martedì 28 giugno 2016

La seconda parte dell'arte veneziana di fare le settimane bianche in piena estate



(segue..) Il giorno seguente iniziò a piovere e quindi invece della prevista gita a funghi di famiglia ci concedemmo solo una passeggiata infreddolita e infagottati nelle giacche a vento al di là del rio di Costalunga e, nella speranza di una cioccolata fumante con lo strudel, fino alla malga Panna con Whisky che a forza di inseguire vanamente le cornacchie nei prati lungo la strada per Sorte era ormai inzuppato di acqua e fango come un babà lo è di liquore. Ovviamente venne a scrollarsi di fronte a Donatella che non la prese bene e ritornò sulla faccenda della mia idiozia perché non controllavo abbastanza il cane (con l'aggravante della recidiva, dato che l’avevo conosciuta il giorno in cui il mio lupo, scappato per le calli senza guinzaglio mentre aprivo il portone di casa, aveva intercettato e posseduto senza troppi preliminari la vezzosa barboncina di sua nonna che lei stava portando a spasso e la cosa mi venne rinfacciata per anni).

Verso sera capitolai e, dopo aver rinunciato a giocare a scacchi contro una che trasportava malinconicamente legname da una parte all'altra della scacchiera lasciando i pezzi in presa (che per un po’ fai finta di non vedere che ha lasciato la regina sotto tiro del tuo alfiere e di un paio di pedoni, ma poi l’etica del giocatore di scacchi s’impone su ogni calcolo affettivo), per disperazione andammo a vedere il film "Il bello, il brutto e il cretino" con Ciccio e Franco al cinema parrocchiale. Ovviamente, mia madre ci appioppò mio fratello tanto per spegnere qualsiasi ardore residuo, ma però, essendo sempre astuto come una faina, con un pacchetto di gomme americane e un mottarello ricoperto riuscii a convincerlo a prendere posto da un altra parte e così, rintanati nell'ultima fila riuscimmo a darci almeno qualche bacio, anche se la pellicola, talmente rovinata da sembrare che ci avessero pulito il pavimento, saltava in continuazione e quindi si accendevano spesso le luci in sala tra i fischi del pubblico e noi che cercavamo di ricomporci in fretta.


Il Campediè in versione invernale e sullo sfondo, tra i Mugoni e il Larsec,
 le torri del Vajolet, mentre a sinistra si vede la forcella delle Cigolade

Siccome in montagna quando inizia a piovere, poi ci prende gusto e lo fa per diversi giorni, il tempo rimase incerto tra una schiarita e un nuvolone fino a giovedì, quando un pochino di sole tornò a splendere nella mia vita privata perché mentre mia madre era in cucina a preparare la cena, dopo uno sguardo d'intesa, abbandonando il tabellone del Monopoli sul tavolo (tanto stavo perdendo), riuscimmo a scivolare furtivi dal salotto alla stanza di Donatella e nel massimo silenzio riuscimmo ad andare almeno oltre al semplice bacio. Avevo ancora due giorni a disposizione prima che Donatella tornasse a Venezia e presi la cosa come un segnale di buon auspicio perché l’intera settimana di vacanza con la mia ragazza non passasse senza che avessimo fatto l’amore almeno una volta. Perché le settimane bianche si trascorrono d'inverno, mica in estate, giusto?

Per salire al Re Alberto  e vedere le torri di fronte non c'è sentiero
e bisogna un po' arrampicarsi, ma è facile.

Però mia madre ci mise ancora lo zampino perché a cena, dopo aver visto dal balcone il cielo che era completamente terso e stellato, se ne uscì fuori con un “Carluccio, visto che domani sarà una bella giornata, perché non porti Donatella almeno al Rifugio Vajolet e poi magari su per il ghiaione fino al Re Alberto, per farle vedere lo spettacolo delle torri che si specchiano nel laghetto? Non vorrai mica che torni a casa dopo una settimana in montagna senza aver messo piede sul Catinaccio, no?” La destinataria della proposta accettò subito la proposta a scatola chiusa e con entusiasmo, mentre io che stavo mangiando di gusto la seconda cotoletta alla milanese dopo averla contesa a mio fratello, deglutito a fatica il boccone la guardai perplesso: “Mamma, io la porterei anche, ma è venuta su con le scarpe da tennis della Superga, e poi non so se Donatella ha le gambe allenate per cinque o sei ore di marcia tra andata e ritorno. Che io sappia non è mai andata seriamente in montagna e in questi giorni la passeggiata più lunga che ha fatto è stata quella per andare in paese a fare le spese alla Famiglia cooperativa.” 
“Oh senti...non fare sempre il difficile su tutto. Non ti sto mica dicendo di farle fare la ferrata del Santner. Un paio di scarponcini glieli do io, che abbiamo lo stesso numero e anche la giacca a vento. Per il resto sai bene che il sentiero non è difficile, è largo, quasi tutto pianeggiante e c’è solo lo strappetto finale, ma sono quindici minuti di salita e anche arrampicarsi fino al Re Alberto è facile e senza pericoli, basta che le fai vedere dove deve appigliarsi sulle rocce. Se vuoi domani mattina alle otto vi porto a Vigo di Fassa, alla seggiovia”.

Non riuscii ad oppormi a quelle due e così la mattina seguente, con un sole scintillante che scaldava le ossa, appena sbarcati dalla seggiovia lasciammo alle nostre spalle il Rifugio Ciampediè dopo averne estratto a forza Donatella che assieme con il cappuccino si stava strafogando con una nusstorte alta un palmo e voleva assaggiare anche lo strudel con i frutti di bosco. Così prendemmo il sentiero 540 verso il Gardeccia che si snodava tra pini e cespugli di rododendro e con lo scenario mozzafiato del dirupi del Larsech e dei Mugoni a farci compagnia e l’aria fine dei duemila metri da respirare a pieni polmoni. Di solito percorrevo il tratto in discesa dal Ciampedié al Gardeccia in 45 minuti, ma avevo sottovalutato la totale incompatibilità di Donatella con la montagna.


Spunta il sole di buon mattino sulla ferrata del Santner e scaccia le nebbie notturne.
Tra poco, mia madre, io e due nostri amici veneziani l'affronteremo ancora.
(dal lato del rifugio Fronza alle Coronelle)

Dopo un ora e venti di camminata a ritmo di processione passata a chiedere: "Ma quanto manca al rifugio?" e fermandoci ogni dieci minuti, prima perché aveva sete e voleva la borraccia, poi perché aveva caldo e doveva togliere la giacca a vento e cento metri dopo perché aveva freddo e voleva rimetterla, alla fine Donatella iniziò a borbottare che non si sentiva bene, provava un senso di peso all'addome sempre più forte e le veniva da vomitare. Pensai che potesse aver preso un banale colpo di freddo perché era sudata e lungo il sentiero soffiava un po' di vento e poi aveva mangiato troppo prima di mettersi in marcia. Tutta roba che o riesci a prendere qualcosa di caldo o vomiti l'anima, ma poi ti passa. Così le dissi di tenere duro che appena arrivati al Gardeccia avrebbe avuto la sua camomilla fumante con tanto limone, ma dopo altri dieci minuti chiese ancora di fare sosta e questa volta si appartò dietro un cespuglio da cui riemerse dopo un’imprecazione irriferibile, visibilmente contrariata, tanto che le domandai che avesse.
"Che vuoi che abbia? Mi sono venute in anticipo. Le aspettavo per domenica o lunedì...”
“Cosa? Le mestruazioni?”
“Certo! Cosa credevi che aspettassi: la corriera? Ho un mal di pancia della malora... torniamo indietro”
“Ah! Mi dispiace. Comunque, non riesci a stringere i denti e proseguire ancora per venti minuti? Non manca molto al rifugio e sicuramente al Gardeccia hanno qualcosa da darti, prendi una bevanda calda, ti riposi un po' e magari dopo stai meglio e ti riporto a casa. Proprio non te la senti?”
La mia era solo una domanda gentile ma lei rispose con un’aggressività che non le conoscevo (avrei avuto modo di farlo più avanti). “Noooo! Sto malissimo, starò ancora peggio e non ho neppure gli assorbenti. Lo capisci o no? Portami a casa subito...” 
Le ultime parole le pronunciò quasi strillando, tanto da aumentare il mio disagio perché se lei stava male io i miracoli non li potevo fare.
Si... certo che lo faccio, ma siamo a metà strada tra i due rifugi e non è che posso chiamare un taxi per portarti a casa. Andare al Gardeccia che è più vicino mi sembrava razionale, ma se vuoi tornare a Moena dobbiamo risalire al Ciampediè, prendere la seggiovia e poi la corriera e quindi devi avere pazienza perché ci tocca camminare per almeno un oretta, oltre a tutto il resto. Quindi muoviamoci perché finché rimaniamo fermi qui, non risolviamo il problema. ”
Lei bofonchiò qualcosa che finiva per “..onzo” e ci rimettemmo in marcia per tornare alla seggiovia.


Escursionisti diretti al Rifugio Principe che ho ripreso da una cengia
 della via ferrata Est dell'Antermoia 

Ovviamente, visto che sino a quel punto eravamo scesi, il sentiero ora andava ripercorso in salita e questo la mise ulteriormente in difficoltà, tanto che dopo venti minuti di lamentazioni e scarognamenti vari sulle montagne, su di me che ce l’avevo portata, i rifugi e perfino sul povero Re Laurino, venne colta da una crisi isterica di pianto anche perché ora ai dolori mestruali si erano aggiunti anche quelli ai piedi. Riuscii a calmarla a stento, poi la feci sedere e l’aiutai a togliersi gli scarponcini giusto per scoprire che avendo indossato dei calzini di filo talmente leggeri da lacerarsi, ora aveva due belle vesciche a carne viva proprio sopra i calcagni, perché i suoi piedini da fatina non erano abituati alla durezza del cuoio delle pedule da roccia. Così, visto che non era più in grado di camminare, scartata l'idea di darle il colpo di grazia con la piccozza e di abbandonarla sul sentiero, per disperazione me la issai a cavalcioni sulla schiena come fosse un secondo zaino e, passo dopo passo, la portai su per la salita fin quasi a destinazione con lei attaccata al collo fino a strangolarmi e io che la reggevo per le gambe (meno male che, malgrado gli strudel e le torte ingurgitate, era ancora magrolina), fermandomi e posandola a terra ogni cento metri per riprendere fiato, con il sudore che inzuppava la camicia e il cuore che saliva quasi in gola per lo sforzo.

Quello che tra poco avrà uno zaino animato da caricarsi sulle spalle.

Per fortuna incontrammo un gruppo di signori gentilissimi di Piacenza che stavano scendendo, ma vista la situazione mi aiutarono, tornando indietro e dandomi il cambio, a portare la sedicente ferita (dissi loro che era una storta alla caviglia, non potendo rivelare il vero problema). Alla fine rientrammo al Ciampediè dove tra cerottini, garze, tintura di iodio, una pastiglia di Saridon per i dolori mestruali e un assorbente avuti gentilmente in omaggio dalla signora che gestiva il rifugio, rimisi Donatella abbastanza in sesto per riprendere la seggiovia e tornare a casa. Una nuova fetta della torta di noci alta un palmo con una tazza di te bollente, aiutarono molto a tonificarla. A me, che ero di ben altra tempra, bastò un bicchiere raso di Kapriol. Ovviamente, le era stato rimesso in sesto il fisico, non l’umore, così già sulla corriera per tornare a Moena litigammo, perché lei sosteneva la tesi risibile che era tutta colpa del mio egoismo e che avrei dovuto avvisarla e io che era lei che avrebbe dovuto avvisare me, che se solo avessi saputo quanto era piantagrane e incapace di sopportare un minimo di sofferenza fisica, con il ca..volo che l’avrei portata per rifugi. La sera e tutto il sabato seguente trascorsero nel broncio più totale e a nulla valse il tentativo in extremis di un vassoio di krapfen per risollevare l’umore tetro di Donatella. La domenica pomeriggio, quando risalì sulla corriera per Venezia mi sentii quasi sollevato, tanto che appena rientrato a casa mi misi volentieri a studiare Diritto Costituzionale, dal momento che a settembre c’era una sessione d’esami e in fondo riuscire a trasformare una disavventura in un’opportunità era molto intelligente (almeno volevo crederlo).

lunedì 27 giugno 2016

Dell'arte veneziana di fare le settimane bianche in piena estate (parte prima).



Non capita tutti i giorni che uno scrittore (vabbè, fate finta di crederci..) sveli i suoi piccoli segreti ai lettori, però oggi mi andava di farlo e quindi, visto che su questo blog ne ho già parlato con tre o quattro storie sugli amori di barca e lagunari (altrimenti che veneziano sarei) oggi vi racconto un altro piccolo inedito della mia storia con Donatella, la ragazza che è stata il mio primo amore serio e con la quale sono stato assieme dall’ultimo anno di liceo sino alla fine dell’università. Di lei, ovviamente, parlo anche nel mio romanzo Ars Amandi Veneziana anche se, per esigenze di trama e anche per non renderla troppo identificabile (Venezia è una città pettegola), il suo personaggio è un mix di altre donne che hanno attraversato più o meno a lungo la mia vita dopo di lei, che invece impersona anche la ragazza di nome Maddalena che nella storia precede il nostro incontro. Se qualcuno ha letto il libro, saprà che per ovviare al distacco forzato delle vacanze estive (lei restava al Lido, io andavo in montagna), ero riuscito a convincere mia madre e i genitori di lei ad avere Maddalena (Donatella) ospite per una settimana nella nostra casa di Moena, ma al momento fatidico lei non era arrivata perché all'ultimo momento i suoi avevano cambiato idea e io c’ero rimasto malissimo. 

Questo accade nel racconto, ma in realtà non andò affatto così perché Donatella (c’eravamo messi assieme poche settimane prima ed eravamo stracotti l’uno dell’altra) arrivò davvero a Moena e ora vi racconto come andò realmente tra noi.

Aveva piovuto tutta la settimana, e il mio umore era cupo come il cielo sopra la cima del Sass da ciamp che vedevo spuntare tra le nubi dalla finestra di camera mia. Non potendo fare gite e nemmeno partitelle da calcio nel campetto ridotto ad acquitrino le giornate trascorrevano lentissime nell'attesa che venisse l’ora di andare giù in paese alle Poste dove c’erano le cabine del telefono per chiamare Venezia con adeguata scorta di gettoni. Poi, finalmente, il lunedì agognato arrivò e con lui anche il sole ad illuminare i boschi fradici di acqua e le montagne picchiettate di neve, evento che considerai di buon auspicio. Al momento di andare ad accoglierla mia madre mi ordinò di prendere una giacca a vento e anche se sul momento mi sembrava una bizzarria, quando vidi Donatella scendere dalla corriera con un abitino leggerissimo di cotone, capii che la sapeva lunga. Naturalmente, visto che non eravamo soli, il nostro saluto fu molto formale e durante la strada, io che portavo le valigie rimasi indietro rispetto a quelle due che dopo aver rotto il ghiaccio parlottavano come vecchie amiche.


Nuvole basse sulla Roda di Vael 


All'altezza del ponte sul torrente Avisio riuscii finalmente a prenderle una mano. Lei me la strinse affettuosa e questo mi mise di buonumore. Dopo una cenetta molto simpatica e quattro passi serali in paese riuscii a stare da solo due minuti con lei e a concordare il piano di battaglia per la nostra prima notte assieme, che era molto semplice. Siccome avevamo le stanze con la parete in comune avrei atteso che mio fratello finisse di leggere Topolino e si addormentasse (gli avevo nascosto sopra l’armadio quelli vecchi, casomai vedendoli volesse rileggerli) poi le avrei bussato leggermente due volte sul muro e se lei era pronta avrebbe risposto a sua volta con un colpetto. Così, dopo aver aperto con cautela la mia porta (che non cigolava... avevo fatto le prove tutto il giorno e avevo anche unto i cardini con l’olio Dante) sarei scivolato furtivo nella sua stanza e nel suo letto, come un novello Casanova. Purtroppo, Il generale cinese Sun Tzu nel suo trattato sull'Arte della guerra diceva che il presupposto per il successo è quello di conoscere il proprio nemico e io avevo sottovalutato mia madre, che invece mi conosceva perfettamente. Infatti, appena aperta la porta della stanza desideroso di cogliere l'agognato frutto dell'amore, mi giunse il latrato festoso di quel cretino di Whisky (il pastore tedesco che avevo allora e di cui il bretone ha preso il nome) il quale invece che sul pianerottolo d’ingresso quella notte era stato messo sapientemente a dormire sulla sua vecchia trapunta in quel punto strategico del corridoio dove si aprivano le nostre camere. Non solo, ma era stato collocato in modo tale da fargli percuotere la porta di mia madre scodinzolando per la gioia di vedermi. Così immediatamente arrivò dalla stanza materna il:“Carletto su... da bravo, torna nel tuo letto e non farmi arrabbiare.


All'epoca dei fatti, con l'aria di quello che ha la ragazza lontana

Anche il secondo e il terzo assalto nel giro di mezzora finirono allo stesso modo (I lupi hanno il sonno leggero) malgrado cercassi di bisbigliare a quel traditore di stare buono, che non avevo voglia di giocare con lui. Alla fine, visto che mia madre dal livello giallo del "Vai a dormire" era passata a quello arancione del “Guarda che vengo lì, ti chiudo dentro a chiave e ti riapro domani mattina” dovetti desistere, anche perché ormai, dopo che gli ultimi colpetti sul muro non avevano avuto risposta, avevo appoggiato l’orecchio sulla parete per sentire il russare profondo di Donatella vinta dal sonno.
Le mie incursioni notturne erano state respinte grazie a quel traditore collaborazionista di Whisky, con il pessimo risultato di farmi sgridare subito al mio ingresso in cucina per la colazione e di aumentare le misure di sorveglianza di mia madre, ma tuttavia, con una tenacia ammirevole decisi di riprovare per altra strada l’attacco (consenziente) alle virtù muliebri di Donatella. Così, appena quella dormigliona si ridestò e prese posto a tavola per il caffelatte e per divorare anche i miei crostini con il burro di malga e la marmellata di lamponi, approfittando del fatto che era ancora assonnata le proposi di andare a funghi e lei incautamente accettò. Ovviamente la mia intenzione era tutt'altra. Mia madre, che sempre per via del trattato sull'arte della guerra di Sun Tzu, mi conosceva bene e sapeva prevedere le mie mosse, arrivò subito dalla cucina con il fuoco di sbarramento.
Scusa Carluccio...” mi chiamava sempre così quando voleva farmi capire tra le righe le cose che non gradiva, perché invece quando dicevo una cretinata mi chiamava Carletto, proprio come oggi fa mia moglie. "tu hai visto che ore sono, vero?”
“Si mamma... sono le dieci e venti, se non hai spostato avanti l’orologio del salotto per farmi sentire in colpa” 
Lei non raccolse la provocazione.
Giusto... ma considerando che quando sarete nei boschi, tra una cosa e l’altra, saranno già le undici e mezza, quanti funghi pensi di trovare ancora dopo che dalle sette di mattina i villeggianti e i locali hanno cominciato i rastrellamenti a tappeto di qualsiasi cosa che assomigli vagamente a un porcino?”
“Qualche famigliola di finferli per un risotto la rimedio sempre”
“Speriamo di si, perché quando sono andata a prendere il pane ho dato un'occhiata, ma il fruttivendolo in piazza non li aveva e se non li ha lui...”

Notte di luna piena sul Sella innevato

Quella era una pessima notizia perché astuto come una faina intendevo proprio comperarne due etti al ritorno per farle credere che li avevamo trovati. O forse era un suo depistaggio intenzionale immaginando che lo avrei fatto. Comunque, avevo pronto il piano B.
“Casomai se non ci sono funghi andremo per mirtilli. Volevo far provare a Donatella, che non lo ha mai fatto, la soddisfazione di raccoglierli direttamente dal cespuglio e mangiarli freschi, magari troviamo anche delle fragoline...”
“Certo Carletto...è un'ottima idea. Presi dalla pianta i mirtilli hanno un altro sapore ed è giusto che, se non lo conosce, lo provi. Quindi non restate a pranzo? Peccato davvero, perché in onore di Donatella stavo mettendo su lo spezzatino con le patate che ti piace tanto e ieri sera avevo preparato i canederli da fare in brodo... pazienza, vorrà dire che li mangeremo io e tuo fratello...”

Detta così era un colpo duro e anche Donatella, a cui avevo magnificato la cucina materna, mi guardò malissimo per quello che le avrei fatto perdere. Questo non poteva sfuggire a mia mamma, che fece subito leva sull'incrinatura che si stava allargando nella nostra coppia. Infatti, appoggiò materna la mano sulla spalla della mia ragazza e con un sorriso soave le chiese: "Tesoro, tu non hai mai assaggiato i canederli, vero?" e appena lei ammise di no con l’espressione avvilita, continuò crudele “Ah! Guarda...non sai cosa ti perdi... io li preparo con lo speck e l’erba cipollina e li servo in brodo, oppure se ti piacciono di più, li posso fare asciutti con il burro fuso, la salvia e la ricotta affumicata di malga grattugiata sopra. Il mio Carluccio ne va matto... ”


Se una non ha mai assaggiato i canederli, le mamme vincono facile...


Tagliai corto prima che la facesse capitolare descrivendole lo spezzatino con l’ingrediente segreto delle bacche di ginepro e andai a preparare lo zainetto, poi appena Donatella ebbe finito con lentezza esasperante la colazione, uscimmo, ma mentre stavo per aprire il cancello mi sentii chiamare dalla finestra.“Scusa Carluccio...perchè hai messo il plaid di tuo fratello nel sacco da montagna?”
“Perchè ci facciamo preparare dei panini al bar Catinaccio e pensavamo di fare un picnic sull’erba...”
“E lo fai su un plaid? Che idea scema... vieni su dai, che ti do una tovaglietta...”
Mentre già immaginavo quanto fosse poco romantico far l’amore stesi su una tovaglia, aggiunse perfida “A proposito: mi dici da che parte vai a funghi? Te lo chiedo così, tanto per sapere dove mandare a cercarti, perché immagino che Donatella non conosca ancora il tuo senso di orientamento”
“Dai mamma, non fare l’apprensiva, conosco questa zona come le mie tasche...”
“Glielo hai raccontato a Donatella che l’anno scorso ti sei perso due volte?”
“No, perché non è successo qui. Pensavo di andare nei boschi sopra alla malga Roncac, che sono i più vicini”
“Allora mi sa che Donatella, poverina, quest'anno i funghi li vede solo in cartolina. Lì ormai a quest'ora non trovi nulla, neppure i mirtilli. Tra l'altro, visto che vuoi andare nel bosco, ma perché non porti Whisky con te? Così fai fare una bella sgambata anche a lui...”
“Dai mamma, lascialo stare, per amor di Dio...che poi vuole sempre giocare con le pigne, va a sguazzare nei pantani e abbaia come un idiota a qualsiasi animale che incontra. Ti ricordi l'altro giorno che si è fatto rincorrere da due mucche?”
Questa l'avevo schivata, ma mia madre sapeva giocare sporco e infatti puntò dritta sulle paure ancestrali della mia ragazza. “Beh...almeno portatevi i bastoni, che li è pieno di vipere, anzi, Donatella, mi raccomando, prima di allungare una mano nell’erba o tra i sassi per prendere un fungo o una fragola, batti bene il terreno attorno.”
“Perchè? Ci sono le vipere?” Donatella spalancò gli occhi per lo spavento.
“Ma no, figurati, non ci sono...io non ne ho mai vista una. E' mia madre che se le sogna di notte”
“E’ perchè Carletto non le sa vedere, ma nella zona dove andate ci sono delle pietraie e ce ne sono diverse, anche belle grossette.."
"Mica cerchiamo i funghi e i mirtilli tra le pietre...staremo sempre nel bosco e il problema è risolto."
"Guarda che non stanno mica tutto il giorno a scaldarsi sui sassi, sai? Si muovono anche loro. Tuo fratello ne ha viste tre l’ultima volta e una era in mezzo all'erba...non è vero Franco?”

Il tempo migliora, il mio umore meno...

Mio fratello, evidentemente corrotto a suon di Topolini nuovi, apparve alla finestra a confermare e aggiungendo di suo altri particolari ansiogeni sulla dimensione dei serpentelli che nel suo racconto sembravano crotali aggressivi pronti a spuntare sibilando da tutte le parti e principalmente tra fragole e mirtilli. Alla fine mia madre, sorridendole in modo carino tirò la bordata devastante che pose termine allo scontro.“Donatella, tu che sei più ragionevole di quello sciagurato di mio figlio, che ne dici? Perchè non andiamo a funghi domani tutti assieme, alzandoci per tempo e ora metto su i canederli e lo spezzatino per quattro?” Lei dopo avermi guardato come il mostro che stava portando l’agnellino ingenuo alla perdizione per i suoi loschi scopi risalì rapidamente le scale di casa offrendosi perfino di dare una mano in cucina. Ora io avevo sempre immaginato di poter essere tradito per un altro ragazzo, ma per un piatto di spezzatino no, e questo mi mise di pessimo umore. (segue...)

domenica 26 giugno 2016

Le mie 50 cose per le quali vale la pena di vivere.


Con i primi caldi estivi i quotidiani, abbandonando lodevolmente gli avvistamenti degli UFO, i cerchi nel grano e le rotte segrete dei Templari (pur mantenendo le solite foto balneari della Hunziker e della velina di turno) di solito non resistono a rilanciare un classico sondaggio caro ai nostalgici lettori del Male sulle 100 cose per le quali vale la pena di vivere. Così mi è venuta voglia di bruciarli sul tempo proponendovi una mia lista anche se, per motivi di spazio, l'ho ridotta ad una cinquantina di voci. Ovviamente, non ho messo in graduatoria temi largamente popolari come l’amore, i figli, le mogli, i mariti, cani, gatti, la propria moto e via discorrendo perché sono scontati. Non ho elencato neppure aspetti del tipo: mia moglie che per una volta non accende l’aspirapolvere mentre sto provando alla chitarra l’arpeggio di Stairway to Heaven e mi sta riuscendo, mia suocera che non mi chiama per motivi futili durante la partita o Vodafone che non mi propone un'offerta irrinunciabile mentre sono sotto la doccia, oppure mio figlio che cucina qualcosa di prelibato per noi e non solo per i suoi amici tedeschi. Faccende troppo personali, anche se emotivamente importanti. Ho pensato dunque ad un elenco nel quale tutti possano riconoscersi o meno e magari, se ne hanno voglia, aggiungere qualcosa che piacerebbe a loro, compreso avere amici che non rompano le balle con elenchi come questo.


Questo antipasto di salumi e formaggi di capra potrebbe far parte dell'elenco  a pieno diritto.

Queste, comunque, sono le 50 cose per le quali io ritengo valga la pena di vivere (non sono messe in graduatoria d’importanza, ma solo man mano che mi vengono in mente). Iniziamo dal reparto vacanze, partendo dalla montagna e poi scendendo a valle.
  1. Un panino con il salame ungherese e il sottaceto da addentare su una forcella di montagna con vista sul Catinaccio, mentre gli altri hanno solo la scatolina piccola della Simmenthal. 
  2. Essere l’unico della comitiva che ha la giacca a vento nello zaino mentre si scatena il temporale, non ci sono posti per ripararsi e il rifugio dista ancora un'ora di marcia.
  3. Essere quello che trova un porcino da due chili entrando un attimo nel bosco per esigenze idrauliche e subito dopo incrociare la famigliola che dopo tre ore ha solo una manciata di finferli nel cestino.
  4. Un bicchiere da litro di birra fresca appena arrivato al rifugio, aspettando che ti servano la salsiccia con la polenta e il formaggio cotto con le uova e mentre la ragazza che è venuta in gita con te ha appena detto di essere vegana, astemia e a dieta.
  5. Togliersi gli scarponi dopo cinque ore di marcia e vicino a quella signora tutta elegantina venuta su con la seggiovia, che ha appena cambiato tavolo al rifugio perché dove era prima un gruppo di alpinisti tedeschi faceva la gara di rutti con la birra.
  6. Trovare la strada per Jesolo senza code e senza lo svizzero che va a 30 km/h. da Caposile a Cortellazzo perché lo dice il cartello stradale.
  7. Trovare un’ombrellone a Jesolo senza vicini con bambini strillanti e che parlino dialetto trevigiano.
  8. Trovare una spiaggia senza musica latino americana a tutto spiano e gente sovrappeso che balla la macarena facendo acquagym con l’istruttrice in tutina, che ti fa caldo solo a vederla.
  9. Allungare di proposito la gamba per far ruzzolare sulla sabbia il ragazzetto esagitato che continua a correre strillando attorno al tuo sdraio e poi dirgli benevolo “Stai attento a dove vai quando corri, tesoro, che puoi inciampare…”. (questo però l'ho già fatto...)
  10. Vedere la fatalona che si è spalmata languidamente di costose creme abbronzanti per mezzora ricevere un gavettone di sabbia dai bambini dei vicini d’ombrellone.
  11. Riuscire a leggere un intero articolo o il capitolo di un libro senza che nessuno ti interrompa per offrirti un Rolex a 30 euro o una borsa di Prada per 20. E neanche un massaggio per 10.
  12. Una medusa che impatta Belen sul lato B del perizoma
  13. Una medusa che impatta Corona sul lato A del perizoma.
  14. Uno squalo tigre da quattro metri che impatta Belen e Corona su qualsiasi lato
  15. Simona Ventura naufraga su un isolotto sperduto della laguna, al largo di Treporti. Senza noci di cocco. Ma pieno di pantegane
  16. Giovanardi con l’auto guasta in piena notte soccorso da un gruppo di gente di ritorno da un rave party. Di quelli dove c’è la roba buona…
  17. Salvini con l’auto guasta in piena notte nel Salento che viene soccorso da un pullman di raccoglitori di pomodoro incazzati.
  18. La Santanchè con l’auto guasta in piena notte soccorsa dal camionista bulgaro delle barzellette.
  19. Bersani che dà finalmente del patacca a Renzi
  20. Berlusconi che si prende l’herpes dove prima o poi è fatale.
  21. Di Battista che azzecca due congiuntivi di fila, ma poi si corregge.
  22. Razzi che azzecca due congiuntivi di fila, ma non si corregge perché non ha capito di averli imbroccati.
  23. Sentire Sgarbi che confonde un Tiepolo per un altro e uno studente che lo corregge e gli dà della capra.
  24. La Serracchiani che dice qualcosa di sinistra e non se la tira.
  25. Capire finalmente chi cazzo è Fedez
  26. Brunetta che incontra nottetempo in una calle quel giro di portuali giudecchini di una volta, quelli che per loro Lenin era un revisionista borghese.
  27. Renzi che riesce a non fare battutacce toscane per almeno due minuti di fila.
  28. Sentire la Meloni parlare con l’accento della Gruber e viceversa.
  29. Riconoscere Sallusti nel video Thriller mentre balla con Michael Jackson
  30. La Gelmini che lascia la politica ed entra in convento, ma per riuscirci è costretta ad andare a Reggio Calabria, dove le suore sono più di manica larga.
  31. I veneziani che si riprendono le bandiere della Serenissima e buttano in laguna i leghisti bergamaschi che le sventolano abusivamente.
  32. Moggi che confessa e la Juve che si vede togliere altri quattro scudetti.
  33. Galliani con una cravatta rossa e il Giornale che rivela che è iscritto ad un Inter Club dal 1965 ed è pure comunista.
  34. Entrare in un warp spazio-temporale e finire in un mondo parallelo dove fischiano il rigore di Juliano su Ronaldo, Berlusconi è in esilio da anni alle Barbados dove gestisce una bisca clandestina, Renzi ha un chioschetto di gelati alle Cascine, Grillo fa il parroco e Salvini è sposato con una senegalese che gli ha dato quattro figli. Chiedere asilo in quel mondo ed ottenerlo.
  35. Thohir che si mette con Barbara Berlusconi
  36. L’Inter che batte la Juventus in finale di Champions con un autogol di Bonucci
  37. Il salame all’aglio di Schio dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco.
  38. Vedere i menù turistici dei ristoranti veneziani senza il pasticcio di lasagne.
  39. Ottenere l’abolizione delle fettuccine panna prosciutto e piselli su scala planetaria e sentire l'America che si scusa per le fettuccine Alfredo.
  40. Vedere fustigati nei campielli quelli che servono la frittura di pesce scaldata nel microonde.
  41. Vedere appesi per i piedi alle colonne del Todaro quelli che servono lo spritz nei bicchieri di plastica.
  42. Vedere sanzionato severamente il canto di Funiculì Funiculà e di Delilah durante le serenate in gondola sul Canal Grande.
  43. Vedere Brugnaro che fa qualcosa e si ricorda di essere il sindaco di Venezia e non di Camponogara.
  44. Vedere la Ferrari che abbandona il motore a criceto e ritorna a quello a benzina.
  45. Sentire qualcuno dichiarare a Master Chef  "sono qui per perdere" anziché "sono qui per vincere"
  46. Avere gli imbianchini che tu gli dai le chiavi di casa e si arrangiano loro a fare tutto.
  47. La Meloni che insegna geografia alle serali e la Gelmini che fa le pulizie nel tunnel del Gran Sasso. 
  48. Sentire il concerto del primo maggio senza almeno un paio di gruppi che fanno cagare.
  49. Vasco Rossi che perde la dentiera mentre canta: "Sei pazza di me".
  50. Baglioni che si pente delle sue melensaggini e va dritto ad espiare in convento (e qui forse ci siamo…) 




giovedì 23 giugno 2016

Breton rules the wawes (the gardens too)


Diario di bordo del Comandante del Caccia posamine “Le Breton”

Ore 7.15 – usciamo dal cancello della bocca di porto alle prime luci dell’alba. La strada è calma, la visibilità è buona e la temperatura ottimale, in assenza di vento. Il radar segnala scarso traffico. Facciamo rotta per 270° in direzione dei campi incolti e delle foreste secolari dietro Via Mattuglie. Macchine pari avanti media a velocità di crociera.

Ore 7.25 – inizia l’attraversamento del tratto prospiciente Piazzetta Santa Barbara, già teatro in precedenza di violenti scontri con unità nemiche. Dispongo le vedette in coffa e la nave in stato di allerta giallo. Aumento la velocità di 5 nodi per uscire alla svelta dalla zona a rischio dei giardinetti.

Ore 7.30 - la vedetta di babordo segnala un piccolo cane nero, senza guinzaglio e padrone, ad ore 10 in avvicinamento rapido e in possibile rotta di collisione, seguito a distanza da altre due unità canine che però non dimostrano intenzioni ostili mantenendosi prudentemente al largo. Il cane nero, di cui identifico chiaramente la medaglietta identificativa a forma d’osso, non risponde ai segnali di IFF (Identification Friend or Foe) e viene identificato sul Jane’s Fighting Dogs come un’ unità meticcia della classe “Botolo anziano di zampa corta, ringhioso e rompicoglioni”. Anche se si tratta di un modello antiquato e senza alcuna possibilità di successo in uno scontro ravvicinato con un’unità di ultima generazione come “Le Breton”, dotata di 4 zanne Bofors da 15 mm e di unghie da sbarramento “Miracle Blade III” , oltre che di uno spunto di velocità ragguardevole, tuttavia metto il guinzaglio corto e manovro per 170° al fine di allontanare il pericolo.

Una rara immagine del varo del Le Breton nelle acque adriatiche di Fano

Ore 7.35- La manovra evasiva non ha avuto successo e l’unità nemica è ormai a portata di tiro. Batto il posto di combattimento generale e appena avuto il segnale di “zanne pronte” vengono emessi due segnali di ringhio d’avvertimento come prescritto dalle regole d’ingaggio. Contemporaneamente rilascio il guinzaglio in modo da facilitare la manovra d’attacco.

Ore 7.38 – Dopo una breve annusatina di studio ha inizio la schermaglia, tanto breve quanto intensa. Dopo alcuni latrati e un rapido corpo a corpo, il cane nero, raggiunto da una coppiola di zampate, dopo aver emesso un lungo “Caììì”, ripiega a tutta forza verso la sua base dei giardinetti emettendo fumo (a giudicare dall'odore). Decido di non inseguirlo e riprendo la rotta originaria per 270° dopo aver calmato l’ufficiale in seconda che ha ancora il pelo ritto. Unico danno rilevato una discreta dolenzia del polso che teneva il guinzaglio. Macchine nuovamente pari avanti mezza.

Ore 7.45 – faccio rifornimento di caffè, croissant e acqua fresca al bar dei cinesi.  Con abile manovra evasiva evito ancora una volta l'insidia del fagottino alle mele.

Ore 8.00 – attraversamento dello stretto di via Quarnaro. Da dietro le mura e le siepi delle villette che costeggiano la rotta vengono emessi diversi latrati e abbaiamenti di sbarramento da parte dei numerosi cani presenti all’ormeggio per la difesa costiera. Decido di mantenere il silenzio radio.

il Le Breton  in manovra ad alta velocità con i suoi quattro propulsori al massimo dei giri

Ore 8.10 – Faccio l’ingresso nell'immensa radura a prato e boscaglia dietro via Mattuglie. Sgancio il guinzaglio per avere maggiore libertà di manovra. “Le Breton” attiva i sensori olfattivi a medio e lungo raggio e procede bordeggiando a zig-zag la sua azione di rilevamento della selvaggina presente in zona. Mantengo il controllo a vista e preparo il bocconcino di richiamo.

Ore 8.15 - Avvistata squadriglia di tre tortore in formazione. Subito attaccata e messa in fuga.

Ore 8.20 - il sonar di profondità rivela la presenza di unità sotterranee non identificate. Probabilmente talpe o ricci. Dopo una furiosa scavata della tana, il comandante in seconda, colto da improvvisa carenza affettiva, decide di venire a piantarmi le zampe sporche in pieno petto provocando danni alla maglietta che al rientro verrà messa in manutenzione nella lavatrice. Il comandante in seconda viene messo a rapporto e minacciato di corte marziale.

In esplorazione alla ricerca del nemico da ingaggiare

Ore 8.30 – nel tentativo di inseguire qualcosa di non identificato “Le Breton” entra a tutta forza in mezzo ad una macchia di rovi, lamponi e more selvatiche riportando qualche danno alle sovrastrutture. Segue breve, ma piacevole, rifornimento di frutti di bosco.

Ore 8.50 - Avvistata e inseguita senza successo una giovane lepre comparsa all'improvviso dalla boscaglia nella quale s'immerge nuovamente dopo una serie di rapidi zig zag.

Ore 9.00 - Dopo che finalmente è stata depositata tra l’erba la mina del mattino (prontamente rimossa mediante il dispositivo in dotazione del tipo sacchetto Chinamarket mod. 12657/bis) decido il rientro alla base.

Ore 9.10 – Rilevato traffico mercantile in aumento, diretto verso i supermercati della zona.


All'ormeggio e in assetto da riposo

Ore 9.15 – All'uscita di Piazzetta Santa Barbara avvisto a ore 12 una nuova unità senza padrone e guinzaglio. Dopo lo scambio di annusamenti viene identificata come una cagnetta neutrale e disponibile di nome “Polly”. Il comandante in seconda alza la bandiera di combattimento e decide di andare all'abbordaggio tentando un audace speronamento poppiero. La cagnetta Polly mette in atto una manovra diversiva d’emergenza riuscendo a schivare l’assalto, allontanandosi con la coda abbassata in funzione di rete parasiluro verso la padrona sopraggiunta sul luogo dello scontro e con la quale segue un breve scambio di opinioni poco urbane, ma senza conseguenze.

Ore 9.20 – Faccio rientro in porto e ormeggio il “Le Breton” impolverato sul tappeto del salotto, per la gioia di mia moglie.

venerdì 10 giugno 2016

Dei suonatori lungocriniti in rotta per il Mar Nero tra Polifemi e lettere a Pinocchio.

Tutto sembrava filare a gonfie vele nell'appartamento padovano che mia madre aveva affittato per facilitarmi negli studi (che erano proprio l'unica cosa che non filava) anche perché, pur avendolo subito trasformato in alcova e centro permanente di dissolutezze e cazzeggiamenti vari, avevo perfino lucrato un trenta in sociologia, che allora lo davano anche al postino che portava le raccomandate, ma in famiglia, dato che lo ignoravano, ne menavo gran vanto. Una sera, però, arrivò la telefonata che mandò ogni cosa all'aria. Era la proposta di un'audizione e di una successiva scrittura per suonare come orchestra di classe turistica a bordo delle navi da crociera dell'Adriatica di Navigazione.

Come i miei lettori ricorderanno, oltre ad esplorare le frontiere del piacere con la mia Donatella (fate finta di crederci, si sa che in queste cose i maschietti esagerano sempre) e dell’alta gastronomia con il pulet à la merde, in quel primo anno di università mi dedicavo con grande trasporto al mio complesso rock, nato ancora ai tempi del liceo.

In quegli anni imparavi a suonare la chitarra anche per strada, da sconosciuti.

Prima di compiere l'errore dell'appartamento, l'altro grande sbaglio di mia madre era stato quello di regalarmi tra mille raccomandazioni perché non trascurassi lo studio (ma figuriamoci) una chitarra acustica in offerta stracciata da Barera, in Merceria. La chitarra in questione era di un orrido colore giallastro (che la rendeva invendibile a prezzo normale) e con una tastiera dura come un manico di scopa e a momenti ti pagavano loro purché la portassi via. Ma essendo un giovane di grande ingegno, sostituii subito le corde ruvide che scorticavano le dita con quelle lisce da chitarra elettrica per poterle “tirare su” e appena finito il doloroso apprendistato sul giro di do e il barrè dopo qualche mese la permutai con la mia prima chitarra elettrica, un’eccellente Zerosette Castelfidardo alla quale in seguito associaì una Fender Esquire a una piastra (che conservo ancora) e infine, la mitica Stratocaster di Jimi Hendrix (rivenduta quasi subito per cause sentimentali). Quindi, con altri quattro amici e compagni di classe tra i quali Emanuele che avevo persuaso subdolamente a fare il bassista (che per rimorchiare era la cosa più sfigata e dunque mica lo potevo fare io) fondai un complessino ad imitazione di un effimero gruppetto di Liverpool che allora andava tanto di moda ma di certo sarebbe svanito dopo il primo disco: The Beatles.
            
Gli inizi non furono brillanti, tanto che mia madre richiesta di un giudizio sul mio fragoroso accompagnamento di “She loves you” rispose gelidamente: “Davi l’impressione di un’armatura medioevale che rotola per una scalinata”. Questo, integrato da altri giudizi corrosivi sulla mia capacità di cantante, m'indusse presto a trasformarmi in chitarra solista. In ogni caso, del tutto corazzato contro i giudizi negativi che attribuivo comunque ad incompetenza, per un più completo adeguamento al ruolo mi lasciai anche crescere i capelli quasi sino alle spalle ed assunsi l’aspetto educatamente trasandato che poi caratterizzò anche l’imminente stagione dell’impegno politico. A causa del nuovo look affrontai stoicamente anche il martirio quotidiano del “Quando li tagli?” al quale mia madre, che per distinguermi da mio fratello con le sue amiche mi chiamava: “Il figlio lungocrinito”, si dedicava con impegno.


In versione "figlio lungocrinito", per la gioia di mamma.

Passavamo interi pomeriggi a provare in uno scantinato nei pressi della Misericordia, con gran sollazzo dei vicini e frequente arrivo dei vigili ed io, che nel frattempo mi occupavo di tutto fuorché di far progredire i miei esami di Giurisprudenza fermi a quell'unico voto, brigavo assai per ottenere una qualche scrittura seria che ci consentisse, finalmente, di abbandonare il circuito precario delle salette parrocchiali e delle festine private. Giunti alle soglie dell’estate del 1969, con un’abile strategia raccontai a mia madre che avevamo avuto una scrittura per una tournèe di alcune settimane nelle peggiori balere tra Jesolo e Lignano. Non era vero, ma servì egregiamente allo scopo perché lei, in piena crisi d’ansia, purché il suo bambino lungocrinito non finisse in certi postacci, ci trovò, grazie a sue amicizie del giro del bridge, una strepitosa scrittura per suonare sulle navi da crociera dell'Adriatica di Navigazione. 

Come si può immaginare, Donatella, nonostante le mie assicurazioni (poco credibili anche a me stesso) che avrei fatto il bravo ragazzo monogamo e fedele non la prese affatto bene e iniziò a tramare alle mie spalle, trovando ben presto appoggio in mia madre pentitissima che, non potendo rimangiarsi quanto promesso, con una tipica astuzia materna provò a sabotare la cosa inducendo la mamma di Emanuele a negare il permesso al nostro bassista.

L'Ausonia in uscita da Venezia. Durante le crociere estive suonavamo lì,
mentre d'inverno ci beccavamo quella carretta dell'Esperia.

Per loro sfortuna all'epoca leggevo con passione "L'arte della guerra" di Sun Tzu e dunque disponevo di raffinate strategie per contrattaccare. Tra queste, l'argomento forte era che avevamo firmato un contratto con penale incorporata ed era efficacissimo per tenere a bada quelle due e anche la madre di Emanuele, nota per il suo braccino corto e quindi spaventatissima dalla prospettiva di dover pagare dei soldi e così alla fine ci imbarcammo sulla motonave Ausonia dove, tra una crociera estiva ed una invernale (sull'Esperia) attraverso il Mediterraneo, tra Grecia, Turchia e Mar Nero, quella che doveva essere solo una scrittura di qualche mese si trasformò in due lunghi anni assai poco costruttivi dal punto di vista del mio impegno universitario (zero esami), ma sicuramente spettacolari per numero di esperienze e, siccome non siamo mica fatti di legno, anche di conquiste. Il cielo è vasto e l’Imperatore lontano” diceva un poeta cinese del medioevo per giustificare la dolce vita e i traffici illeciti nella remota isola di Haj-nan, e tale era il mio pensiero, anche se, tra tanta spensieratezza, capitava anche qualche episodio sfortunato.
 
sul ponte del'Ausonia in battuta tra le canadesi

Anche se, vedendomi così lungocrinito, il Commissario di bordo mi aveva spedito subito dal barbiere per via del decoro da mantenere a bordo, la mia prima preda, già al secondo giorno di navigazione, fu una traccagnotta americana afflitta, oltre che da cellulite precoce, anche da un vistoso strabismo (e subito gentilmente ribattezzata dai miei compagni: Polifemo) che, dopo una pomiciata notturna di routine sulle comode sdraio del ponte di passeggiata, già dal giorno seguente fu disinvoltamente rimpiazzata da una rossa lentigginosa, sempre americana e tutt'altro che malvagia.
Per alcuni giorni la traccagnotta scomparve di scena come inghiottita dal mare ed io non me ne diedi particolare pena, anzi, nemmeno la ricordavo. Tuttavia, una sera, mentre stavamo suonando “Homburg”, un pezzo dei Procul Harum di grande atmosfera, si spalancò di colpo la porta del ponte di passeggiata. Assieme ad una ventata di aria gelida e profumata del mare mi ricomparve improvvisamente davanti Polifemo grondante indignazione da tutti i pori e, come si intuiva dal suo incedere incerto, anche qualcosa di fortemente alcolico.  Colto l'attimo che precede la burrasca cercai di cavarmela con un sorriso accattivante e un cordiale: Hi sweetness! How are you?”, ma ci voleva ben altro. Polifemo, che ormai era lanciata sul piano della violenza fisica, dopo un insulto irriferibile in slang mi affibbiò due vigorosi ceffoni sul muso. Quindi girò i tacchi soddisfatta e si diresse al bar, per l’ennesimo gin fizz.

Ci fu un attimo di sconcerto in sala, ma siccome è regola aurea tra gli uomini di spettacolo che the show must go on, continuammo a suonare imperterriti, anche se io avevo la mascella indolenzita e le guance rosse come il fuoco e Lele suonava la batteria con una mano sola perché con l’altra si teneva la pancia dal ridere. A mio onore resta il fatto che, pur traballando vistosamente (Polifemo aveva due bracciotti sodi, da Popeye ingozzato di spinaci) nel doloroso frangente non avevo emesso neppure una stecca! Scoprii in seguito che, tra le oltre 250 fanciulle disponibili a bordo in classe turistica, per sostituire Polifemo ero andato a scegliere proprio la sua compagna di cabina. Quando si dice la mala sorte...
 
Sulla spiaggia di Rodi, con Violet, che Donatella non lo deve sapere...
            
Dal punto di vista musicale eravamo ormai diventati veramente bravini e l’armonia del gruppo era buona, tranne quando c'era da mettere mano al nostro repertorio che per forza di cose doveva essere vastissimo e comprensivo di tutti i generi, giacché si suonava allo stesso pubblico per quindici sere consecutive con altrettanti pomeriggi di piano bar dove era richiesta musica soft di sottofondo che veniva eseguita dal nostro pianista, da Emanuele al basso, da Lele alla batteria con le spazzole mentre i due chitarristi erano esentati e liberi di corteggiare le gentili ospiti ai tavoli.
C'erano, infatti, alcune canzoni che il nostro fantastico pianista, forte della sua raffinata formazione classica non si degnava di eseguire neppure per scherzo. Sua madre insegnava clavicembalo al Conservatorio e lui, con la sua naturale modestia, amava dire di sé che era stato messo al pianoforte all’età di tre anni, come Mozart. Pertanto, occorreva lottare duramente per convincerlo a suonare i brani nazional-popolari per gente di bocca buona. Tra le tante canzoni ripudiate c'era anche il popolarissimoCasatschok”, il ballo della steppa del piccolo cosacco, che francamente era una robetta ignobile e buona per le balere romagnole. Dunque capivo il suo disagio. Ma siccome si navigava su e giù per il Mar Nero e andava bene per i giochi dell’animatore, ci potevi scommettere che te lo chiedevano almeno una volta a sera. Così lui, estroso come tutti i cavalli di razza, boicottava regolarmente il pezzo mettendosi a fare il fenomeno, suonando di schiena e lanciando coriandoli e stelle filanti alle signore, possibilmente nelle scollature. Grazie a ciò avevamo tutti gli attacchi della pianola fuori tempo e sembravamo due orchestre distinte. Fino a quando le nostre invocazioni affinché un castigo divino si abbattesse su quell’essere malvagio, furono esaudite. 

Una sera, infatti, durante una breve pausa un bambino accompagnato dalla mamma mi venne a chiedere se sapevamo suonare la melensa “Lettera a Pinocchio” cantata da Johnny Dorelli. Ci fu un giro di occhiate complici tra me e gli altri aspiranti vendicatori e l’accordo per punire Mozart scattò istantaneamente. Accarezzai la testolina al pargoletto e indicandogli il nostro ignaro pianista classico che stava guardando altrove gli dissi: Noi non la sappiamo suonare, tesoro, ma so che il signore al pianoforte, che è tanto bravo e gentile, la conosce benissimo. Chiedila a lui e vedrai che la suonerà molto volentieri per te e la mamma, tutte le volte che vorrai!”. La mamma portò subito il piccino a parlare con il pianista che dapprima cercò di negare, ma siccome noi continuavamo a ribadire in coro “Guardi che la sa … dice di no perché è timido, ma se lei insiste vedrà che poi gliela suonaper tutto il resto della crociera il nostro Mozart dovette suonare il “Casatshòck” e anche Lettera a Pinocchio” senza più fiatare.
 
Nel porto di Odessa, con l'Ausonia attraccata alle spalle
            
Un altro testone di granito, musicalmente parlando, era Emanuele. Come bassista era tecnicamente bravissimo, freddo e preciso come un chirurgo svizzero, ma aveva una flessibilità mentale pari ad una barra di tungsteno al nickel. Di conseguenza aborriva il concetto stesso d’improvvisazione che vedeva come un angoscioso salto nel buio, tanto che quando Mozart eseguiva dei brani jazz al piano, lui veniva esentato. Trovava, infatti, le sue sicurezze nella pianificazione più meticolosa delle attività esistenziali ed ogni variazione imprevista di programma lo turbava profondamente sprofondandolo nel più cupo sconforto. Un giorno che gli avevo preso in prestito il dentifricio rimase seduto in mutande sul letto a guardarmi inerte per cinque minuti perché la sua programmazione prevedeva che il lavaggio dei denti avvenisse prima e non dopo essersi vestito.
            
Una mattina a colazione, tra un caffè e una brioche, avevamo deciso di cambiare tonalità a Gimme some lovin’” perché Vincenzo sosteneva di strangolarsi sempre nel cantarla e del resto bastava guardare come diventava cianotico e con le vene del collo ingrossate per credergli. Però, con grave mancanza, non solo di tatto, c'eravamo dimenticati di avvertire Emanuele, che, deposta la tazza del cappuccino, si era rapidamente rinchiuso in bagno giacché la sua pianificazione giornaliera prevedeva l’evacuazione subito dopo la prima colazione. Così lui la suonò nella vecchia tonalità per tutto il tempo, incurante delle nostre occhiate disperate.
           
Eccoci all'opera, io sono quello che tiene in mano
l'unica sigaretta della sua vita per fare il figo. 

Emanuele ci regalò, peraltro, anche momenti di grande imbarazzo la sera in cui quella vera calamità dell’animatore di bordo invitò il pubblico della sala a partecipare al gioco dei mestieri, con ricchi premi e cotillon. Si trattava di un giochino per imbecilli come del resto tutti quelli proposti ogni sera e che prevedeva di indovinare dopo una serie di domande il mestiere di due passeggeri scelti a caso tra il pubblico. Cose che annoiavano già ai tempi delle scuole elementari. Una dei due sorteggiati di quella sera era una vistosissima signora bionda ossigenata, truccata pesante e carica di bigiotteria come la Madonna di Pompei. Al momento della fatale domanda dell’animatore: Secondo voi, che mestiere fa questa bella signora? dimenticandosi di avere il microfono aperto Emanuele suggerì: La zoccola e l’insinuazione rimbombò a 120 watt d’uscita per tutta la sala (anche con l’effetto eco ed il riverbero) provocando un fragoroso scoppio di risate tra il pubblico, le proteste del marito della signora e le nostre scuse più contrite. Oltre ad un cazziatone del Commissario di bordo.

La mattina seguente, commentando l’episodio mentre facevamo colazione, quello scellerato ebbe il coraggio di lamentarsi che, avendo indovinato, avrebbero in ogni caso dovuto dargli il premio.      

lunedì 6 giugno 2016

Di Monastero, di Cavoleto e del signor Giuseppe, che ha fatto il militare a Gorizia.

Sabato quattro giugno, nel tardo pomeriggio. L’elfa mia consorte, il bretone ed io stiamo percorrendo a buona andatura una stradina stretta, tutta buche e tornanti,  immersa tra i boschi del Montefeltro rigogliosi di querce, cerri, faggi e carpini a perdita d’occhio. L’idea, visto che il tempo tiene e i nuvoloni scuri si sono spostati verso il mare, è quella di andare a curiosare nella zona senza una meta precisa giusto per fare venire l’ora di cena in albergo. Mi sto rilassando in tanta beatitudine agreste quando l’elfa inchioda bruscamente e inizia una perigliosa retromarcia per un centinaio di metri giacché la mia signora, proprio come la protagonista dei miei gialli (non è un caso), ha una guida spumantina e quando è dell’umore giusto riesce a violare il codice della strada a capitoli interi.
“Hai dimenticato qualcosa in albergo o ci sono i vigili con l’autovelox?”
“Ma noooo! Non l’hai visto?”
“Cosa dovrei aver visto?”
“C'è un cartello con scritto: abbazia benedettina dell'undicesimo secolo e la freccia indica che è su di là, andiamo a vederla?”
Ora, ben sapendo che dopo una rabbiosa retromarcia di cento metri con il rischio di  finire nel sottostante torrente Mutino, la sua era una domanda puramente di cortesia con risposta affermativa obbligatoria accetto e iniziamo a salire per un viottolo strettissimo e ripido, di quelli che li devi fare in seconda o anche in prima, che altrimenti non vai su. 

L'ingresso di Monastero di Piandimeleto bardato a festa

Dopo un altro paio di quei tornanti dove chiudi gli occhi perché ti vedi già che rotoli per la scarpata, sfioriamo una casa colonica con una grande siepe dalla quale schizza fuori un enorme cane dal pelo fulvo che si affianca alla portiera e abbaia furioso all'indirizzo del nostro bretone che gli risponde a tono dai sedili posteriori, perché lui se lo cerchi per baruffare lo trovi. L’inseguimento dura una cinquantina di metri e termina poco prima che finisca anche la strada trasformandosi in una carrareccia fangosa. Per fortuna, ci sono due contadini fermi con un trattore che quando mia moglie gli chiede dove sia la chiesa benedettina si mettono a ridere perché: “Mo te non vid un prit tra la niva bianca, signora… l’avete ben già passata, veh… è giù dietro le vostre spalle.” 
Tralascio per quieto vivere di tradurre all'elfa la faccenda che non avrebbe visto un prete (nero) in mezzo alla neve bianca e invertita la marcia torniamo giù dando l’opportunità  al cane fulvo di un nuovo inseguimento e scambio d’insulti canini con il nostro passeggero peloso. Effettivamente, la siepe della casa colonica con il cane (rientrato nei ranghi appagato di avercele cantate) aveva nascosto ai nostri occhi che alle sue spalle c’era un paesino da presepe con bellissime case in pietra nera da alto medioevo e anche la sua chiesetta con la torre campanaria, che dominava il tutto da un piccolo terrapieno.


La casa dove poi si dileguerà il signor Giuseppe, minacciato con la scopa.

Appena scesi dalla macchina ci dirigiamo verso un signore anziano intento a sistemare una grande ghirlanda di fiori ad arco messa all'ingresso del paese a mo di porta. Alle sue spalle, dove il viottolo lastricato che divide il paesino si allargava in uno spiazzo erboso che guarda la vallata, alcune signore stavano disponendo delle file di panche attorno ad un lungo tavolaccio apparecchiato e tra le case erano appese file di bandierine colorate. Nell'aria aleggiava un delizioso profumo di brace.
Mi avvicino per informarmi su che stia succedendo. “Buonasera, vedo che state preparando una festa qui. Cosa festeggiate?”
Il vecchietto sembrava soddisfatto che gli avessi rivolto la parola, perché non vedeva l’ora di parlare con quei due forestieri comparsi dal nulla.
“Questa sera, come ogni anno, portano su in processione la Madonna di Cavoleto che è il paese giù in basso… viene a trovare la sua collega qui di Monastero, la Santa Maria del Mutino. Stanno tre giorni assieme nella chiesa a poi la riportano giù. Viene in villeggiatura in montagna, insomma…”.
“Caspita! Una bella tradizione… immagino che sarà legata a qualche vicenda del medioevo, vero?”
“Ma no… non c’è nessuna storia particolare. Prima qui c’erano due parrocchie distinte ed era un modo per incontrarsi tra i fedeli. Ora ce n’è una sola, ma il parroco la processione la vuole fare lo stesso. Comunque, dopo che la Madonna è stata portata in chiesa c’è la messa e poi si fa festa (mi indica una cesta con una dozzina di fuochi d’artificio) e si cena, se volete fermarvi… ci sono le piadine con il prosciutto crudo e le costine d’agnello ”.

L'abbazia di Santa Maria in Mutino, dell'anno 1000, anzi del 1016.

L’elfa, conoscendo bene il suo pollo,  mi fulmina con lo sguardo prima che mi passi per la testa di accettare, perché le costine non le posso più mangiare e tanto meno il prosciutto (al massimo mi è concesso un assaggino, ma sa anche che io non sono il tipo da assaggini).
“Grazie, sarebbe bello rimanere con voi, ma ci aspettano per cena in albergo … comunque, mi tolga una curiosità: questa mattina a Frontino mi hanno sgridato quando ho chiamato piadina un cascione perché qui siamo nelle Marche. Com'è che lei le chiama piadine?”
“Perché le fa la Marisa, che è di Rimini… comunque le dovrei dire che stasera ci sono anche i passatelli al sugo d’agnello, ma tanto non facciamo tempo a servirli in tavola che il parroco li ha già finiti.”
“Capisco… forse questo spiega perché ci tenga tanto alla processione. Ma quanti siete qui a Monastero?”
“Oh, beh… adesso siamo in undici. Fino a qualche anno fa qui ci abitava anche una signora tedesca, tanto simpatica, che le dicevamo sempre che l’avevano dimenticata con la Linea Gotica, ma purtroppo ora ci ha lasciati…”
“Oh, poverina… mi dispiace…”
“Ma no, non è mica morta…  dopo la nevicata del 2012 che siamo rimasti isolati quattro giorni e c’era tanta di quella neve che non si riusciva nemmeno ad aprire la porta di casa, se n’è andata.”
“Davvero una gran bella nevicata, se è riuscita a spaventare una tedesca… però se qui a Monastero siete in undici, la frazione più grossa è Cavoleto, vero?”
“Eh sì… Cavoleto è ben più grande. Sono quarantacinque abitanti…”
“Infatti, volevo ben dire… comunque la Madonna che sale da Cavoleto la portate nella chiesa lì in fondo, giusto?”
“Sì, la volete visitare? Ve la posso aprire… è molto antica: è del mille e sedici.”
“Caspita! E’ addirittura dell’anno mille?”
“Del mille e sedici...” (i vecchietti romagnoli, quelli che se c’è scritto  che il limite è di 40 Km. loro con la 127 cromata vanno a 40 Km e puoi suonare quanto vuoi ma non li schiodi perché sono nel giusto e sei te che sbagli, sono precisini. Se sei approssimativo ti correggono subito. Qui eravamo di poco nelle Marche ma evidentemente lo spirito aveva passato il confine).
“Sì, scusi… volevo dire del mille e sedici.”
Strada facendo, siccome la leggendaria affabilità di queste parti fa sì che un romagnolmarchigiano appena entra in modalità empatica ti racconti tutto di sé, finanche il codice fiscale se non fosse difficile da ricordare, e pretenda altrettanto da te (che poi lascialo lavorare e vedrai che un qualche punto di contatto o una conoscenza comune lui la trova sempre) il nostro mentore c’informa di chiamarsi Giuseppe e appena gli riveliamo da dove veniamo, sbotta soddisfatto: “Siete di Venezia? Mo te guarda che combinazione… io ho fatto il militare a Gorizia.”. Che come punto di contatto non c'è male...


la Madonna di montagna che tra poco riceverà la visita di quella di Cavoleto

L'abbazia di Santa Maria del Mutino, nella purezza e semplicità delle sue linee da alto medioevo si rivela della bellezza attesa, ma, prima di aprirci il portone, il signor Giuseppe ci tiene a farci sapere che lui e solo lui l'aveva salvata perché quando sono venuti per restaurarla, quei "gnurènt" della ditta volevano montare la gru proprio davanti alla porta, ma lui sapeva che lì sotto l'erba c'era la volta della cripta che sarebbe crollata per il peso e allora aveva insistito finché quelli della ditta avevano messo due grandi binari in ferro da qui a qui (ci mostra accuratamente i punti esatti, perché lui è preciso) per reggere la gru e tutto era andato a posto. Anche l'interno della chiesa era molto bello e soprattutto l'altare meritava la visita, ma le sorprese non erano finite perché passando da una porticina e scendendo cautamente due rampe di scale buie e senza corrimano, si spalanca davanti ai nostri occhi un bellissimo chiostro, del tutto inatteso e proprio di fronte a noi svetta la torre di vedetta del borgo fortificato poi trasformata in torre campanaria dell'abbazia. Che però quei lazzaroni della ditta (sempre loro...), a sentire la nostra guida, l'avevano abbassata di ottanta centimetri perché altrimenti non potevano manovrare la loro gru e l'avevano fatto di nascosto, che quando hanno finito i lavori lui si ricordava benissimo che la torre era più alta. 

la torre campanaria che quei patacca dei restauratori l'hanno abbassata di nascosto
per poter manovrare la gru, ma il signor Giuseppe si ricorda benissimo che era più alta.

Comunque fosse, la visita guidata prevedeva anche un'ulteriore discesa agli inferi attraverso una nuova scala ripidissima, con gradini alti mezzo metro, piena di ragnatele e illuminata a stento dal telefonino in modalità pila. Il tutto per farci vedere dove i frati benedettini tenevano i cavalli con i quali si spostavano tra i monasteri e per dirci che ci doveva anche essere un passaggio segreto, che lui non era ancora riuscito a trovare. In compenso, a giudicare dall'odore di guano, dalla paglia per terra e dalle piume, qualcuno ci doveva tenere delle galline, ma ho preferito non rivelargli che forse il passaggio segreto non lo era più tanto.
Riemersi dalle viscere della terra e ritornati sul prato fuori dal portone della chiesa, stiamo ancora chiacchierando con il signor Giuseppe, che non ci molla più, quando mi accorgo che più in basso lungo la strada c'è una signora massiccia e incazzata che agita una scopa sbracciandosi all'indirizzo del nostro mentore. Non faccio a tempo a dirgli: "Credo che la signora voglia lei..." che ci giungono i suoi strilli da soprano. 
“Giuseppeee! Guarda che stavolta a ciap è sciop e at dag una sciupetada (prendo lo schioppo e ti do una fucilata). Perché li porti in chiesa, che ho appena dato la cera al pavimento?”.

L'elfa che ascolta pazientemente le storie dei benedettini che scappavano
a cavallo, di Napoleone e del passaggio segreto che ci deve essere.

Appena sentita la minaccia il signor Giuseppe, abbassate le orecchie come il bretone quando ne combina una delle sue, svanisce rapido come un cartone animato in una delle case lì vicino e a noi non resta che ridiscendere la strada per rassicurare la signora (che brandisce ancora la scopa) sul fatto che in chiesa eravamo rimasti sempre sulla passatoia e non avevamo toccato il suo pavimento incerato. Per fortuna la donna abbassa l'arma e ci sorride amichevole. 
No, ma non ce l’avevo mica con voi, veh… ce l’avevo con quel patacca del Giuseppe che trova qualsiasi scusa per non finire la ghirlanda di fiori che non gli piace brisa…tutti così questi uomini, vero signora? Quando c'è da lavorare se possono fanno sempre i ciacaròn”
Mia moglie allarga le braccia solidale.
“La capisco… d'altronde lui ha fatto il militare a Gorizia, e il mio nemmeno quello. Che ci vuol fare?”
Appena tornati in macchina e ripartiti guardo l’elfa e le dico: “Ma lo sai che forse ho trovato il posto dove vorrei trascorrere gli ultimi anni della mia vita?”
Lei annuisce ridacchiando: “Bene, allora aggiungilo all'elenco”.
“Quale elenco, scusa?”
“Quello dei posti dove ogni tanto mi dici che ci vorresti trascorrere gli ultimi anni della tua vita, che tanto lo so che dopo tre giorni mi telefoni dicendo di venire a riprenderti”.

Mi accomodai nel mio sedile senza più dir parola e rimuginando su come dopo trent'anni di vita assieme le mogli ti conoscano bene, ma proprio bene…