martedì 29 novembre 2011

Le delizie del phishing e dei traduttori automatici

Dopo qualche mese di tregua, forse per le vacanze estive, ma si spera per quelle "al fresco", sono ripresi implacabili nella mia posta elettronica i tentativi di phishing (cioè di farti abboccare all'amo di un messaggio fasullo come se fossi un pesciolino stordito inducendoti a rivelare password del tuo conto corrente e altri dati sensibili a chi di certo non li userebbe per beneficenza). 

I classici espedienti della banca (che non è mai la tua, ci prendessero almeno una volta...) o delle Poste Italiane (dove sperano di colpire nel mucchio dei vecchietti pre-tecnologici) che ti avvisano di aver bloccato un conto che non possiedi e ti dicono che se non lo sblocchi subito non potrai pagare una fattura o (più allettante) ricevere un bonifico a tuo favore, ormai sono roba d'antiquariato e in fase di abbandono, anche perché ci abboccano solo quelli con il cervello a neurone singolo. Che poi, siccome è noto che il Signore separa in fretta gli sprovveduti dai propri soldi, in fondo sarebbe solo l'applicazione di un volere divino. Dunque neppure un male...


Tipica potenziale vittima del phishing

Infatti, quando arriva la cortese lettera "al gentile cliente" di una sconosciuta banca di Valdobbiadene (Treviso) che ti invita a partecipare al suo progetto di miglioramento della sicurezza informatica immettendo nuovamente i tuoi dati, vuol dire che: A) ti stanno prendendo per i fondelli. B) i truffatori sono alla canna del gas, se sperano di beccare uno sprovveduto che tiene i soldi in una banca inesistente a 120 km da casa. 


Il prototipo dell'astuto phisher

Così, siccome la necessità aguzza l'ingegno, questi signori, che mi piace immaginare come astutissimi Wile coyote con la loro cassettina ACME di finte mail per acchiappare i correntisti Beep Beep, la scorsa settimana  mi hanno spedito una mail con la festosa comunicazione a caratteri cubitali : VIVI MOMENTI MAGICI CON LA TUA UNICREDIT CARD! (non la possiedo, ma in fondo è un dettaglio...)

Immaginando perfettamente la magia del momento in cui mi sarei trovato il conto prosciugato, ho evitato di cliccare il link e proseguendo nella lettura ho scoperto di essere il fortunato vincitore di un biglietto famiglia open Alitalia e di 2 giorni di pernottamento presso l'Hotel Disneyland (Si, grazie, ma dove? La Disneyland parigina o quella americana?) con inclusi 2 biglietti per assistere allo spettacolo "Disney live! L'intrepido viaggio di Topolino" con ingresso gratuito per i "bambini sino a 17 anni"

Qui, immagino che l'entusiasmo di chiunque per l'insperata vincita sarebbe traballato come il mio di fronte a quell'improbabile limite dei 17 anni per i bambini. Infatti, qualsiasi genitore sa bene che se solo osasse dare del bambino ad un/a figlio/a diciassettenne riceverebbe presto una lettera di diffida dall'avvocato. Mio figlio, che ha preso da sua madre, a suo tempo avrebbe fatto di certo così. Non parliamo poi di che avrebbe detto se gli avessi proposto di andare con i genitori a Disneyland per vedere "Topolino" . Il ragazzo sa essere molto tagliente con le ironie.

Ma anche gli astuti Wile Coyote si devono essere accorti di aver cannato alla grande con l'età e, siccome la customer care prescrive di essere precisi con il cliente, qualche giorno dopo mi è arrivata una commovente errata corrige, sotto forma di una lettera identica, ma con l'età del pupo che può entrare gratis portata a 10 anni. Sono stati così premurosi a correggersi che ora quasi mi viene voglia di cliccare sul loro link per ritirare il premio. Mica lo posso perdere un Momento Magico Disney, no?



Ma il tentativo di phising più spettacolare degli ultimi tempi (vincitore del Loser Award 2011 nella categoria Fiduciosi nella dabbenaggine altrui) è quello che mi è arrivato poche ore fa da un truffatore straniero imbecille ma gentile, che per mia comodità ha tradotto il testo dall'inglese all'italiano. 

E qui è crollato tutto. 

Perché quello che mi ha insospettito non è stato tanto il come mai questa sconosciuta Sachsen Lotto Gmbh di Postdam (nostalgia da guerra fredda?) mi annunciasse di essere stato estratto a sorte tra 25.000 indirizzi internet europei e di aver vinto 1.000.000 di euro (Ma che culo che ho! Avevo appena vinto un viaggio a Disneyland...). Non è stata neppure la domanda sul perché mai una lotteria tedesca di questi tempi dovrebbe regalare una milionata di euro proprio ad un italiano, perché magari si trattava di qualche accordo tra la Merkel e Monti a sostegno dei consumi in Italia di cui non ero a conoscenza. E nemmeno ciò che nella lunga lettera mi veniva puntigliosamente spiegato perché i Deutsch amano essere precisi:

 "Questo programma Jackpot di Lottery di anno 2011 e mai il più grande per Sachsen Lotto-Gmbh. Il jackpot valutato €50 milione sarebbe il sesto più grande nella storia dell'Europa. Il piu grande era il jackpot €363 milione di che e andato a due vincitori in un'illustrazione del febbraio 2000 Predecessore il gioco grande dei milioni Mega. La vincita proviene da una ricerca casuale automatizzata avanzata della scheda elettorale del calcolatore dal Internet come componente del nostro programma internazionale di promozioni che conduciamo ogni anno. Nessun biglietto é stato venduto".  

Effettivamente, non era molto chiara la faccenda della scheda elettorale del calcolatore e del "nessun biglietto venduto", ma poi in fondo uno si dice: "Vabbè, ma cosa stai a sottilizzare...magari sono normative tedesche. Lo sai quelli come sono fatti, no? Chi ti dice che da loro i calcolatori non votino? E se non vendono biglietti, forse finanziano la lotteria con lo spread dei bund. Hai visto mai?" 

La mia banca?  Longitudine 59' 33 16 N  Latitudine 18' 33.19 E ...
Il problema è che il Wile Coyote aveva tradotto l'annuncio della vincita usando un traduttore automatico, cioè uno di quei mostri sadici in grado di trasformare Cristoforo Colombo in Diobuco Piccione. Così, la banca off shore dove avrei dovuto ritirare il premio nel testo era diventata una "banca in mare aperto" (immagino che le sue coordinate bancarie sarebbero state: latitudine e longitudine). Fatto questo che mi ha impressionato molto negativamente, non tanto al pensiero dei poveri impiegati e dei clienti costretti a nuotare davanti agli sportelli, quanto perché mi sarebbe toccato tirare fuori il canotto dal garage e farmi una bella pagaiata per raggiungerla e non ne ho affatto voglia. Mi sa proprio che non ritirerò il premio...

sabato 26 novembre 2011

Nina ti te ricordi la nostra Venezia? (ultima parte)

(segue...)
Ogni veneziano sopra i cinquant'anni potrebbe elencare una serie infinita di piccole meravègie e consuetudini perdute. Tanto che credo si dovrebbe costituire una sorta di museo della memoria del vivere quotidiano per non far dimenticare ai nostri figli quanto era bella e vivibile la città prima della calata del turismo di massa, quello con le infradito e le braghette corte degli inclusive tour da Jesolo e Caorle fino al Garda, che uniforma e appiattisce tutto.


Tourism with umbrella (1971)


Non vi dico con quanta nostalgia io ricordi i turisti colti e silenziosi dei primi anni ’60, in giacca di tweed e con la guida Routard o Baedeker sottobraccio, ma anche gli studenti giramondo di una volta. Quelli con l’Europe 5 dollars a day che spuntava dallo zainetto con il sacco a pelo per dormire ammucchiati all’ostello della Giudecca e che poi li trovavi a contemplare assorti un capitello o una vera da pozzo nei campielli più remoti e che nelle calli strette si scostavano per lasciarti il passo.

Flute & Venice (1971)

A parte mio figlio, la sua ragazza e i suoi amici, che a volte di ritorno dalle passeggiate veneziane ti raccontano entusiasti di aver mangiato un ottimo Kebab in Strada Nova (spero sia solo perché sono cronicamente a corto di soldi) grazie ad un turismo di bocca buona che siede ai tavolini pasteggiando (quando va bene) a pizza, lasagne alla bolognese e cotoletta impanata di platessa surgelata spacciata per filetto di San Piero, anche le più belle ricette della nostra tradizione oggi sono scomparse di fronte all’incultura di chi, facendo un frullato indistinto di italianità, trova normale mangiare piadine a Torino, tagliate di chianina a Trento, comperare la statuetta con la torre di Pisa in Piazza San Marco e sentire i tenori sulle gondole cantare “O sole mio”.  Così di molti piatti delle nostre mamme (appresi delle nonne) tra qualche anno resterà solo il ricordo.  Come per le moleche e le masanete, che altro non sono che i granchi di laguna prima e dopo il periodo della muta (i molecanti sono dei pescatori abilissimi e molto ricercati che, infilando le mani dentro i cestoni dei granchi appena sollevati dall’acqua, riescono a tatto a capire quali siano già in muta e quali no).

Ma dai! Davvero sono ubriaca? (1971)

Nel primo caso, giacché sono tenerissimi, si mangiano per intero e fritti dopo aver fatto loro sorbire l'uovo sbattuto prima di infarinarli, in modo da formare al loro interno una frittatina. Sicuramente crudele, ma il risultato toglie ogni senso di colpa e poi almeno vanno in padella con la pancia piena, mica come gli astici o le aragoste. Nel secondo caso, i granchi si sgranocchiano e si succhiano con grande godimento dopo averli lessati, mondati delle zampe e delle chele e fatti insaporire per qualche ora nell’aglio, prezzemolo e olio. Rompere con una leggera pressione in punta di denti e succhiare le masanete (deliziose, credetemi) richiede tecnica e abilità consolidate altrimenti è facile trovarsi in bocca anche dei pezzettini di guscio. Quindi è un piatto da mangiare in privato e/o tra amici stretti, ma non in una cena formale, se non volete vedere gli invitati sputazzare imbarazzati.

All'osteria (1972)

Altrettanto da gustare assolutamente sono i delicatissimi bovoletti. In stagione qualsiasi bàcaro che si rispetti, da Campo delle gatte a Sant’Alvise non può non avere sul banco una terrina di queste deliziose lumachine cotte e lasciate riposare per ore ad insaporirsi con tanto aglio, olio di frantoio e prezzemolo. Sono da sorbire con l’aiuto degli stuzzicadenti, di un calice di fresco Prosecco di Valdobbiadene e chiacchierando amabilmente senza fretta (a Venezia la fretta è bandita e lasciata alla cultura altrui) tra amici, meglio avendo di fronte la persona amata. Superfluo ricordare in tal caso che, dovendo lavorare di stuzzicadenti tenendo i bovoletti con le dita, è sconsigliato lasciarsi trasportare da slanci affettivi improvvisi per non ungere d’olio l’amata o l’amato con effetti deleteri per il proseguire del rapporto. Allo stesso modo ricordo che masanete, bovoletti e piatti simili rendono immediatamente “Agliopositivi” e, per l'alto contenuto di prezzemolo, regalano agli incauti il classico "Sorriso primavera". Pertanto, qualora fosse in programma, potrebbero rovinare l’intimità della serata.

L'Osteria al ponte,  con il vino del Piave, che oggi non c'è più (1971)

Tra i pochi inconvenienti della nostra gastronomia, ricordo che quando la mia mamma andava a prendere i granchi al mercato, arrivava a casa con le bestiole che scappavano fuori della borsa, un po' come le tarantole in "Aracnofobia", e bisognava inseguirle per tutta la cucina, stanandole con il manico della scopa anche da sotto il frigorifero (così come l'anguilla, che era veramente un irriducibile, tanto che veniva messa in pentola con l'onore delle armi).


Pescando ancora a caso tra i tanti piatti favolosi e testimoni di una sapienza secolare posso citare la spienza (la milza) bollita a pezzetti fino a farli talmente morbidi da spalmarli come una crema, aromatizzata con salvia, alloro, olio e aceto, sul pane croccante, il Rumegàl (l’esofago della mucca) i nervetti con le siègole (le cipolle), la sopa de tripe (zuppa di trippe) e la castradina da mangiare nel giorno della Madonna della Salute. Quest’ultimo era un piatto davvero strong, solo per stomaci forti, che andava cotto per ore a fuoco lento in una pentola di terracotta e che prevedeva come ingrediente principale della carne secca e affumicata di montone della Dalmazia (fino agli anni '70 se ne comperava a quintali, oggi è introvabile e si ripiega sul normale castrato), tagliata in pezzettini e da stufare con le verze. La castradina andava fatta riposare tutta la notte per poter togliere alla mattina con il mestolo l’imponente strato di grasso in emersione e, anche se per credenza popolare la Madonna della Salute nella sua ricorrenza avrebbe provveduto a sanare gli indisposti, era prudente in ogni caso tenere a portata di mano il bicarbonato (l’Alka Seltzer per i più abbienti).

Mozzarelle con l'acciuga, sardelle fritte, baccalà in pastella...
le mille delizie dei bacari veneziani per pranzare a poco prezzo 


Appena più leggera l’Anara col pièn (l’anatra ripiena di un trito di soppressa, fegatini, pane, parmigiano, prezzemolo, noce moscata e uova) che, assieme alle sarde in saòr, viene tuttora consumata tradizionalmente sulle centinaia di barche all'ancora davanti a San Marco, durante la notte del Redentore (anche se lo scorso anno degli amici sacrileghi mi hanno raccontato di aver mangiato sushi). Io però, come ho già avuto modo di raccontare, preferivo le salcicce bruciacchiate alla scottadito e sabbia, che venivano arrostite al suono delle chitarre (o mare nero, mare nero, mare ne..) sui falò notturni della spiaggia degli Alberoni, mentre si beveva birra tiepida e si aspettava di fare il bagno nudi nell’Adriatico (che di notte, anche se sei a luglio, è tanto freddino) lucente sotto la luna. Che poi ci si bloccava la digestione esattamente come a quelli che s’ingozzavano d’anatra sulle barche, ma almeno noi ci si divertiva di più (e magari ci scappava anche la pomiciata nascosti tra le dune e i canneti).


i consigli delle osterie veneziane

Un altro piatto saporitissimo che si preparava con il castrato era il riso in cavromàn. Il castrato (meglio la parte della schiena che è più grassa) andava cotto per bene nel soffritto classico e appena aveva preso colore si aggiungevano i pomodori pelati, un pezzettino di stecca di cannella e lo si lasciava cuocere per due ore aggiungendo ogni tanto del brodo. Poi si aggiungeva il riso e lo si cuoceva normalmente, mantecandolo alla fine con formaggio e burro. Oggi però è difficile trovare macellai che abbiano la carne del castrato (così poco dietetica in un mondo che ormai mangia solo vitello esangue), se non ordinandola per tempo, come la lingua per il lesso misto. Ovviamente, i nostri risotti dovevano essere rigorosamente “all’onda”, così come la tradizione imponeva che infilando il cucchiaio nella pasta e fagioli (con i borlotti di Lamon, le cotiche e i cannolicchi) questo dovesse rimanere dritto in piedi, come una sentinella. Detta pasta e fagioli, era una delizia mangiata fredda il giorno dopo e inglobandoci dentro il radicchietto (amarognolo) di campo condito con olio e pepe. Provare per credere…

Tipica osteria veneziana dove ci si può rifocillare a poco prezzo 

Tra i piatti di pesce tipici da gustare (la preparazione, semplicissima, può essere applicata a qualsiasi tipo di pesce se non piace l'anguilla) cito anche il bisato all’ara, cioè l’anguilla che i soffiatori di vetro delle fornaci di Murano mettevano in tranci sui mattoni roventi del forno a cuocersi nel suo stesso grasso e senza condimenti, se non il profumo di un letto di foglie d’alloro, e il cremoso risotto di un tipico pesce povero della laguna dalle carni piuttosto grasse e spinose (sostituito ovunque dal più banale risotto di pesce con l’onnipresente rucola) che, per tradizione, andava gustato solo dopo aver scavato con la forchetta una canaletta a croce nel piatto e averla profumata con una spruzzatina di limone e una spolverata di pepe. Oggi è tornato in voga, ma a caro prezzo, il fritto di anguelle (i minuscoli pesciolini che si pescavano con la reticella vicino agli imbarcaderi e che le signore ricche davano ai gatti senza sapere cosa si perdessero), mentre sono purtroppo scomparse le ganassètte (la parte interna e cartilaginosa delle branchie) ottenute dalle teste dei più svariati pesci che le mamme povere si facevano regalare in pescheria all’ora di chiusura e che, infarinate e fritte, profumavano di mare ed erano deliziose.

la storica osteria Al Codroma, in zona Angelo Raffaele

Per fortuna, anche se molti proprietari hanno trasformato i loro locali in improbabili Wiener Stube con annesso Brätwurstel mit senf e boccalone di birra diuretico o hanno ceduto l’attività ai cinesi, resistono ancora e andrebbero censiti e conservati come un bene prezioso molti bacari (osterie) anche se non sono più fumegosi come una volta e hanno perso tutta quella clientela di vecchi e arguti beoni, studenti perdigiorno, tenori sfiatati e tuttologi. Sono quei locali modesti e straordinari, alternativi ai ristoranti dei turisti, dove con pochi soldi, se non vuoi aspettare la pastasciutta o il risotto che vengono sfornati verso mezzogiorno, ti puoi fare ancora un vero pranzo con i loro innumerevoli cicchetti: i folpètti e le aringhe fumegàe, le sepoìne roste (seppioline alla griglia), le crocchette di carne e patate o di tonno, il baccalà fritto o mantecato, il musetto con il kren, le sardèe in saòr, i pevaròni rosti, la frittatina di verdure e il mezzo uovo sodo con l’acciughina distesa sopra, disposti ordinatamente sui banchi di marmo e magari bevendo il torbolin (il mosto) e il proibitissimo clinto (scuro, aspro e dal profumo di fragola) servito nella ciotola di terracotta e venduto sottobanco (anche ai vigi­li.)

Osteria "dalla vedova" o Leon d'oro, in Strada Nuova

Questa nella foto, che ora mi pare si chiami Leon D’oro, ma tutti la conoscono come “dalla vedova” è una delle più belle e antiche, tanto che anni fa alcune delle sedie avevano ancora l’aquila imperiale austroungarica intagliata sullo schienale. Si trova in una minuscola calletta che si apre su Strada Nuova, dalle parti dei santi Apostoli. Per anni, all’uscita da scuola, mi ha gratificato con delle crocchette di carne e patate (aglio e prezzemolo quanto basta) da svenimento. Ieri, con il cuore in gola, le ho ritrovate, appena sfornate e fragranti come le avevo lasciate nei miei ricordi.

Mi sono quasi commosso…prima di azzannarne sei di fila.

giovedì 24 novembre 2011

Nina ti te ricordi la nostra Venezia? (seconda parte)


(segue...)

Ancora una dozzina di anni fa, per la pubblica via, erano vendute da floride contadine le uova e i fiori del Montello,  portati a spalla per ponti e calli dentro grandi cestoni di vimini, mentre un omino, in campo San Lio, proponeva incessantemente le pierette per accendere il gas, ma anche le lamette "Bolzano" per il rasoio. Una volta al mese passava in calle, annunciato dal caratteristico richiamo: el Gua! , l’arrotino che riparava gli ombrelli e affilava i coltelli da cucina pedalando di gran lena sopra una rugginosa bicicletta con la mola, in un nugolo di scintille che volavano in alto prima di spegnersi sui masegni. Fino agli anni sessanta passava per i canali, annunciato da alte grida, il barcone della fabbrica del ghiaccio che era alla Giudecca, con le donne che strillavano a loro volta dalla finestra le ordinazioni  per riempire le ghiacciaie di casa. Le sbarre di ghiaccio azzurrino, arpionate con grandi uncini di ferro, venivano portate a spalla su per le scale dai facchini che le appoggiavano su un sacco di juta ed era buona creanza offrire loro un bicchiere di vino come mancia. Immagino che a fine turno fossero ubriachi.  

Una piccola corte nascosta dalle parti di Ruga Giuffa

Al Lido, l’alternativa al filobus o alla bicicletta per la spiaggia era la carrozzella trainata dal cavallo. Davanti alla fermata della motonave ne stazionavano quattro o cinque, con i ronzini sempre con il muso immerso nel sacco della biada. Credo però che l’ultimo cocchiere sia andato in pensione una trentina d’anni fa. Io ho fatto ancora in tempo a salirci sopra, ma non so se sia una cosa di cui vantarsi…

Così come non se vantarmi di aver fatto in tempo a veder recitare il grande Cesco Baseggio (il nostro Gilberto Govi) e gli spettacoli di marionette di Podrecca che andavano in scena al teatro Ridotto durante il carnevale. Ho visto anche, accovacciato sulla sabbia in mezzo a decine di altri bambini, gli spettacoli di marionette che ogni sabato pomeriggio alle quattro avvenivano sulla spiaggia del Des Bains, con Arlecchino, Pantalone, Colombina e Fracanapa che pigliava tutti a bastonate. Però quelli ha fatto in tempo a vederli anche mio figlio, dunque in questo caso non mi sento tanto decrepito.

Tra le figure familiari ad ogni veneziano di una certa età, mi piace ricordare anche un omone con dei grandi baffi alla Stalin che, con un vocione tenorile da strillone, che si sentiva fino in Merceria, vendeva con qualsiasi tempo: eeèl Gaaasetìno (Il Gazzettino) e i biglietti della lotteria all’angolo di campo San Salvador. So che è mancato alcuni anni fa e con lui è un altro pezzettino di Venezia che se ne è andato. Un po’ come le tessere dorate dei mosaici di San Marco che si potevano accarezzare con la mano attraversando la basilica sugli stretti camminamenti interni a cui si accedeva dalla loggetta superiore, prima che li chiudessero alle visite perché quelle le fregavano i turisti per ricordo.

Un piccolo chiostro adiacente San Piero di Castello


Non c’entra nulla con il taglio edificante del racconto, però, tra le figure familiari di quella Venezia che è scomparsa mi è venuta in mente anche la Maria “C” che non era una nave da crociera, ma un’ anziana signora della quale si potrebbe dire che ai suoi tempi era stata una nave scuola.  La “C”  sottintendeva il nomignolo dialettale con il quale era nota in città e che, anche se è difficile crederlo, in fondo era affettuoso, ma è tuttora irriferibile. Si trattava della decana (sicuramente oltre i settanta) delle uniche sei meretrici di tutta la città, a loro volta ampiamente in età pensionabile, che battevano la zona tra la Frezzeria e la Bocca di Piazza e che rendevano imbarazzante aspettare Donatella (quella sciagurata era sempre in ritardo) davanti al cinema San Marco perché ogni volta iniziavano dialoghi tragicomici per indurmi a cedere alla loro seduzione. Cosa del tutto improbabile, visto che, a prescindere da ogni altra considerazione, quelle matrone erano talmente inguardabili per età e stazza da non indurre in tentazione neppure un assatanato. Della Maria la vox populi diceva che da ragazza fosse molto avvenente e anche che, oltre ad aver svezzato almeno una generazione di veneziani, fosse stata addirittura l’ultima donna di D’Annunzio.

Io la ricordo con affetto come una vecchietta tutta pelle e ossa, che girava come un fantasma per le calli infagottata in una vecchia pelliccetta che aveva conosciuto tempi migliori e indossando un cappellino con la veletta del tutto fuori moda. Abitando dalle nostre parti la incontravamo talvolta nei bar e mia madre, che l’aveva in simpatia, le offriva sempre un bianchetto o le sigarette. Qualche volta, anche se era molto schiva, si riusciva a scambiare quattro parole con la Maria e l’impressione che ne riportavo è che fosse una donna di considerevole intelligenza, ironica e con una buona cultura, tanto che mi chiedo ancora oggi per quali percorsi sfortunati si fosse ridotta a quella vita.

Il canale di San Pietro di Castello, dove ormeggiavo la mia piccola barca


Tornando a parlare di ricordi meno tristi un vero veneziano sa che in un tempo felice esistevano i Caramel Bepi, gli ometti in camice bianco e vetrinetta appesa al collo che vendevano la pinza e un castagnaccio caldo, intriso d’olio, con la crosticina bruciacchiata e pieno d’uvetta davanti all’uscita della scuola, così che poi ti divertivi a stampare ditate unte sui libri, sulle cartelle e sui cappotti dei compagni di classe, per la gioia delle loro madri, che già erano furenti perché i pargoli si presentavano a tavola belli rimpinzati. Nei mesi invernali e di scuola c’erano agli angoli delle strade e soprattutto al mercato di Rialto, anche i venditori di patate americane arrostite, di caldarroste e perfino di pere cotte immerse  nel liquido di cottura appena zuccherato (perché lo zucchero costava), ma queste ultime cose m’ingolosivano di meno, soprattutto le pere, che facevano tanto ospedale.

La domenica i Caramel Bepi gironzolavano invece per piazza S. Marco, vendendo gli spiedini con la frutta caramellata più appetitosa del mondo (chicchi d’uva, albicocche secche e prugne). Se non avevo rotto tanto le scatole durante la messa in basilica, ne potevo avere uno come premio, cosa che, peraltro, non succedeva spesso. Era un po’ come per i soldatini di Linetti, in Merceria, che allora era il negozio di giocattoli per definizione. Nella vetrinetta d’angolo, circondato attorno alla sua tenda dai soldatini dei cow boy e dei nordisti, c’era un bellissimo capo indiano con il tomahawk e la corona di piume d’aquila in testa che era il mio sogno proibito (anche perché costava parecchio). Quando ci passavo davanti, per staccarmi dalla vetrina mia madre mi diceva: “Se ti comporti bene, al ritorno te lo compero”. Poi ogni volta mi fregava cambiando strada. Non sono mai riuscito ad averlo ed immagino sia uno dei miei traumi infantili da raccontare un domani all’analista.

Una corte privata dalle parti di Campo Santa Giustina


Oltre agli spiedini di frutta caramellata, tra i dolci che amavo di più c'erano i croccantini con le mandorle, le nocciole o i bagigi (le noccioline americane). Questi ultimi, con un po’ di buona volontà, si trovano ancora nei panifici o nelle trattorie tradizionali (L’Antica Bessetta nei mesi invernali te li offriva a fine pasto assieme con lo zabaione caldo e i biscottini ebraici da pucciare dentro. D’estate, invece, li proponeva con un calice di ramandolo fresco). Gli spiedini di frutta caramellata sono ormai scomparsi da oltre vent'anni e, temo, per sempre. Ho provato a farli in casa con dell’uva bianca da tavola e mia moglie sta ancora brontolando perché, seguendo le istruzioni di immergere la frutta nel caramello rovente e di raffreddarla subito sul marmo le ho appiccicato tutto il piano della cucina. Per mia fortuna, Morena, quando ha i bioritmi giusti, è molto brava a cucinare il castagnaccio, per non parlare della sua profumatissima pinza fatta con il pane vecchio (o la farina gialla di polenta), l’uvetta, i fichi secchi e i semi di finocchio, che appena esce dal forno mio figlio ed io iniziamo a soffiarci sopra come mantici per divorarla prima possibile. Anni fa, quando aveva voglia e tempo, sapeva anche preparare i sùgoi (il mosto di vino cotto con zucchero e farina fino a fargli raggiungere la consistenza di un budino) come facevano le nonne di una volta sulle cucine economiche a legna. Oggi, in stagione, si trovano ancora in qualche supermercato, ma quelli fatti in casa erano un altro mondo.

Lenzuola stese sul canale dietro Campo San Rocco


Anche gli storti con la panna montata della latteria Zorzi al ponte della Regina hanno segnato un’epoca, insieme con i gelati di Glacia in Merceria, i ghiaccioli da 10 lire al tamarindo e all’anice e la sua panna in ghiaccio racchiusa tra due cialde di wafer, con la ciliegina candita all’interno. In via Garibaldi, nel cuore del sestiere di Castello, c’era, invece, la Gelateria Toscana che vendeva gelati artigianali fatti con la polpa della banana e i pinguini al fiordilatte ricoperti di vero cioccolato fondente. Alle Zattere c’è tutt’ora il mitico Nico con il suo gianduiotto con la panna montata. Venire a Venezia e non sedersi a gustarlo sui tavolini con vista strepitosa sul canale della Giudecca, è come andare a Roma senza vedere il papa.
(segue...)

lunedì 21 novembre 2011

Nina ti te ricordi (una Venezia che non c'è più)



Attraverso le tende della camera da letto filtrano i raggi di una giornata di sole fantastica dopo una settimana di quei nebbioni impenetrabili che qui a Venezia ti intridono le ossa di umido e malinconie più ancora delle acque alte novembrine e che quando sei in piazza San Marco non riesci nemmeno a vedere il campanile. Invece, il vento di borìn (la bora triestina che attraversando rabbiosa le tante miglia di mare arriva qua da noi sfinita) fischiando tra i rami dei platani per tutta la notte, le nebbie le aveva spazzate via come i brutti sogni e ci aveva regalato una di quelle mattine tanto luminose e terse che dietro i profili delle ciminiere di Marghera si vedono le montagne del Cadore già innevate. Dunque, macchina fotografica a tracolla, una “gorgeous” compilation di brani unplugged nell’iPod per farmi compagnia durante il viaggio in autobus sino a Piazzale Roma e poi via per le calli e i campielli silenziosi che solo un veneziano conosce e che tiene rigorosamente nascosti alle masse dei turisti (da sempre ammucchiati nel triangolo delle Bermuda tra San Marco, Rialto e i Frari).



Il modo migliore di capire Venezia è girarla senza meta per i suoi quartieri 


Siccome è una mia tradizione irrinunciabile, come l’ascoltare in piedi e con la mano sul cuore la Radetzky March del concerto di Capodanno da Vienna, anche se sono appena passate le nove mi concedo una breve sosta ristoratrice al “bacaretto” da Lele, un minuscolo e rustico localino in fondamenta dei Tolentini, dove gli unici tavolini disponibili sono le due botti all'esterno e a qualsiasi ora del giorno devi sgomitare duramente tra nugoli di affamati studenti del vicino IUAV per raggiungere il bancone e mangiare in piedi una croccante francesina con la soppressa trevigiana o il salame all’aglio di Schio tagliato grossolanamente a mano e buttarla giù con un fresco rosso “de casada” (un rabosetto asprigno il giusto) spillato direttamente dalla damigiana impagliata. Un posto dove potresti rimanere in piedi anche sollevando i piedi da terra da tanta gente che c’è. Infatti, la cosa migliore è arraffare il panino e il bicchiere, pagare e finire lo spuntino seduti sulla balaustra del rio a chiacchierare con qualcuno che non conosci. Come quando da ragazzi ci si sedeva ai tavolini dei bar chiusi nei campielli e si stava a discutere allegramente di tutto (politica, amori, film…) fino a tarda notte, con gente mai vista prima e poi magari qualcuno proponeva il “Venite su da me che ci facciamo un risottino o due bigoli in salsa d’acciughe”. Venetian way of life, temo irripetibile altrove…



Il Rio dei Tolentini e il minuscolo baretto da Lele 


Faccio così, saluto i due giovanotti (lei carinissima) che ce l’avevano con i prezzi degli affitti a Venezia (gli offro un altro giro di ombre per consolarli) e poi via di buon passo lungo la fondamenta del Gaffaro verso i Frari, San Polo e poi Rialto, per poi virare a caccia di immagini per il rio della Misericordia e sant’Alvise, seguendo un percorso lungo la spina dorsale della città, che vorrebbe essere anche un viaggio nelle mie memorie più antiche. Invece, ancora una volta, dopo tanti anni di lontananza, osservo come la Venezia dei miei ricordi abbia cambiato pelle, tanto che la riconosco a fatica. Non è più mia. E’ un’altra cosa…



Dolci mai visti prima in 10 secoli di storia veneziana 


I negozi una volta erano punti di riferimento per il vivere quotidiano, tanto che potevi dire ad un amico: "Ci troviamo davanti a Marforio, da Rosa Salva o da Barera" e di sicuro nessuno si sarebbe sbagliato. Oggi i negozi che aprono, chiudono e ancora riaprono sempre più rapidamente ormai sono quasi sempre o di calzature e jeanserie per il turismo mordi e fuggi, oppure di maschere, souvenir e varia paccottiglia in vetro. Tutta roba che propone un'immagine stereotipa della città, e che – non me ne vogliano i proprietari - l’immiserisce in una banalità senza limiti, come quegli agghiaccianti “pani dei Dogi” color verde pistacchio e traboccanti mandorle a imitazione di pampepati e simili, comparsi da qualche anno nelle vetrine per i gonzi che credono siano davvero un nostro dolce tradizionale. Immagino che qualche secolo fa i Siori de la notte al criminal, avrebbero disposto il taglio delle mani al fornaio che lavorando nottetempo ricadeva sotto la giurisdizione di quel tribunale di nobili incappucciati competenti per i crimini commessi dopo il tramonto e fino all'alba, tra il plauso generale.

Sono scomparse da tempo le botteghe più antiche, quelle con una storia da raccontare e non solo. Per esempio, non ci sono più i cinema dei nostri amori giovanili e in tutta la città, che pure ospita la Mostra del Cinema, è rimasto solo il vecchio Giorgione, oggi ristrutturato in sala multiplex. Sono spariti quelli più eleganti, come Il San Marco, dove avevo ricevuto il bacio imprevisto di quella Elena che pensavo fosse venuta al cinema per mettersi con il mio amico Emanuele che le sedeva a fianco e invece… 



Improbabili damine e damerini ad uso turistico 


Un’agenzia di viaggi (se non è cambiata ancora) ha preso invece il posto dell’Olimpia, che quando c’era l’acqua alta in piazza, andava sotto anche lui e poi per giorni le poltroncine vellutate erano umide e odoravano di salso ed è scomparso anche il Rossini, dal bel lampadario di Murano che illuminava l’atrio e la grande vetrata dell’ingresso, dove una sera rischiai di rimanere chiuso dentro con Donatella e fummo liberati dalle donne delle pulizie (con relativi commenti indelicati perché non avevano creduto al fatto che ci fossimo addormentati). Ma hanno chiuso i battenti anche quelli più modesti, dove si andava da studenti a vedere i film in seconda visione o il cinema d’essai, come il Progresso, il Moderno, l'Ita­lia (un bell’edificio liberty), il Massimo, il Ritz, il Savona, il Nazionale e il misero Garibaldi, dove i film erano tutti graffiati e vecchissimi, i marinai in franchigia dall’Arsenale ci portavano le morosette a pomiciare, con i sedili in legno che cigolavano orrendamente e dove una sera avevo intravisto nella penombra della sala una mamma che faceva fare pipì al bambino contro il muro per non perdersi la scena.

Non ci sono nemmeno più il civettuolo Santa Margherita, dove si andava come carbonari a vedere il teatro di Dario Fo con la polizia politica a prendere nota in campo, ed il glorioso Accademia frequentato dalle più belle studentesse di Cà Foscari e meta costante delle mie (non sempre infruttuose) battute. 



Sottoportego dell'Abbazia (e una persona a me ben nota) 


Hanno finito la loro storia unica anche la libreria Tarantola in campo San Luca, che ha fatto scoprire a noi giovani veneziani sessantottini affamati di letture dopo la lunga notte democristiana autori tanto affascinanti quanto all’indice (Bakunin, per dirne uno…) e quella del vecchio Filippi, in calle del Paradiso, una sorta di antro delle streghe, polveroso e incasinato ma odoroso di libri ingialliti e inchiostri da stampa (era anche un piccolo ma raffinatissimo editore) e con il piacere delle lunghe discussioni politiche e letterarie con quel bastian contrario (dal cuore d’oro) del proprietario che poi, anche quando diventavano accese, finivano sempre a ricomporsi davanti ad un’ombra di bianco nel bar di fronte. 

Da bambino, quando accompagnavo mia madre a fare la spesa al mercato di Rialto, ero molto affascinato dalla drogheria Bernach, in campo S.Bartolomeo, tutta scura come una vecchia farmacia e odorosa di liquirizia, zenzero, zafferano e frutta candita. Bernach aveva delle straordinarie caramelle al miele, vera e propria panacea contro la tosse, tanto che io, pur di farmele comprare, non esitavo a tossicchiare un po’ più del lecito, soprattutto se in transito da quelle parti. Vi si trovavano anche le gustosissime scarpette di liquirizia e le violette candite, dal languido profumo. In un angolo del negozio erano invece adagiati dei grandi sacchi di juta traboccanti di granaglie che qualche piccione più ardimentoso veniva talvolta a sbeccottare, sfidando il grosso soriano grigio del proprietario.



Luci nel canale 

Il commesso era un signore anziano, molto gentile, ve­stito con un camice grigio azzurro sempre stirato impeccabilmente. Affondava un cucchiaio di legno (una sessola) nei grandi boccioni di vetro ordinatamente allineati sugli scaffali e pesava caramella per caramella su di una bilancina a piatti, aggiungendo e togliendo i pesi (e le caramelle) fino al perfetto equilibrio. Poi, giacché ero un bambino educato che non faceva fretta alla mamma, al momento di uscire dal negozio ero gratificato, con asburgica puntualità, di una cordiale arruffata di capelli e di una rotella di liquirizia (quelle con lo zuccherino colorato in mezzo.). 



Il barcone che porta ancora la verdura da Sant'Erasmo 

Cento metri più in là c'era un bar che, se non ricordo male, mi pare si chiamasse Caffè Rialto. Il bello del posto era costi­tuito soprattutto da una colonna a centro sala, proprio di fronte al bancone, tutta ricoperta di tesserine di vetro, che consentiva al sottoscritto un vasto campionario di smorfiette e boccacce intanto che i genitori prendevano l'aperitivo servito da solerti camerieri in giacca rossa con i bottoni dorati. Dietro una balaustra liberty si intravedeva la saletta superiore con i civettuoli tavolini con le zampe di ghisa e le seggioline di velluto cremisi.

Poi c'erano i fritolini, che ti consegnavano per poche lire uno scartoccino di carta da macellaio ricolma delle più croccanti e asciutte fritture di pesce che abbia mai assaggiato. E c'era in Calle della Bissa una latteria vecchietta con tavoli e cucina che d’inverno sfornava piattoni bollenti di minestra di trippa rissa, come anche all’Antico Dolo in Ruga Rialto (questo locale esiste ancora). E per le calli si aggiravano, con le loro ceste di vimini profumate di mare e il grido caratteristico (donèe! Vardè che bèi!) i Pellestrinotti e i Marinanti (quelli di Sottomarina) a vendere cape, moèche, masanete, sardèe, sardoni, caparòssoi e caragòi. 

Tutte cose buone oggi proibitissime per via delle normative igieniche, anche se a me torna in mente quel vecchio malgaro del monte Grappa che, intervistato da Linea Verde sul fatto che la Ue intendeva vietare la produzione del formaggio Bastardo e del Morlacco dato che le vacche degli alpeggi venivano munte a mano, aveva bofonchiato con saggezza antica: “Un po’ de merda de vaca nel secchio del latte non la ga mai copà nissuni…”.


(continua...)

giovedì 17 novembre 2011

Sturmtruppen

In Czech Republic …”
Ormai questo incipit, da pronunciarsi con l’aria severa, è diventato il tormentone di casa nostra e mia moglie Morena ed io vi facciamo spesso ricorso per strapparci vicendevolmente un sorriso. Tutto questo grazie a Katerina (detta anche Katkùte, ovvero: Caterinetta) che è l’attuale ragazza del nostro Gianmarco. Una gran bella figliola di Brno conosciuta dal figliol prodigo lo scorso inverno durante l’Erasmus a Vilnius, in Lituania, dove lei stava finendo la sua tesi di laurea. 

Mia moglie ed io, pensavamo incautamente che si trattasse della classica cotta estiva, ma in versione quaranta gradi sottozero e supportata generosamente dalla Vodka. Dunque una passione che si sarebbe dissolta appena fuori dal settore arrivi dell’aeroporto o con due aspirine e una bella dormita. Inoltre, lei era tornata in patria due mesi prima di lui e dopo pochi giorni da quando si erano messi assieme con un vero coup de foudre, quindi eravamo certi che con tutte le fanciulle "disincantate" che giravano per l’ostello universitario di Vilnius e le nottate di studio in discoteca a cui il nostro erede si sottoponeva assiduamente, avremmo avuto presto altre novità. Invece, avevamo sottovalutato il fatto che -  va bene che a vent’anni quando sei innamorato fai questo ed altro - ma se uno, tra andata e ritorno, si sciroppa quaranta ore di pullman attraverso la Polonia d’inverno e le sue strade da incubo con mezzo metro di neve per recarsi a Brno a trovare la donna amata per due soli giorni, la cotta era di quelle brutte, che avrebbero avuto un seguito.
Katerina in versione Lara Croft


Infatti, così è stato e ora, a mesi alternati, lui si reca a Brno una quindicina di giorni a casa di lei e poi tocca a lei essere nostra ospite per lo stesso periodo. Katerina parla quattro lingue, tra le quali il lituano e il finlandese (immagino solo per masochismo) e si esprime in un eccellente inglese, dunque conversiamo senza troppa fatica. Mia moglie ed io dopo il primo reciproco impatto (diffidente) di studio con l’aliena mitteleuropea ne siamo rimasti ammirati perché la ragazza si è rivelata subito tanto carina, educatissima, rispettosa e disponibile. Sarebbe dotata anche di due stupendi occhi verdi, ma lo dico sottovoce altrimenti l’arciera elfa mi guarda di traverso e va in garage a prendere l’arco da gara con le frecce in carbonio, con le quali sostiene di potermi passare da parte a parte a cento metri di distanza e non mi va di scoprire se stia bluffando o no.

L’unico problema è che con Katerina (che per tutto il resto è adorabile) è arrivata in casa nostra una ventata (una raffica di bora) di quella mentalità militare asburgica di cui la ragazza, essendo Brno ad un tiro di schioppo da Vienna, è permeata dalla testa ai piedi. Praticamente, senza saperlo, abbiamo introdotto in famiglia un carro armato Skoda della divisione corazzata Pavel Nedved.

Il primo sintomo lo abbiamo notato quando nostro figlio dopo una settimana ci ha informati rispettosamente, come il buon soldato Schwejk, che Katerina era triste perché non era abituata ad essere ospite “sic et simpliciter” ma voleva sentirsi parte della famiglia lavorando in casa, perché da loro si usa così. Gli occhi di mia moglie hanno lampeggiato compiaciuti e la ragazza ha acquistato subito 100 punti bonus nella sua stima anche perché le ha rivelato candidamente come Gianmarco faccia lo stesso quando è ospite da lei e dunque il principino incauto è stato subito condannato a stirarsi le camicie e a lavare periodicamente i piatti, il bagno e il pavimento della cucina. Ma non solo…

quello che da lei striglia anche i cavalli e qui invece...

Dopo averci rivelato che la signora moldava che viene a fare le pulizie una volta a settimana se la prende comoda perché basterebbe passare un dito su un mobile per vedere che non spolvera come dovrebbe e dice di fare, Katerina si è subito calata nella parte dell’ “ospite operativa” ed essendo una giovane discendente dall’impero austroungarico lo ha fatto con lo stesso rigore che ci avrebbe messo il suo Kaiser Franz Josef.

Infatti, facendole precedere ogni volta dalla frase “In Czech Republic …” per darci subito il modello di riferimento, ha iniziato una serie di azioni per correggere almeno nella nostra famiglia la mediterraneità, l’approssimazione e quel gusto dell’improvvisazione tipicamente italiano che le risultano incomprensibili, a partire dal fatto che noi si abbia oltre 500 tipi di formaggi, altrettanti di salumi, un centinaio di varietà di pasta e perfino due diversi tipi di polenta (però mangia tutto di gusto).

Per resistere all’invasione ho provato a farle presente a mia volta che “in Italian Republic…”, ma non suonava altrettanto minaccioso. Così nel giro di poche ore, dopo averlo classificato "criticità di primo livello", ci ha rimesso in ordine il frigorifero, che ora sembra vuoto da tanto ogni cosa è stata sistemata razionalmente, a tal punto che esito a prendere il latte o l'insalata per non sciupare quel meraviglioso equilibrio. Purtroppo, nel suo slancio purificatore mi ha buttato via una toma stravecchia della val di Lanzo che tenevo come una reliquia, in quanto “In Czech Republic …” non si tiene nel frigorifero roba ammuffita e puzzolente, ma la perdono per amor filiale. Poi è stata la volta della dispensa, della camera e dei cassetti di mio figlio, che ora presentano tutti i calzini perfettamente allineati per colore da una parte e le mutande dall’altra, schierate come un plotone di soldati, tanto che quando apri il cassetto della biancheria ti viene voglia di ordinare: “Riposo!”.

Subito dopo è toccato anche al bretone, che sperava ingenuamente di farla franca ignorando che “In Czech Republic …” Katerina ha un cane di nome Monty che è addestratissimo, tanto che mi ha chiesto perfino l’amicizia su Facebook. Infatti, il mio file casereccio “Educazione del cane 1.0” è stato immediatamente sovrascritto dal suo “Ausbildung der Hundes 2.0” in lingua tedesca perché gli ordini vengono meglio. Dunque, al posto dei miei “Seduto! …Andiamo! …Torna! ” ora mi tocca dire “Sitzen!  Komm! Zurück!” (però funziona). Anche il “Brutto!” che usavo per sgridare è stato sostituito da ”Pfui!”, così che ormai nei dialoghi con mia moglie il cane è diventato “il Pfui” (“hai portato fuori il Pfui?”). Che mi ricorda tanto l’Adenoid Hinkel di Chaplin.

Monty, il cane di Katerina, è ormai ad un alto livello di addestramento.

Alla fine, come temevo, la blitzkrieg è sconfinata sui fornelli  e  appena si è accorta inorridita che mettevo la passata di pomodoro nel goulash (ho provato a giustificarmi di tanto sacrilegio dicendole che intendevo fare uno spezzatino, ma non mi ha creduto) è iniziata anche la mia educazione alla gastronomia della “Czech Republic“ (che non è affatto male) e quindi la volta successiva è comparsa in cucina una confezione di paprika grande quanto un proiettile d’artiglieria da 150 mm, tanto per farmi capire quale fosse l’ingrediente giusto. Poi si è messa la traversina, si è impadronita di pentole e fornelli e nonostante le nostre “brambory” (patate) non fossero neppure lontane parenti di quelle della “Czech Republic “ e per una mancanza inspiegabile qui non si coltivino le loro carote bianche e un misterioso tipo di sedano (la fruttivendola la guardava smarrita) ci ha spiattellato delle vere delizie, tanto che ormai mia moglie Morena ha riscoperto il piacere dei fornelli e si diletta a preparare assieme a lei delle profumatissime polèvka (zuppe) d’aglio, knedliki (canederli) di pane con le prugne, Bramboraky (frittelle di patate e pancetta), sontuosi involtini con i cetrioli sottaceto e torte con la crema di nocciole e i semi di papavero, affrontando  serenamente il rischio di metter su qualche chilo di troppo perché siamo sicuri che prima o poi salterà fuori qualche dieta rigorosa della “Czech Republic “ per rimetterci in riga.

Involtini ripieni di prosciutto, uovo sodo, cetriolo sottaceto
e cipolla, salsa di pancetta affumicata.

Ieri sera abbiamo accompagnato Katerina alla stazione degli autobus (tornerà da noi ai primi di gennaio dopo che Gianmarco avrà trascorso il capodanno da lei) e devo dire che forse sarà la malinconia delle partenze o l’effetto dell’abbraccio affettuoso e dei bacioni (con lacrimuccia) che ci ha stampato sulle guance, ma la casa ora ci sembra più vuota. Così, questa mattina, mentre facevamo colazione Morena mi ha scrutato in modo strano e prima che potessi pensare che magari mi aveva chiesto di svuotare la lavatrice e mi ero dimenticato di farlo, mi ha detto: “Visto che ti lamenti che stiamo sempre a casa, che ne dici se questa primavera andiamo a fare un giro in Czech Republic? “ facendomi cascare per la sorpresa il biscotto con la marmellata nel caffelatte (il bretone ha abbaiato contento).

lunedì 14 novembre 2011

Qualcosa di me

Sabato 27 marzo 2010 avevo aperto il mio blog su Splinder. Lo avevo fatto un po' per curiosità professionale (da uomo di comunicazione non potevo mica esimermi) e molto per le insistenze di mio figlio che voleva strapparmi alle malinconie esistenziali di una fase delicata della mia vita. Siccome lui è un tipo tosto che ti rompe le scatole sino a che non ottiene quello che vuole, ha vinto per sfinimento le mie resistenze e mi sono rimesso a scrivere, appassionandomi a tal punto che alla fine, puntata dopo puntata, ne è uscito fuori un altro libro. Ma, cosa ancora più piacevole, ho incontrato sul blog delle bellissime persone, alcune delle quali ho potuto anche conoscere di persona e che oggi fanno parte della mia cerchia di amici più cari. Purtroppo, in questi giorni Splinder sembra avviato malinconicamente alla chiusura, perciò ho deciso di iniziare una nuova vita da blogger su Blogspot e, visto che quando si entra in una nuova comunità è buona norma presentarsi, ho pensato di riproporre come primo post quel che avevo raccontato di me allora, dal momento che mi aveva portato fortuna. Dunque...

Mia madre mi mise al mondo nel suo letto e senza pena eccessiva, tranne un urletto finale per la platea (almeno così si raccontava nelle leggende di casa...), alle undici di sera del 12 ottobre 1948, in quel di Venezia.


Non ho ovviamente particolari ricordi dell’accaduto, ma, come in seguito mi fu raccontato, rischiai seriamente di nascere al cinema Malibran, dove la mamma, che era andata a vedere un film di Totò, rise tanto da farsi venire le doglie. Nacqui comunque in casa, come si usava allora, e, come mi fu detto in seguito con malcelato orgoglio, di più di cinque chili e con la camicia, cosa questa che secondo le credenze popolari mi avrebbe assicurato un radioso futuro (resto fiduciosamente in attesa…). Mio padre e il nonno, in un’irripetibile comunanza d’intenti, si erano appartati al piano di sopra a fumare e bere qualcosa, tanto per vincere la tensione, e scesero giù solo a cose fatte.

Nella casa veneziana dei miei nonni, a S. Lio, di fianco al Ponte delle paste, oltre ad esserci nato, ho trascorso anche gran parte della mia infanzia ed ancora adesso, quando sono in giro per Venezia e ci passo davanti, è difficile che non mi fermi a darle una malinconica occhiata. Anche perché se chiudo gli occhi e lascio andare la fantasia vengo ancora inesorabilmente rapito dai profumi di rhum e zabaione della minuscola pasticceria Rudatis in cima al ponte e dall’odore acuto degli inchiostri della Tipografia Commerciale che mi viene incontro dalla calle, assieme al pulsare delle macchine. E finisco così per inebriarmi di sensazioni e ricordi antichi, poiché quasi nulla appare cambiato da allora.

Il problema è che in the frattemp (come diceva un mio collega orgoglioso del suo inglese molto cheap) sono cambiato io…

Tra amori agitati, mogli (due) figli (uno e splendido ventenne giramondo) passioni politiche, lavori in giro per il mondo e qualche acciacco imprevisto, gli anni e gli eventi mi sono corsi addosso come l’onda travolgente di una piena ed è giunta l’ora di aggrapparsi da qualche parte e di parlarne serenamente con gli amici. Sono pronto…