guance coperte di efelidi ci accolse festosa sulla porta del locale: «Bienvenuti, vollete cenarei?… » invitandoci ad entrare con un sorriso scintillante. Lo sguardo sconcertato dell'elfa arrivò saettante come una delle sue frecce al carbonio e non aveva torto. Nella mia recherche du temps perdu con cui, a suo dire, l’affliggo ad ogni nostra vacanza cercando di tornare sempre nei posti dove sono stato felice, appena usciti dall'albergo fiorentino che ci ospitava l’avevo fatta scarpinare avanti e indietro tra Palazzo Vecchio, San Lorenzo e Santa Croce alla ricerca di una piccola e deliziosa trattoria casalinga in cui mi aveva portato anni prima un collega fiorentino e dove si mangiava toscano autentico, tra tagliate di manzo, carciofi fritti, trippe e ribollite preparate dalla mamma e dalla nonna del proprietario, tra profumi di salvia e rosmarino, in una linda cucinetta che sembrava quella di casa. Ne ricordavo solo vagamente il nome e che vi si accedeva da una specie di sottoportico tra alcune viuzze strette. Alla fine, chiedendo e richiedendo, l’avevo rintracciata, però qualcosa non quadrava e non mi riferisco solo alle tovaglie lise che ora erano giallo intenso, alle luci che da soffuse ora erano a giorno e ai quadri astratti alle pareti al posto delle vecchie pentole in rame e tutta la paccottiglia delle trattorie di una volta. Mi riferisco a quel che era del tutto inatteso, a cominciare dall’accento della ragazza, tragicamente yankee. Ora, io, in genere, se proprio non si mettono a fare gli sceriffi in giro per il mondo, non ho problemi di antiamericanismo, ma sapendo come i loro unici contributi alla gastronomia mondiale siano stati il Big Mac e il Kentucky fried chicken tendo a diffidarne dal punto di vista della ristorazione. Così, sperando che quella sorta di sorella florida di Fonzie fosse lì solo per servire ai tavoli, le chiesi se per caso avessero cambiato gestione. 
«Oh sì, certo! L’abbiamo rilevato due mesi fa con altri amici americani che studiano in Florence. Abbiamo appena riaperto da tre giorni, dopo il restauro…» . Ed effettivamente l'odore di vernice delle pareti pitturate di fresco sovrastava qualsiasi possibile profumo di cucina confermando il tutto.
Poi, mentre mia moglie aveva già sul volto l’aria del “ma dobbiamo proprio? ” la giovanotta lentigginosa aggiunse con la sua vocina alla Heather Parisi:  «Oh... ma guarda che si mangia benèi, sai? », annuendo con convinzione. 

Cipressi, vino toscano, la mia Delta e colei che per la gioia mia
e della Polizia stradale viaggiava di norma a 180 km/h.

Quell'ultima precisazione non richiesta assieme all'uso disinvolto del "tu” mi riempì il cuore di altri sinistri presagi. Di solito, l'oste serio non ti dice che il suo vino e' buono. Dovrebbe essere il suo vino a parlare per lui... 
«Lo immagino... » replicai, e mi venne fuori un mezzo sorriso che in realtà significava: «. ..lo spero ». 

Appena seduti a tavola esaminai il menu, scritto a mano su di un foglio di carta da macelleria. Era veramente notevole. Non l' elenco delle pietanze, ma il numero di macchie e ditate unte che erano riusciti a fare in soli tre giorni. Davvero una bella impresa! Quanto alle pietanze, come temevo, ero di fronte ad un vero pianto. La lista recitava melanconicamente una serie di proposte che spaziava dagli spaghetti al pomodoro a quelli al ragù, dalle orecchiette panna e gorgonzola alle immancabili "pappardelle panna - prosciutto - piselli" (una vera piaga nazionale che andrebbe sanzionata severamente) per terminare con un tristissimo passato di verdura dal vago sentore ospedaliero. Per i secondi, c’era invece un' ampia scelta che andava dal pollo arrosto al pollo lesso (con verdure) fino - stupore e meraviglia! - alla paillard di vitello ai ferri.

Ora, essendo a Firenze uno si sarebbe aspettato almeno una bella costata di chianina alla brace, o magari anche solo un antipasto di finocchiona, ma sul menu non ve n’era traccia alcuna. Sbirciai ansioso Morena intenta alla lettura del menu con aria sempre più sbalordita e la sua risposta non si fece attendere: «Se abbiamo scarpinato due ore per questo, scusami se sciupo i tuoi preziosi ricordi, ma non mi sembra un granché! Forse era meglio andare in pizzeria, non credi? » fu il suo primo commento. 
Cercai di recuperare mentendo miserevolmente : «Beh, dai... come facevo a sapere che avevano cambiato gestione? Ci hanno accolto sulla porta con tanta gentilezza, non potevo mica essere così maleducato da girare i tacchi e andarmene. Lo vedo anch'io che propongono cose banalotte, ma magari le fanno bene. E poi la cucina toscana e' fatta di sapori semplici, no? Anzi, che tu ci creda o no, io avevo proprio voglia di un bel piatto di orecchiette alla panna e gorgonzola, che e' tanto che non le mangio. ». 
« Vuol dire che hai nostalgia della mensa aziendale... » fu la risposta raggelante.

Qui l'elfa è in un rifugio di montagna,
ma lo sguardo è lo stesso di quella sera fiorentina.

Lasciai pertanto perdere i discorsi consolatori e la panna con il gorgonzola e mi guardai attorno. Il ristorante era deserto. Ed era un brutto segno, ma pensai che forse i fiorentini cenavano più tardi. Anzi… c’era una prenotazione su un tavolo vicino e la cosa mi diede un po' di sollievo. Se qualcuno ha prenotato, pensai ancora per farmi coraggio, vuol dire che non e' poi così male. Lo dissi all'elfa che, essendo una malfidata, si alzò subito per controllare, poi tornò ghignando «Non c’è scritto alcun nome…forse lo tengono per bellezza o per i creduloni come te ». 

Non raccolsi la provocazione e mentre mi dibattevo nel dubbio se, contravvenendo alla buona educazione, convenisse alzarsi e andare via o restare, la ragazzona ritornò a prendere le ordinazioni. Così, per disperazione, ordinammo come antipasto dei crostini con la milza e, passando direttamente ai secondi, l'unica cosa che sembrava appetibile: un tortino di zucchine, anche perché ci venne subito dipinto come: « specialità della casa, sai ? ». Ordinammo subito anche un mezzo litro di vino. Avevo provato a chiederle la carta dei vini, ma dopo un po' di tentativi di farle comprendere cosa fosse mi ero rassegnato al suo Chianti che era sfuso, si, ma anche « tanto, tanto buono, sai ? » . 

Visto che ormai il dado era tratto, inizio, avendo finalmente dei buoni motivi per farlo, ad illustrare a Morena (che sentendola da diversi anni, a questo punto di solito si distrae e guarda il soffitto) la mia ardita teoria sul rapporto tra decadenza dei costumi e tramonto della cultura gastronomica popolare quando arriva in tavola una bottiglia etichettata Cabernet del Piave (!?) e piena a metà. Inorridisco: « Scusi, ma ... questa cos’e'? » 
« E' il vino, no ? E’ il Chianti… » 
La ragazzona aveva l’aria di chi si era appena sentita domandare la cosa più ovvia del mondo. 
« Si, lo vedo e lo spero, ma mi riferisco alla bottiglia che sembra usata! ». 
Mi guardò paziente, come si fa con i clienti un po' troppo esigenti. 
« Oh! Sii...la botillia ... (sospiro) tu ci devi scusarei, ma il grossista non ci ha ancora mandato i servizi che gli abbiamo ordinato! Ma guarda che la botìllia e' pulita, sai? » 
Anche se almeno l'igiene sembrava salva, ero così allibito che non trovai neanche le parole per replicare, tanto più che assieme al vino era arrivata in tavola una ciotolina cinese (?) di quelle azzurrine a "chicchi di riso" contenente il patè di milza da spalmare sui crostini. Che non c'erano. 
Dopo una vana attesa richiamai la nostra giovane yankee: «Signorina, per cortesia, può chiedere in cucina quando arrivano i crostini? ». 
« Oh...ma il pane e' lì davanti a te! » rispose indicandomi il cestino del pane con l'espressione di chi in Piazza San Marco si senta chiedere dove è il campanile. 

Respirai profondamente mentre l'elfa iniziava a darmi calcettini leggeri sotto il tavolo perché lasciassi perdere: « Senta, se si chiamano (e lo avete scritto voi, non io...) crostini con la milza, ci devono essere da qualche parte i crostini e non il pane comune! Non le pare?» 
«Oh... certo che si usa il pane. La milza si spalma su pane. Tu prova a spalmare su pane... e' molto buono, sai ? ». 
Mi accingevo paternamente a spiegarle alcuni punti chiave della cucina toscana, con particolare riferimento al concetto di crostino quando Morena mi fece arrivare un nuovo calcetto sotto la tavola perché stessi zitto e dopo aver messo in stand-by la ragazza con un cenno imperioso di mano suggerì : « Probabilmente non sa cosa vuole dire crostino. Prova a dirle: toast... magari funziona.» . Ma, per prudenza, non seguii il consiglio e  dopo aver congedato la nostra giovane ignara dicendole che non importava e andava bene così, mi rassegnai a spalmare sulla mezza rosetta (non c'era neppure il pane toscano!), una melmetta grumosa e fredda da freezer che sapeva vagamente da milza.

               
Tuscany at her best
(come si prepara il vero pane toscano)

Arrivò a ruota, su un bel piatto da portata, il pezzo forte della cena: il tortino di zucchine, che a prima vista era così composto: forma semi-circolare con pareti a tratti bruciacchiate e abbastanza regolari nell'emisfero prospiciente il lato nord del tavolo. Vasto terrazzamento centrale delimitato da quattro fette di zucchina cruda (abbellimento, dimenticanza o delirio del cuoco?) cui seguiva, in direzione sud, una progressiva inclinazione con frane e smottamenti sempre più marcati che davano origine ad un' ampia zona acquitrinosa, color giallo uovo con vari sedimenti non classificabili, ma comunque in tinta con la tovaglia. 
« Scusi… questo cosa sarebbe?» La mia meraviglia ormai non aveva confini. 
«Ma e' tortino di zuchìnei ! Lei ha chiesto il tortino di zuchìnei…» Rispose ormai rossa in viso e spazientita da quel cliente così pignolo che faceva una questione di ogni cosa . 
«Guardi signorina, sicuramente in America il tortino di zucchine viene cucinato così e non lo discuto, ma dalle mie parti, una roba del genere,  se va bene, viene classificata come "frittata" e quando invece riesce così, viene denominata "un castròn”» 
«What's castròn? » Sgrano' gli occhioni azzurri come folgorata. Che avesse capito l'ingiurioso giudizio in veneziano sul "tortino di zuchìnei" specialità della casa? Così, dopo una pausa per calmare lo sdegno che le faceva gonfiare ritmicamente il petto dentro la salopette sbuffò, stufa di noi e dei nostri capricci: «Oh my God! Ma se tu no piace tortino, io lo porta via. » 
L'elfa, che quando serve è donna di pochi convenevoli, s’intromise decisa: «Si, benissimo...lo porti pure via. Vorremmo due caffè e il conto. Grazie.» 
Il caffè, brodoso il giusto, arrivò servito in due bicchierini di plastica di quelli che si usano negli ospedali (sempre per via del perfido grossista che...). 
Quanto al conto, accompagnato sul piattino da due caramelle di liquirizia  era, come temevamo, in linea con i peggiori prezzi turistici fiorentini. Lasciammo le banconote sul tavolo senza discutere ulteriormente (perché noblesse oblige ) e ci avviammo alla porta. Che ci fu aperta da una nuova americanina (la prima, forse, si era buttata sul letto a piangere) anche lei tutta pimpante . 
«Tutto benei ?» ci chiese ansiosa. 
«Certo, grazie, e complimenti per il pane….davvero squisito! » fu la nostra sdegnata risposta, e nuovamente ci perdemmo (affamati) nelle buie stradine attorno a Santa Croce alla ricerca almeno di una pizza al taglio.

venerdì 12 ottobre 2012

Ok... now I'm sixty- four (and so?)

Vuoi per questa settimana eternamente piovosa, vuoi per la consapevolezza che un ulteriore anno stava per aggiungersi al mio già considerevole mucchietto di "anta" e vuoi per la tosse e il mal di gola che non mi danno ancora tregua (perché quando le elfe rientrano da un viaggio se tu le accogli con un bel mazzo di fiori loro ti baciano d'impeto senza avvisarti che sono raffreddate e così ti attaccano quei loro potentissimi bacilli sconosciuti al genere umano, che poi diventi matto per debellarli, anche perché la tua avvenente farmacista stregandoti con i sorrisi ti rifilerà i suoi costosi rimedi erboristici che fanno passare in soli sette giorni un raffreddore che altrimenti sarebbe durato una settimana), sino a ieri mattina il mio umore era sul tristerello e propenso a musiche struggenti del genere "As time goes by" da ascoltare sorseggiando la splendida Slivovitz di prugne fatta in casa dal nonno di Katerina e giunta  in cambio di una partita di salumi piacentini (rientra nel protocollo d scambi culturali tra Italia e Repubblica Ceca)

                                              

Tra l'altro, sto lavorando da mesi con lo scanner e Photoshop per digitalizzare e restaurare il migliaio di foto della mia famiglia ereditate da mio padre e da altri parenti sparsi per il mondo perché non vadano disperse (le foto attraversano un intero secolo e due guerre mondiali e alcune sono dei primi del '900 come questa di mia nonna paterna nella sua casa di Smirne). 


Maria "Bebitza" De Andria in Volebele Vay  (1915)

Ora, finché ti occupi di persone ormai lontane nel tempo e che non hai praticamente conosciuto se non da bambino o di cui ignori del tutto il nome e cerchi di capire dai tratti del volto, da dove sono o da chi hanno vicino chi possano essere, è puro piacere di ricerca storica ed è anche divertente, ma quando poi prendi gli album più recenti e ti capitano per le mani immagini come queste due, ti rendi conto di come il tempo intercorso tra l'una e l'altra, che sembrava sconfinato e che era il "tuo" tempo di vita, in realtà sia volato via maledettamente veloce e così le malinconie aumentano in modo esponenziale...


Io a venti giorni in braccio a mia madre
 (la spilla di mia madre oggi l'indossa l'elfa. bello, vero?)


Mio figlio a venti giorni in braccio alla mamma
(i miei due amori)

Per fortuna, questa mattina le malinconie si sono dissolte come la nebbia a mezzogiorno perché, come spesso mi succede, io m'intristisco sino alla sera prima di compiere gli anni (il giorno prima di compiere i '50 ero uno straccio lamentoso, chiedere a mia moglie...), poi, appena li ho compiuti, è come se si resettasse tutto e mi sento subito meglio perché penso che in fondo ora ho altri 365 giorni davanti prima di pensare ad un nuovo compleanno. Dunque si riprende il cammino e come gridavano i nostri "Capitani da mar" ai marinai delle galeazze per incitarli prima delle battaglie: "Duri i banchi, fioi!".




Inoltre, a  migliorare ulteriormente l'umore, appena sveglio mi sono ricordato di questa marcetta divertente che i miei vecchi amici John, Paul, George e Ringo avevano scritto sicuramente per me circa quarant'anni fa e che, anche se contiene alcune imprecisioni (non ho nipotini di nome Vera, Chuck e Dave da tenere sulle ginocchia e non intendo affittare cottage sull'isola di Wight) non potevo certo perdere l'occasione di utilizzarla come colonna sonora del mio sessantaquattresimo compleanno. Anche questo mica è da tutti, no?


domenica 9 settembre 2012

Dell'epica battaglia dello stracotto d'asino e delle rimembranze indebite delle signore anziane


Sabato sera in albergo in montagna, il giorno prima della partenza. L’elfa ed io, seduti in veranda sotto una stellata memorabile eravamo intenti a scacciare le malinconie della vacanza quasi finita sorseggiando il caffè e le grappe del dopo cena e conversando amabilmente con due simpaticissime signore, casuali vicine di tavolino, una delle quali una volta appurato come fossimo veneziani anche noi (anche se sulla venezianità dell’elfa ci sarebbe da discutere) mi aveva raccontato di essere stata la proprietaria del bel negozio di biancheria che c’era tanti anni fa in Salizada San Lio, quello vicino all’orefice. Appena le avevo rivelato di essere nato e di aver vissuto per diverso tempo proprio dalle parti di campo San Lio e di ricordare benissimo il suo negozio, era accaduta una di quelle sorprese straordinarie che a volte ci riserva la vita. Infatti, la signora, dopo avermi scrutato per bene, aveva sorriso di colpo come se avesse trovato il ricordo che cercava dicendomi divertita: “Ah! Ma lei non sarà mica il figlio della signora Carla, la pittrice? " e dopo la mia risposta affermativa aveva subito proseguito: "Lo sa che la sua mamma era una mia cliente affezionata e veniva sempre a comperare i costumi da bagno da me? Era tanto simpatica, ma così esigente … mi faceva diventare matta, sa? C’era sempre qualcosa che non le andava e me ne faceva tirare fuori a decine, poi però me ne comperava anche due o tre assieme”. 

Quell’ultimo dettaglio mi diede la conferma che si trattava proprio di quell’eccentrica spendacciona di mia madre e rese del tutto superflua l’ulteriore informazione che a volte veniva a fare acquisti anche con la fidanzatina di uno dei figli (che ero io). Mi era ben noto, infatti, che Donatella si era fatta un intero corredo di biancheria intima e costumi grazie alla propensione di mia madre - che l’adorava - a riempirla di regalini e quando quelle due uscivano a negozi assieme il nostro modesto conto in banca subiva dei veri e propri smottamenti. In tutto questo l’elfa mi osservava deliziata dal racconto e con l’aria di dire “Quindi, tua madre regalava allegramente costumi alle tue fidanzatine, mentre tu a me….”. 

Ma non ebbi tempo di preoccuparmene perché la signora, dopo i rituali “Oh! Ma che divertente!” e “Ma tu guarda la combinazione!” e le previste considerazioni sulla piccolezza del mondo che ci aveva fatto incontrare tanti anni dopo in un piccolo albergo di Tambre, divenne subito preda della sindrome da rimembranze in stile “Carramba che sorpresa!” decidendo di dar fondo a tutta la sua indiscrezione. 
“Lei dovrebbe essere il figlio chitarrista con i capelli lunghi. Quello che la faceva disperare con lo studio, giusto?” 
“Temo di sì… sono il figlio lungocrinito, come mi definiva per distinguermi dall’altro di pelo corto” 
La mia interlocutrice ridacchiò soddisfatta della mia ammissione.
“Allora, caro il mio signore, ora che ho capito chi ho di fronte non se ne stia lì così tranquillo perché adesso le farò andare la grappa di traverso. Guardi che io so tutto di lei… altarini compresi"


Piccoli paesini, grandi pettegolezzi

Sentendo i propositi della signora l’elfa si era messa comoda sulla poltroncina e aveva assunto l’aria del “Questa proprio non me la perdo...” mentre io, pur essendo certo dei miei trascorsi di rettitudine, posavo il bicchiere sul tavolino per precauzione. Infatti, mia madre, che normalmente era una persona molto riservata, sulle mie vicende era un libro aperto forse perché, essendo io per carattere molto simile a lei, viveva la sfida di farmi crescere con particolare coinvolgimento e quando la deludevo se ne doleva molto e non lo nascondeva. Comunque, essendo curioso di scoprire se stava bluffando e cosa sapesse davvero di me invitai la signora a vuotare il sacco dei ricordi. Però, come quando vai a vedere il gioco dell’altro sicuro che non possa avere più di una doppia coppia e invece gli è entrato il full, non fu una buona idea perché mia madre a suo tempo doveva proprio essersi sfogata per bene con quella donna raccontandole che io ero lo sciagurato che tornava con il naso rotto dai cortei, la faceva stare in pena perché rientravo a notte fonda da chissà dove, frequentava chissà quale gente trinariciuta, pensava a tutto fuorché a studiare e dava tante amarezze a quella povera ragazza così di buona famiglia che l’accompagnava a comperare i costumi nel suo negozio. 

Alla fine la signora, accorgendosi di avere esagerato un tantino, decise di lanciarmi un’ancora di salvezza “Però lei, almeno, era quello che giocava bene a bridge e faceva i tornei con la mamma, vero?” 
No, il figlio virtuoso era mio fratello. Mia madre ha cercato invano per anni di coinvolgermi con il bridge, tanto che alla fine per reazione ho iniziato a giocare a scacchi. Ai suoi occhi era uno dei miei peccati originali…” 

L’imbarazzo crescente fu interrotto dal trillo una volta tanto salvifico del telefonino. Si trattava di un nostro amico veneziano che essendo a sua volta in vacanza con la moglie dalle nostre parti ci invitava a raggiungerli la mattina seguente per pranzare assieme in una malga sperduta tra i monti e i prati al confine tra il Cadore e la Val di Fassa che conoscevano loro e dove si degustavano vere prelibatezze locali per tacere dei formaggi d’alpeggio prodotti direttamente nella vicina casèra. Accettammo entusiasticamente anche perché, visto che il nostro programma per la domenica prevedeva solo il ritorno a Venezia, era l’occasione per regalarsi ancora qualche ora di montagna. 

 La malga introvabile che conoscono solo gli amici... e qualche altro migliaio di persone

I nostri amici ci aspettavano verso mezzogiorno sulla porta del loro albergo e appena saliti in macchina ci diedero le istruzioni per raggiungere la malga che era all’inizio della Val Fredda e a cui si accedeva da una piccola strada sterrata andando verso il passo di San Pellegrino. Essendo uomo di mondo e sapendo come la montagna la domenica sia strapiena di gitanti m’informai subito se avessero prenotato e per che ora, ma mi venne risposto che quel locale lì lo conoscevano solo i pochi eletti che lo avevano scovato e non serviva prenotare. Infatti, appena arrivati sul posto fummo accolti da una lunga fila di auto parcheggiate sino a duecento metri di distanza dalla malga che appariva brulicante di eletti. Così fummo costretti a ripiegare in cerca di altre soluzioni iniziando, di locale in locale e di paese in paese, a collezionare tutta una serie di “Siamo al completo”, “Mi spiace, ma è tutto prenotato.” sino al classico: “Se volete aspettare… ma vi avverto che c’è almeno un’ ora di attesa…(che poi si raddoppia)”. Verso le due, discendendo in disordine e senza speranza le valli che avevamo risalito con orgogliosa sicurezza, facemmo l’ultimo disperato tentativo di mettere qualcosa sotto i denti a canale d'Agordo, un piccolo paesino lungo la strada tra Falcade e Cencenighe Agordino. 

L’unico ristorante del luogo era un locale dall'aria anonima proprio nella piazzetta dove a fianco della chiesa e del campanile erano parcheggiati due autobus turistici e a giudicare dal vociare che ci giungeva da una delle finestre aperte non ci voleva molto a capire dove si stessero rifocillando i passeggeri. Però all'ingresso del locale faceva bella mostra di sé una lavagna con la scritta: “Oggi stracotto d’asino e polenta e finferli” e questo migliorò sensibilmente il mio umore, ma solo per pochi attimi perché prima ancora che potessimo varcare la soglia per chiedere se c’era posto giunse una cameriera per avvisarci che il cane non poteva entrare, ma che però, se volevamo, girando attorno all'edificio potevamo accomodarci sulla loro terrazza belvedere all'aperto che aveva un ingresso a parte e lì il cane ci poteva stare, purché al guinzaglio.


Quello che per colpa sua non ci fanno entrare nei ristoranti

La terrazza era una sorta di grande ballatoio in legno che dava su un ruscelletto sottostante che dalla strada non si vedeva ed anche se l’unico panorama da “belvedere” era abbastanza modesto trattandosi della boscaglia sull’altra riva, sembrava abbastanza carina oltre che deserta. Prendemmo posto su uno dei tavoloni con le panche, sotto l’ombra di un paio di ombrelloni bianchi. Appena seduti, non ci fu neanche il tempo di chiederci “Chissà se qui fuori, con il ristorante pieno, si ricorderanno di noi? “ che giunse con apprezzabile solerzia la cameriera di prima per prepararci rapidamente il tavolo con delle tovagliette di carta e le posate avvolte nei tovaglioli. Appena terminato e prima di rientrare nel ristorante ci informò che l’elenco delle pizze era stampato sulle tovagliette e che tra un attimo sarebbe ritornata per le ordinazioni. Quattro paia di occhi (cinque con quelli del cane) la guardarono stupiti “Pizze? Ma noi non siamo qui per le pizze. Noi vorremmo…” 
La ragazza c’interruppe subito con fare deciso. 
Qui in terrazza facciamo solo servizio pizzeria. Se volete pranzare con il menù del giorno dovete sedervi dentro, però vi ho già detto che il cane non ci può stare”. Detto questo rientrò nel locale, mentre il bretone assumeva l’aria mesta del colpevolizzato e tra di noi si apriva il dibattito sul da farsi. Alla fine la mia mozione d’ordine dal titolo “Alziamo i tacchi e lasciamo questo luogo gastronomicamente inospitale” fu messa in minoranza grazie all’azione disfattista delle signore felici di non dover fare un pasto completo e abituate a mangiare solo il centro della pizza perché il bordo è solo pane e fa ingrassare. In aggiunta a ciò il nostro amico avanzò la considerazione che ormai non aveva senso cercare altri ristoranti in zona con il rischio di trovarli strapieni e di arrivare all’ora di chiusura delle cucine. Di conseguenza il gruppo si rassegnò alle pizze. Tutti tranne uno, che appena la cameriera ebbe preso nota delle ordinazioni disse: “Io invece prenderò lo stracotto d’asino con la polenta. Ne avete ancora, vero?” 
“Dovrebbero essercene ancora alcune porzioni, ma quello però, come ho detto prima, lo deve venire a mangiare dentro” 
“Perché dentro?” 
“Perché questa è la pizzeria, il ristorante è all’interno” 
“Si ma la terrazza fa parte dello stesso locale e lei è la stessa cameriera che serve al ristorante. Perché non posso avere lo stracotto d’asino qui?” 

La cameriera, una ragazzotta ben piantata, con i capelli raccolti a chignon e un allegro grembiulino a fiorellini che strideva con tutta quella fermezza, si mise le mani sui fianchi come per intimidire quel cliente così puntiglioso. “Perché questa è la pizzeria e serviamo solo pizze” 
“Certo, la terrazza è l’area della pizzeria e quindi si servono pizze. Logica stringente. Ma mi faccia capire… lei non può oltrepassare la porta che separa la terrazza dal ristorante con un piatto di stracotto d’asino con la polenta?” 
“No… a questi tavoli esterni possiamo servire solo pizze” 
L'elfa, dopo avermi rifilato un calcetto negli stinchi sotto al tavolo sibilò "Avranno un problema di licenza. Non insistere e sbrigati ad ordinare..." ma ormai quella faccenda dello stracotto era diventata una sorta di sfida personale
Ma se io le vengo incontro fin sulla soglia della porta del ristorante e lei mi passa il piatto di stracotto senza oltrepassarla, può essere la soluzione? Sarei io ad infrangere le regole, non lei ”. 
“No, non si può….” 
“Apprezzo la coerenza, ma davvero non esiste un modo per risolvere il problema?” 
“Se vuole, visto che gli ho già portato il conto, tra due minuti si libera il tavolo vicino a questa finestra, così lei può sedersi lì, ordinare il menù del ristorante e continuare a parlare con i suoi amici sulla terrazza.” 

Quella che ha già capito che tanto lo stracotto d'asino non lo mangerò...

Presi quella proposta come una provocazione e stavo per replicare duramente, ma poi incrociai lo sguardo di Morena che era come quello di Orazio Nelson a Trafalgar un attimo prima di dire la frase: “L’ Inghilterra si aspetta che ognuno faccia il suo dovere” e mi fu subito chiaro che il mio dovere era quello di porre termine immediatamente a quella discussione che ritardava l’arrivo delle pizze di tutti. Quindi, non volendo irritare l’Inghilterra ed avendo una certa padronanza delle tecniche negoziali decisi di spiazzare quell'avversaria irriducibile cambiando improvvisamente l'obiettivo. Se non potevo raggiungere il miglior risultato possibile, cioè lo stracotto mangiato al tavolo in terrazza e non volendo ottenere il peggior risultato possibile, cioè il digiuno sdegnato e con le palle in giostra, potevo ricorrere allo “stile rapido” di Cristoforo Colombo e puntare con decisione al risultato realistico-accettabile. In fondo, se non potevo avere la flotta spagnola e un intero corpo di spedizione, piuttosto che essere cacciato a calci nel sedere dal palazzo reale potevo pur sempre scoprire l’America con tre piccole caravelle ed essere ugualmente soddisfatto. 
Allora rinuncio allo stracotto d’asino, anche perché immagino che a quest’ora è probabile che sia finito. Però, visto che siamo in montagna vorrei mangiare qualcosa di tipico e non una banale pizza da città. Ho visto che oggi avete anche i finferli con la polenta, ma pure quelli dovrei ordinarli al ristorante, giusto?” 
Sì…” 
“Però, se rimango qui in terrazza posso ordinare una pizza ai funghi, vero?” 
“Certo…è nel menù della pizzeria, abbiamo la funghi semplice e la prosciutto e funghi” 
“Perfetto, ci siamo quasi… ora mi segua: i finferli cosa sono?” 
“Beh… sono funghi…” 
“Ottimo… allora mi porti una pizza con i finferli… abbondanti se possibile e senza prosciutto” 
A quel punto i nostri amici e l’elfa seguirono entusiasti le mie orme cambiando le loro ordinazioni in favore della pizza con i finferli da me appena ideata. 
Messa con le spalle al muro dalla mia logica stringente la cameriera, che almeno disponeva di un’etica sportiva, dovette cedere, ma giunta sulla soglia della porta che la riconduceva nel ristorante si girò per scagliare l’ultima freccia .
“Però qui non posso portarvi la polenta di contorno”. 
“Sopravviveremo lo stesso…” fu la risposta corale.

giovedì 30 agosto 2012

Delle vacanze in montagna di una volta e altre cose...



Ecco! Ancora una volta le vacanze sono finite per davvero. Ci tocca sopportare un po’ di giorni residui di caldo e zanzare e poi la polo ritorna nel cassetto e ci si rimette la cravatta. Non ci crederete, ma a pensarci provo ancora, a distanza di tanti anni, quella stessa sensazione di malinconia profonda che mi prendeva alla domenica sera dell’ultimo giorno di ferie, quando alla Domenica Sportiva finivano i servizi sulle partite del campionato appena iniziato e iniziavano quelli sull’ippica spalancandomi la finestra sul baratro del ritorno a Torino. Anche perché alla frustrazione di ricominciare di nuovo la vita del pendolare si aggiungeva il supplizio di dover trascorrere almeno le prime due settimane ad ascoltare con aria compiaciuta sempre gli stessi immutabili resoconti delle mirabolanti vacanze di colleghi e colleghe reduci dai vari villaggi vacanza con animatore simpaticissimo e acquagym, posti esotici improbabili scovati con il last minute, scottature da sole himalayano o da Sharm (lo El Sheikh tra la gente di mondo si dà per sottinteso), bambini guastavacanze con la tonsillite proprio il giorno prima di partire, grigliate pantagrueliche su spiaggia greca con l’Ouzo e la Retsina a garganella e il bagno nudi a mezzanotte con la medusa che ti prende proprio lì (mio pensiero grato alla piccola vendicatrice), l’incontro ravvicinato con lo squalo (che probabilmente era un tonno) facendo snorkeling a Pantelleria e le gite in barca con il mare mosso attorno a Panarea spacciate come il periplo di Cape Horn. Tralascio quella mia collega che per cinque anni di fila mi ha raccontato come in Oman cuociano l'agnello dentro la sabbia e quell'altra che, penso per competenza territoriale trattandosi di ex possedimenti veneziani, mi ha stressato per mesi con il riccio che in Istria l'aveva mandata al pronto soccorso con il piede trafitto dagli aculei, neanche l'avessi messo io... (però mi sarebbe piaciuto).

Quando finalmente mi veniva chiesto “E lei, dov’è stato di bello?” ero costretto ad ammettere che per l’ennesima volta avevo trascorso le ferie a Nötsch im Gailtal, un minuscolo e sconosciuto paesino tra le colline e i laghi della Carinzia, immerso tra i frutteti e i campi di grano, appena dopo il confine, a solo due ore di auto da casa. Dunque, anche se mi affannavo a dire che era l’ideale per il bambino che si divertiva un mondo in mezzo alla natura incontaminata delle valli austriache e poi costava poco, venivo guardato con stupore unito al sospetto perché si capiva lontano un miglio che per trascorrere le ferie in un posto così poco originale e "trendy" dovevo nascondere qualcosa d'inconfessabile. 

Il monte Dolada infiocchettato di nuvole

Per questo, considerato che delle nostre vacanze montane vi avevo già raccontato l’anno scorso quando la meta era ancora inedita anche per noi, invece di tediarvi con il resoconto del nostro ritorno a Tambre d’Alpago, delle nostre passeggiate con il bretone e dell’eccellente stinco di maiale, del formaggio fritto, dei cassunzèi e del capriolo con la polenta cucinati con maestria dal cuoco del nostro piccolo albergo a conduzione familiare, ho deciso di limitarmi a postare qualcuna delle tante foto che ho scattato in quei giorni e di proporvi, invece, un bel tuffo nel passato, raccontando com'erano le "vere" vacanze di una volta, quelle che si facevano quando ero ragazzino e che sembravano davvero non finire mai. Perché a volte penso che il tempo scorra con un’inversa velocità a seconda delle stagioni della vita. Quando sei piccolo il tempo è qualcosa di maestoso, come un fiume alla foce, con l’acqua quasi ferma. Invecchiando (e lavorando) gli anni scorrono con la velocità di un ruscelletto di montagna, come quello qui sotto. Di ferie in ferie, di settimana in settimana, ti ritrovi all'anno seguente e non sai neppure come. Non ho fatto tempo a riavermi dallo shock di aver compiuto i cinquanta che erano già arrivati i sessanta… 

Chiare, fresche (anzi, gelide) dolci acque...

Le mie estati da adolescente erano suddivise in due fasi ben distinte. Il mese di giugno lo si passava ad annoiarsi in spiaggia al Lido perché il medico di famiglia, spiegando alla nonna che mi ospitava (mia madre seguiva mio padre da una base navale all'altra e io ero parcheggiato nella casa veneziana dei nonni per via della scuola) i motivi della mia scarsa concentrazione negli studi, aveva sentenziato che ero linfatico e che l’aria iodata sarebbe stata per me un vero toccasana. Dunque mi veniva impartito l'obbligo di esposizione al sole sul bagnasciuga per respirare l’aria marina a pieni polmoni. Quando il medico, dopo aver curato quelle brutte scottature da sole, sentenziò che ero anemico mi ritrovai ben presto in una tempesta di bistecche al sangue, mentre dopo la frattura esposta della gamba che mi ero procurato sciando fui condannato ad essere ingozzato di verza cruda a pranzo e a cena per il fatto che, secondo quel luminare della medicina, il maledetto vegetale era ricco di sostanze atte a favorire la calcificazione. Quell’uomo tanto prodigo di consigli e quella nonna così apprensiva per il mio pallore adolescenziale non mi risparmiarono neppure l’olio di fegato di merluzzo e il cucchiaio da minestra di ricostituente "Proton" da trangugiare prima di andare a scuola. Mi consolo pensando che se il nostro medico avesse sentenziato che ero stitico, sarei probabilmente affogato nei clisteri. 

L'Alpago: prati e cieli azzurri...

Dal primo di luglio e fino all’inizio di settembre, scattava la seconda fase: quella delle vacanze montane a Moena, in Val di Fassa. Al tempo prendevamo in affitto ogni anno la casa di un certo Angelo Sommavilla, che mia madre contattava grazie al vicino albergo Rosengarten perché come la maggior parte dei valligiani di allora non aveva il telefono in casa. Questi era un rude montanaro che mio papà chiamava "Grande Capo Cavallo Basso" perché portava in testa un cappellaccio di feltro adorno di una lunga piuma di gallo cedrone e indossava perennemente dei vecchi calzonacci tirolesi con il cavallo all’altezza delle ginocchia. La casa, anche se piuttosto spartana negli arredi, era molto bella e piena di luce perché si trovava appartata sopra una piccola collinetta, da cui dominava gran parte del paese ed era circondata dai prati che costeggiavano la strada sterrata che portava verso la frazione di Sorte e il Sass da Ciamp. 

I primi giorni nella casa di montagna erano vissuti nel disagio più totale nell’attesa ansiosa del fatidico arrivo del baule. A pensarci bene, i bauli sono stati una costante della mia gioventù. 

Nei bauli, quelli grandi di una volta, di legno verde scuro, foderati di carta da parati e con le borchie d’oro, ci stava una casa intera. Una volta, quando le famiglie partivano per la villeggiatura in montagna si effettuavano delle vere transumanze, con tutte le vicissitudini di un trasloco e il baule ne diventava il protagonista assoluto. Questi, infatti, viaggiava in treno per suo conto, prendendosela comoda e, di solito, nel giro di una settimana dalla spedizione arrivava ad Ora o in quel di Mezzocorona (via Trento) oppure a Calalzo (via Cadore). Occorreva indovinare. Bisognava poi trovare il volonteroso con il motofurgone (il prescelto era quasi sempre il fruttivendolo...) che ci accompagnasse al ritiro alla stazione delle autocorriere. Alla fine dell'impresa (perché tale era...) dall’enorme baule saltavano fuori, come da un inesauribile bazar, le agognate coperte, la borsa dell’acqua calda, la caffettiera, i piatti, le pentole… e la vita poteva riprendere la sua normalità. Tra le calamità estive (vipere, zanzare, colpi di sole...) emergevano dal baule, quasi sempre per mano della zia, anche i minacciosi compiti delle vacanze. Essi venivano regolarmente da me dimenticati inevasi in qualche cassetto il giorno della partenza. 

Verso la malga al Pian Formosa

Tornando ai miei anni spensierati da ragazzino, Moena incarnava il concetto stesso delle vacanze. Che si aprivano ufficialmente con la cerimonia dell’acquisto delle pedule e della piccozza alla Famiglia Cooperativa (regolarmente si piantava la grana per avere anche la borraccia e il coltellino con lo scoiattolo sul manico, ma con scarsi risultati...). La prima gita era tradizionalmente dedicata alla malga Roncac, con mio fratello Franco, la mamma e la nonna (che indossava le scarpe da città, con il mezzo tacco...) a scarpinare quaranta minuti in ripida salita per mangiare la panna con i lamponi. Il giorno dopo si stava tutti a letto, sotto i piumini, con le gambe indolenzite (e la nonna anche con le caviglie gonfie…). Nei giorni seguenti, finalmente, cominciavano ad arrivare alla spicciolata le famiglie degli altri villeggianti con relativi figli (e l’agognata ragazzina milanese per la quale ti eri preso la cotta l’anno precedente, ma che anche quest’anno non ti filava) e cominciava la stagione dei giochi a perdifiato. Poi, dopo tanti giorni di solleone, di gite per rifugi, di uscite per andare a funghi e infinite polverose partite di calcio, un giorno ti accorgevi che i temporali cominciavano a diventare più frequenti, l’aria diventava tersa e fresca (di sera occorreva il maglioncino...) e qualche cima s’infiocchettava di neve. Cominciavi a vedere passare tante macchine con il tetto ricolmo di valigie, gli alberghi si svuotavano degli amici e in quel clima di smobilitazione diventava sempre più difficile colmare gli organici delle squadre di calcio. Allora subentrava una malinconica attesa del rientro i cui sintomi erano dati dal riempirsi del baule e dalla progressiva sparizione al suo interno delle pedule, dello zaino, del bastone e della borsa d'acqua calda della nonna. Quando sparivano le scarpe da calcio, era proprio finita e di lì a poco si sarebbe tornati a scuola. 

Uno sguardo lontano....dal Pian de le lastre

Papà e mamma erano dei grandi e appassionati camminatori (mia madre da ragazza aveva fatto anche roccia con impegno e aveva smesso solo perché una pietra staccatasi dalla parete del Sassòngher le aveva spezzato male una caviglia che non era più guarita del tutto). In quegli anni abbiamo girato tutto il Catinaccio, il Sassolungo, il Sella e dintorni in lungo e in largo e diverso tempo dopo, appena ho avuto l'età per farla, abbiamo affrontato pure qualche ferrata, come il Santner e la nord dell'Antermoia (che un po' di fifa in qualche punto te la dava). Io avevo una bellissima piccozza da montagna (che poi ho perduto con gran dolore) di quelle vere, non  come quelle da bambino che al primo colpo su un sasso si spezzava la punta e in ogni rifugio conquistato papà mi comperava la targhetta di metallo da applicarci sopra a testimonianza dell’impresa. La mia piccozza luccicava con almeno trenta targhette argentate e due smaltate a colori. E così, fin da bambino, ho imparato ad inebriarmi di vette azzurrine a perdita d’occhio e ad amare il silenzio delle alte quote, rotto solo dal vento che ogni tanto fischia attraverso qualche forcella o dallo scampanio delle mucche in fondovalle. E dal gorgogliare dei ruscelletti che sgorgano da sotto le macchie di neve scintillante. Con quell'acqua fredda come una lama, da bere a piccoli sorsi per placare la gola riarsa dallo sforzo della salita. 

Oggi, invece, a tornare da quelle parti m’ innervosisco (il termine esatto è un altro, ma non vorrei sembrare volgare). I luoghi magici delle mie estati da adolescente si sono, infatti, tramutati da tempo in veri e propri divertimentifìci, copiando il peggio delle spiagge romagnole. I paesi, infatti, si vanno riempiendo sempre di più di sale giochi, pizzerie, paninoteche, birroteche, videoteche, discoteche e bischeroteche varie. Non so se da qualche parte siano già approdati i doppi cheeseburger con ketchup e patatine fritte, i kebab o le piadine con il culatello e lo squacquerone, ma credo si tratti solo di una questione di tempo. E, comunque, già fin d’ora, in qualche malga o rifugio a far compagnia alla polenta con i finferli e ai canederli si trovano gli spaghetti alla carbonara o le linguine all’amatriciana. Quando non la pizza al taglio. 


Luci lungo il sentiero "del cervo"

Una volta, passando per le viuzze strette tra le case avvertivi l’odore del legno, delle stalle e dei fienili, oggi per trovare una vera vacca (invito a non fare pensieri maliziosi...) devi andare quanto meno sugli alpeggi a duemila metri. Al posto delle modeste botteghette di generi misti (il mitico negozio di gemistenwahrenhandlung da pronunciare tutto in un fiato...) piene di tutte le vecchie carabattole introvabili in città sono spuntati come funghi rutilanti negozi d’articoli sportivi, jeanserie e boutique. Dunque non vi è più traccia di quelle preziose delikatessen come le croccanti rosette con il salame affumicato e il cetriolo sottaceto che ti preparavano per le gite al negozio di alimentari, gli scartocci di castagne secche da sgranocchiare per la strada o la spuma frizzante di mele del Bar Catinaccio e la ciotolina con la panna montata (vera, non spray) con le fragoline di bosco, i lamponi e i mirtilli che ti servivano alla malga Roncac. E non so più nulla della torta di nocciole alta un palmo della malga Alloch a Pozza (dovrò verificare..). 

Per le strade, al posto delle famigliole di quieti villeggianti in pedule, camicie a quadrettoni e calzoni di fustagno, circolano oggi, in un perenne struscio da via Bafile di Jesolo, bulletti e bullette su Golf GTI nere con le portiere che si gonfiano a ritmo di rap o disco-dance e mostruosi fuoristrada magnum con le quattro ruote motrici che servono ai proprietari unicamente per parcheggiare meglio sopra i marciapiedi. Per i sentieri di montagna, invece dei "Grüss Gott" bisbigliati con un rapido cenno di saluto quando s’incrociava qualche altro escursionista e dove regnava sovrano il silenzio oggi senti berciare decine di persone che si chiamano e gridano per ogni fesseria. 

Che bello quando l'unico rumore che si sente nell'aria è il volo delle api...

In tutti questi anni, poi, gli abitanti locali ci hanno messo del loro perché per compiacere il turismo di massa hanno sconciato di buona lena boschi e montagne per piazzare impianti di risalita e funivie dappertutto, consentendo a chiunque di arrivare in men che non si dica in posti prima accessibili solo a gente esperta. Per capire cosa intendo, basta vedere il parcheggio a (caro) pagamento allestito alla base delle Cime di Lavaredo. Sembra quello di San Siro nel giorno del derby. E con le lamiere luccicanti che arrivano a lambire le pareti di roccia. Al passo Pordoi, per fare un altro esempio, è stata realizzata una funivia per trasportare i gitanti che scendono dai pullman direttamente in cima allo strapiombante sperone di roccia del Sàss Pordoi, con un salto arditissimo di trecento metri a corda unica. Sulla cima (un deserto e silenzioso universo di pietraie e macchie di neve da cui godevi una vista strepitosa sul panettone del Sella, e che ora è brulicante di nonne e bambini...) è stata costruita una mega-stazione d’arrivo in cemento armato con bar, ristorante pizzeria con vista panoramica, solarium con sdraio e menu turistico mentre tutta la zona circostante profuma di brätwurstel. 

Dentro il cuore del Catinaccio succede anche di peggio. L’apertura della strada asfaltata che porta le automobili davanti alla porta d’ingresso del rifugio Gardeccia, evitando quell’ora e mezza di camminata che occorreva per raggiungerlo dalla stazione d’arrivo della seggiovia al Ciampediè, ha eliminato ogni forma di selezione naturale. Lo strappo ripido che porta al vicino rifugio Vajolet è dunque ormai, bene o male, alla portata di tutti. E da lì si arriva nel cuore della montagna vera, quella dove, se non la si conosce, ci si può anche far male. Infatti, il risultato più discutibile che questa offerta di massa della montagna produce è che troppa gente ormai può accedere alle escursioni più impegnative come e quando vuole, senza alcun allenamento e la più pallida idea di come ci si debba comportare, mentre ogni conquista (e la montagna lo è) richiede il suo tempo d’esperienza e non sono ammesse scorciatoie o facilonerie, soprattutto quando si rischia la pelle propria e quella degli altri. 


Guardando verso il Cansiglio

Così l’ultima volta che sono salito dal Vajolet al rifugio Re Alberto ho incrociato una bolgia dantesca di gitanti vestiti in canottiera e calzoncini, equipaggiati con le scarpe da jogging che si usano per correre nel parco sotto casa e che si arrabattava ad arrampicarsi lungo le rocce e roccette che portano al rifugio, facendo cadere un mucchio di sassi (per la gioia di quelli che stavano sotto). Qualcuno ogni tanto s’incrodava su qualche roccetta e bisognava aspettare pazientemente, tra le risate della comitiva, che si raccapezzasse su dove mettere i piedi e le mani, per non parlare della visione surreale di una signora in gonna issata di peso dal marito. Insomma, uno sfregio ai miei ricordi che ad un certo punto ho deciso di non accettare più e questo è uno dei motivi che, sia pure a malincuore, mi hanno spinto a cercare una montagna più di basso profilo, sicuramente meno attrattiva e spettacolare ma, proprio perché incontaminata dal turismo di massa, ancora semplice e genuina nei suoi valori. Capace di farti lottare duramente contro la tradizionale ostinazione della gente di montagna per uno stracotto d’asino con la polenta, ma di questo ne parleremo nel prossimo post….