martedì 24 dicembre 2013

Auguri a tutti e arrivederci nel 2014

Carissime lettrici e lettori del mio blog, un grazie per la simpatia con cui continuate a seguirmi e tanti auguri per uno strepitoso 2014 con affetto e un abbraccio da tutti noi, bretone compreso. Sperando di riuscire anche per il prossimo anno a donarvi qualche sorriso con le nostre piccole storie e i ricordi di vita quotidiana e veneziana.


domenica 15 dicembre 2013

Cronache natalizie e di fine anno di un viaggiatore avventuroso suo malgrado.


Va bene, ormai ci siamo. La mattina c’è una nebbia gelida che ti si appiccica sul viso neanche fosse neve, per strada si scivola sul ghiaccio che ci vogliono gli scarponcini da montagna e la signora della casa di fronte ha appeso alla ringhiera del balcone la monumentale luminaria con Babbo Natale e le sue renne che di notte illumina ritmicamente la nostra camera da letto di luci rosse e azzurre, neanche fosse uno di quei TIR bulgari che incontri in autostrada. Dunque, tra qualche ora tirerò giù nuovamente l’albero di Natale dal suo ripostiglio e inizierò la lunga e sofferta opera di addobbo tra cavi attorcigliati in un nodo gordiano di lucine cinesi che poi non si accenderanno, palline azzurre, argento e oro regolarmente senza il gancetto per appenderle, la punta in cima che non ne vuole sapere di stare dritta, il bretone che continua ad annusare la base dell’albero con atteggiamento sospetto e lo sguardo severo dell'elfa in stile: “se non sei capace togliti e fai fare a me, che ti sta venendo un orrore…”. 

In tutto questo ho pensato che sarebbe stato bello scrivere un post in tema con le prossime festività e qui è iniziato il dilemma perché volendo risparmiare agli amici che mi leggono le solite tiritere retoriche e buoniste sul Natale e l’anno nuovo, che quelle le trovi da qualsiasi parte anche con poesia di Alda Merini incorporata, pensavo di raccontare qualche storia insolita e magari divertente. Il fatto è che avendo ormai diverse primavere alle spalle ho anche diversi Natali e capodanni da raccontare (...ma va?) e alcuni pure movimentati a dovere, ma proprio per questo non sapevo decidermi su quale scegliere. Potevo - che ne so? -  citare il Natale del trifulone piovuto miracolosamente dal cielo proprio alla vigilia, quando parlando con la nostra vicina di pianerottolo che era la simpatica e napoletanissima moglie di un colonnello della Guardia di Finanza mia mamma aveva appreso che tra i doni ricevuti dal marito c’era una specie di patata puzzolente che la signora non sapeva se buttare in spazzatura o meno. Così, essendo mia madre di Canelli, a mezza via tra Langhe e Monferrato, aveva subito intuito di che si trattasse e con un abile riflesso viperino si era offerta di provvedere gentilmente allo smaltimento della suddetta patata maleodorante liberando la nostra vicina dall’incomodo. Così il giorno del pranzo di Natale era apparso sulla nostra tavola un tartufo bianco di Alba (la trifula) grande come una palla da tennis, paradisiaco arricchimento per giorni di risotti e uova strapazzate. Potevo in alternativa dire di quel capodanno a Cortina quando un gruppo di incauti amici che volevano festeggiare l'anno nuovo con una polenta e salsiccia in una malga sperduta dalle parti della frazione di Alverà ci avevano affidato il compito di portare le bottiglie di champagne. Avendo indicazioni abbastanza vaghe su come si raggiungesse il posto, alla fine Donatella, io e i due amici che erano in macchina con noi ci siamo persi tra stradine che portavano in mezzo al nulla e tra cumuli di neve. Così a mezzanotte in punto per vincere il freddo e in spregio alla sorte avversa che ci impediva di compiere la nostra missione abbiamo stappato in macchina le bottiglie e dato luogo ad una delle più colossali bevute di  Moët & Chandon della storia, anche se, con una chiara caduta di stile, dovemmo berlo deplorevolmente a canna per la mancanza di flute (non chiedetemi come abbiamo fatto poi a tornare in albergo perché ricordo solo che eravamo tanto, ma tanto allegri).

Quando a Natale ci si divertiva con cose semplici

Magari avrei anche potuto raccontare di quel capodanno triste, solitario y final con tanto di strade e treni bloccati da metri di neve e struggente telefonata interurbana di auguri a moglie e figlio, trascorso al Roxy Hotel di Campobasso (che almeno Vasco Rossi si trovava come le star al Roxy Bar, che di certo era meno desolante) grazie ad un genio sabaudo che aveva messo in programma una mia docenza dal 27 al 30 dicembre, ignorando che in Molise quando nevica lo fa sul serio. Oppure, sempre in tema di capodanni solitari in albergo, citare quello vissuto molti anni prima all'Hotel Rosetta di Perugia, avendo colpevolmente ignorato il principio che non bisognerebbe mai litigare e lasciarsi con la propria ragazza il giorno prima di partire per le vacanze e quando hai già prenotato e pagato un’ intera settimana di soggiorno, ma tanto meno ruggire di virile orgoglio e dirle in tono di sfida: “Guarda che non ho bisogno di te, a Perugia ci vado benissimo da solo, non ti preoccupare” perché poi ti tocca farlo davvero se non vuoi perdere la faccia. Ma siccome a volte la sorte gira in positivo le sconfitte quando meno te lo aspetti, l’ultimo dell’anno ero già in camera dalle dieci, rintanato sotto le coperte a leggere un libro giallo con solo il pessimo umore a farmi compagnia quando alcuni minuti prima della mezzanotte suonò inatteso il telefono. Era il portiere che, essendo io l’unico cliente sfigato rimasto in albergo (ma dai?), mi proponeva di scendere giù nelle cucine dove il personale avrebbe stappato qualche bottiglia in allegria e aperto dei panettoni per festeggiare l’anno nuovo. Mi vestii in un lampo, scesi da basso e passai una serata simpaticissima, finendo perfino a cantare in coro delle canzonacce in dialetto umbro che purtroppo oggi ho dimenticato.


Eccomi in live concert a bordo dell'Ausonia, con una delle rare sigarette della mia vita.

Sempre rimanendo in tema di capodanni insoliti passati in viaggio ne avrei certamente da raccontare alcuni tra quelli trascorsi in navigazione, quando appena iniziata l’università non avevo trovato nulla di meglio per evitare di studiare che suonare con il complesso rock di cui ero chitarra solista a bordo delle navi dell’Adriatica come orchestra della classe turistica. D’estate si navigava sulla rotta per il Mar Nero a bordo dell’Ausonia che era l’ammiraglia della società. Una nave moderna, dotata di ogni comfort ed era un gran bel vivere, anche perché in classe turistica le belle figliole nostre coetanee si contavano a pacchi. Le crociere a bordo dell’Ausonia si svolgevano però solo tra luglio e agosto. D'inverno navigavamo, invece, a bordo dell’Esperia, una vecchia carriola rugginosa, semi-affondata a Trieste, rimessa a galla dopo la guerra e restaurata alla buona, soprattutto per quanto riguardava le caldissime e rumorose cabine interne di classe turistica dove alloggiavamo. La chiamavamo la Caienna, e non senza buoni motivi. Caratteristica dell’Esperia era quella di essere stretta e lunga e quindi di ondeggiare paurosamente con il mare al traverso. Prerogativa, questa, che era messa ancor più in risalto dal fatto di essere una delle ultime navi da crociera al mondo a non possedere uno straccio di aletta anti-rollio. E la cosa, per l’appunto, si notava parecchio. Pertanto l’Esperia era la nave ideale per godere di robusti mal di mare costituendo un opportunità davvero imperdibile per un appassionato del genere.

Gerusalemme sotto la neve (1973)

A questo si aggiunga che, essendo Genova il suo porto di partenza e arrivo per puntare verso Barcellona e Maiorca, durante il primo e l’ultimo giorno di crociera proprio quando si svolgevano le feste per il cenone di Natale e il veglione di capodanno, l’ Esperia transitava inevitabilmente nel Golfo del Leone. Ora, esistono al mondo alcuni posti fetenti dove se ci passi in nave puoi essere sicuro di ballare come un turacciolo in qualsiasi giorno dell’anno. Questi sono: Capo Horn, Il Capo di Buona Speranza, le Bocche di Bonifacio, Capo Matapan e il Golfo del Leone. Noi, per l’appunto, si ballava come turaccioli due volte a viaggio. La cosa funzionava così. Si partiva dal molo Garibaldi verso le due del pomeriggio, con la musichetta della banda, i ciao-ciao con la manina, i coriandoli, le stelle filanti e con il mare liscio come l'olio. Per le prime due/tre ore di navigazione i passeggeri, emozionatissimi e festanti, si aggiravano per la nave prendendo possesso delle cabine e curiosando in ogni locale disponibile (ivi comprese le sentine e lo sbratto di cucina). Noi si aveva il nostro bravo daffare a tenere a bada i bambini che venivano a curiosare tra gli strumenti (Lele ingaggiava vere e proprie zuffe per scacciare gli aspiranti batteristi e preservare le sue bacchettine...) e i soliti perdigiorno che volevano sapere seduta stante i titoli di tutte le duecento e passa canzoni del nostro repertorio per vedere se sarebbero state di loro gradimento. Verso le otto si aprivano le porte della sala dei buffet e la gente già in coda famelica dalle sette si avventava ad ingozzarsi di tutto quello che trovava, purché unto e bisunto. Nella corsa affannosa ai vassoi del cibo si vedevano scorrettezze plateali, con spintoni, tirate di giacca e gomitate da espulsione. L’epicentro degli scontri era soprattutto davanti ai branzini con la maionese e alle aragoste in bellavista. Anche il prosciutto di cinghiale tagliato a mano e la porchetta in crosta esigevano solitamente un alto tributo di sangue. Si vedevano madri in preda a crisi d’isterismo mandare avanti i bambini (intanto che papà prende i piatti e le posate...) con la stessa risolutezza con cui Napoleone muoveva i suoi battaglioni ad Austerlitz: "tu Paolino dirigiti alle insalate! Mariangela punta ai risotti! Giulio... vedi se riesci a conquistare la zuppa inglese...e tieni la posizione che mamma arriva con i piatti! ". Tutto questo nell'illusione che l’agile corporatura dei figli li agevolasse ad intrufolarsi nella calca e rischiando invece seriamente l’estinzione della prole perché in tali frangenti e sotto tutte le latitudini: "pietà l' è morta!"

Girando nel bazar di Gerusalemme ( 1973 )

Immancabilmente c'era chi, in preda a fame atavica, tentava di riempirsi il piatto perfino di parti delle sculture decorative in margarina surgelata raffiguranti il dio Nettuno e le Naiadi, provocando lo sdegno dello chef. Quasi tutti poi, temendo di restare senza cibo o di non riuscire più a condurre un secondo assalto con successo, dimentichi di essere nella vita di tutti i giorni dei raffinati ed esigenti gourmet, infilavano nello stesso piatto il roast beef, la zuppa di cipolle, i tortellini con la panna, le melanzane al funghetto e l’ananas al maraschino. Altri mangiavano direttamente davanti al vassoio duramente conquistato (fosse anche quello delle cipolle in agrodolce...), senza neppure ritornare al proprio tavolo. E, soprattutto, si ingurgitavano litri di bevande gassate e di spumanti, che costituivano degli ottimi propellenti. Alle nove, spazzolate anche le ultime briciole e sorbiti i caffè e gli amari, si aprivano finalmente le danze, con l'Esperia intenta ad un grazioso dondolio...

Poi la nave, verso le dieci, cominciava a beccheggiare sempre più sensibilmente e noi dal nostro palco vedevamo le signore e i signori in abito da sera diventare dapprima verdognoli e poi, attraverso varie sfumature, di un bel grigio plumbeo. Si vedevano le prime coppie abbandonare a precipizio la sala. Verso le undici, riuscivamo a suonare solo tenendo ferme le aste dei microfoni con le gambe e dopo aver assicurato con le corde alle colonne del salone gli amplificatori e il pianoforte a coda. Intanto, i camerieri accorrevano di gran lena con la segatura in varie parti della sala. Verso mezzanotte era tutto finito. La sala era deserta e i corridoi pullulavano di gente elegante in coda davanti alle latrine. Fino all’alba si aggiravano per la nave rari zombie verdognoli, mentre dalle cabine si levavano gemiti lamentosi. La mattina dopo, a tavola facevamo la conta dei superstiti e, soprattutto, vedevamo scorrere esclusivamente litri di brodino. Noi ci salvavamo grazie al fatto che ci nutrivamo di cose secche, senza bere alcunché e che prendevamo il Valontàn, anche se Emanuele sosteneva che il nome del farmaco derivava dal fatto che ti consentiva di non vomitare in cabina, bensì qualche decina di metri più in là.

Al Muro del pianto di Gerusalemme: un solitario sotto la nevicata (1973)

Avevo deciso di terminare qui il post ma poi ho letto che in questi giorni ha nevicato copiosamente sia al Cairo che a Gerusalemme e allora mi è tornata in mente un'altra avventura piuttosto insolita e con un bel brivido non solo di freddo che ho vissuto nei giorni attorno al Natale del 1973. Le foto che illustrano il post sono alcune tra quelle che ho scattato in quel viaggio. Ovviamente non spaventatevi: sono ancora qui a raccontarvela, dunque è finita bene.

Anche questa volta si trattava di una crociera invernale sulla navi dell'Adriatica (ma a bordo della minuscola Messapia) che feci una volta tanto in veste di passeggero su precettazione materna con l'ordine tassativo di fare da baby sitter a mio fratello Franco e un suo compagno di classe, tale Giovanni, che mi stava cordialmente sulle balle per via delle sue simpatie politiche di destra, quindi antitetiche alle mie. Sbarcati ad Haifa dopo la consueta tappa al Pireo per la visita di Atene e del Partenone ci imbarcammo su di un pullman granturismo ed iniziammo un tour di tre giorni per tutta Israele. La guerra del Kippur era finita dal mese di ottobre (per quello l'escursione aveva prezzi stracciati alla nostra portata) e dappertutto si respirava una tensione fortissima. Sul lago di Tiberiade pranzammo con gli spinosissimi pesci di S.Pietro, che ne giustificavano senza dubbio la santità, in un albergo enorme e deserto perché il gestore ci spiegò sconsolato che i Siriani, pur arretrati dalle alture del Golan, ogni tanto sparacchiavano ancora qualche colpo d’artiglieria dimostrativo che per mancanza di gittata finiva in mezzo al lago sollevando alte colonne d'acqua. Ovviamente i già scarsi turisti non erano propensi a credere che non ci fosse alcun pericolo. Anche sulle rive del Mar Morto lo scenario non cambiava e a parte noi e gli equipaggi di due mezzi blindati intenti a far toeletta e a sgranchirsi le gambe (uno dei carristi, incurante della nostra presenza, orinava tranquillamente contro i cingoli del suo mezzo) non c'era anima viva ad aggirarsi tra gli sparuti chioschi e negozietti di souvenir. Questo, assieme al colore fangoso dell’acqua e all'aspetto da pietraia della spiaggia, accresceva il senso di desolazione del luogo. Sicuramente di maggior soddisfazione era il versante del paese che dava sul deserto del Neghev (un mare affascinante e senza fine di montagne e sabbie grigio-rosse, attraversato dagli aliti di un vento freddo e odoroso di sterpaglie). Anche lì, però, la violenza della guerra appena finita era ricordata da alcune carcasse d’automezzi anneriti ai lati della pista e da chilometri e chilometri di fortificazioni, postazioni di mitragliatrici, antenne radar e reticolati fittissimi. Nel cielo sfrecciavano in continuazione, lasciando lunghissime scie bianche i Phantom e i Mystère con la stella di Davide. In tutti i luoghi santi dei vari culti sostava sempre un blindato in assetto di guerra e spesso e volentieri ti facevano aprire le borse ed eri perquisito accuratamente.

Incontri sulle rive del Mar Morto (1973)
In questo clima non troppo rassicurante arrivammo verso sera a Gerusalemme dove stava scendendo da ore una copiosissima nevicata. Il che non era poi una cosa tanto insolita per una località che, anche se pochi ci pensano, è a 760 metri d’altitudine. Sarebbe bastato ricordarsi la storia della nevicata di duemila anni fa, della grotta di Betlemme e del bue e dell’asinello per comprendere che a volte da quelle parti d’inverno fa freddo come in Val di Fassa e quella era una delle volte. Per colmo di malasorte, ci avvisarono (dopo una frugale cenetta kasher a base di yogurt, cipolle e cetrioli) che, per un disguido dell’organizzazione e per via di un volo charter che non era partito per la neve, nel nostro albergo non c'era più posto e che quindi ci avrebbero portato a pernottare in un villaggio turistico sulle vicine colline di Bethania (nel territorio della Cisgiordania occupata) che, pur chiuso nel periodo invernale, sarebbe stato riaperto solo per noi. Giunti verso le undici di sera al villaggio, un grumo di casette isolato in mezzo alle colline, prendemmo posto nei bungalow che si sparpagliavano in un buio bosco di cedri. Dopo un chilometro di passeggiata notturna tra stradine e vialetti a Franco e Giovanni toccò il penultimo bungalow del villaggio e a me l’ultimo, che aveva anche la lampadina dell’ingresso fulminata e tutt'attorno non si vedeva una cippa di nulla.

Così mi ritrovai solo e soletto in una stanzetta gelida e dall'odore di muffa tipico dei locali chiusi da mesi (con bagno, angolo di cottura e condizionatore d'aria, ma nessuna traccia di termosifoni...) e mi spogliai parzialmente per andare a dormire, infilandomi in un letto talmente impregnato di umidità da farmi battere i denti. Dopo una ventina di minuti stavo ancora cercando di prendere sonno e di riscaldarmi appallottolato nel copriletto di ciniglia e nel pelo del giaccone di montone, quando avvertii intorno alla casa un rumore di passi furtivi. Allarmato, mi misi a sedere sul letto e chiesi ad alta voce: "Franco, sei tu? ", ma non ottenni risposta. In compenso i passi cessarono e si sentì distintamente un rumore metallico. Un "Ta-clak!" come di un otturatore di fucile quando si mette il colpo in canna. Pensai che un eventuale animaletto del bosco sarebbe stato senz'altro capace di fare passi furtivi, ma non di armare un fucile e così, con il cuore in gola, mi alzai e salii su di una sedia per sbirciare all'esterno dalla finestrella della cucina. Nella mia mente, intanto, si affollavano ipotesi sempre più tragiche sull'identità e le intenzioni di un qualcuno che si aggirava armato in quella terra e in quella notte da lupi. Fuori, però, solo buio pesto e vento sferzante. Non si sentiva più alcun rumore.

nella città vecchia di Gerusalemme (1973)

Restai qualche istante in attesa di un segnale di vita, trattenendo il respiro. Tutto taceva. Che se ne fossero andati? Decisi quindi, con il coraggio incosciente dei fifoni, di tentare una sortita. Così spalancai la porta d’ingresso e... mi trovai la canna di un Kalashnikov premuta con forza sullo stomaco! Lo impugnava un tizio con il volto seminascosto dalla keffiah e i cui occhi non promettevano nulla di buono. Con le mani tenute bene in alto, mentre aspettavo la raffica che avrebbe posto fine ai miei scriteriati giorni, trovai la forza di biascicare: "I’m italian... amico... friend ...Venice." e per una frazione di secondo fui attraversato dal pensiero che assai poco dignitosamente mi apprestavo a morire in calzini, mutande e canottiera. Da sotto la keffiah spuntò invece un sorriso a trentadue denti, del tutto inaspettato. Subito dopo, abbassando finalmente il mitra, il tizio mi rianimò con una serie di cordiali manate sulle spalle, affermando tutto allegro di essere una sentinella e subito dopo, avendo notato il mio abbigliamento, cominciò anche a ridere senza ritegno.
Di fronte a tanta ilarità (niente affatto condivisa) il mio primo impulso, lo confesso, fu di rivelargli cose poco edificanti sul vero mestiere della sua mother e della sua sister, ma poi, considerando che non era il caso di entrare in polemica con un giovanotto così affabile e, soprattutto, ben armato, mi limitai ad accasciarmi sulla seggiola della cucina con le pulsazioni a duecento. Mi sfuggì solo un sommesso: "ma va in mona" che sicuramente il giovanotto non era in grado d’intendere. Un secondo invito ad andare “in mona” (accompagnato questa volta dal lancio di una scarpa) lo rivolsi in seguito a Franco e Giovanni quando venti minuti dopo l’accaduto si affacciarono alla porta del mio bungalow chiedendo se fossi stato io chiedere aiuto.

La mattina seguente rividi il mio incubo notturno che faceva colazione assieme agli altri gitanti nel corpo centrale dell’albergo, con il suo monumentale mitragliatore ben appoggiato al tavolino (e, bontà sua, mi gratificò ancora di molti cordiali sorrisi). Costui, mi venne poi spiegato, era un contadino che durante la chiusura invernale sorvegliava per conto della direzione dell’albergo i bungalow per impedire i furti. Non essendo stato avvisato del nostro arrivo aveva pensato che ci fossero dei ladri in azione e si era comportato di conseguenza. Mi domando ancora oggi, però, e non senza apprensione, cosa sarebbe successo se il giovanotto, pur così cordiale, fosse stato appena un pochino più impulsivo con il grilletto del suo Kalashnikov.

Bene.. ho scritto davvero troppo e la finisco qui. Per farci gli auguri, ci ritroviamo su queste pagine tra qualche giorno. Ora vado a montare l'albero...