domenica 23 ottobre 2016

Dell'antica arte veneziana di navigare in laguna e di trovarsi le barche.


Come avevo promesso o minacciato, dipende dai punti di vista, con questo primo post  inizierò a descrivere il complesso rapporto che lega un veneziano “di laguna” (precisazione indispensabile, visto che per noi veneziani venuti al mondo ad "un ponte e una calle" da San Marco già dall'altra parte del Ponte della libertà inizia la campagna, con buona pace dei mestrini e di mia moglie) alla sua barca. Che non è come avere l’automobile per portare i figli a scuola, andare in ufficio o a fare le spese del sabato come in tutto il resto del mondo. La barca per noi è praticamente un’amante esigente alla quale dedichi cure, attenzioni, soldi (molti) e tutto il tempo libero che riesci a strappare alle tue giornate e ai tuoi altri amori (che di solito non la prendono bene), magari anche solo per stendere delicatamente la seconda mano di “lustrofin” sul fasciame della prora o per tirarla in secco e lavarla con la pompa e l'acqua dolce dopo un uscita in mare e magari ripulirne la chiglia dalle incrostazioni oppure per lucidarne le cromature con il Sidol (che se solo mia madre avesse sospettato l'impegno che ci mettevo mi avrebbe fatto lucidare subito tutta l'argenteria di casa). L'amore cieco ed assoluto che nutrivo per il mio barchino ha significato anche, in tempi in cui di soldi ne vedevo pochini, l'accettare per anni che in aggiunta al fitto mensile di 40.000 lire per il rimessaggio della barca (da pagare anche d'inverno quando non la usavi) ci fosse anche il puntuale pagamento di un pizzo "primaverile" di 135.000 lire. 

Il canale di San Piero di Castello, dove all'estrema destra si vede
 ancora la saracinesca del cantiere dove tenevo la barca.
Ah... il campanile è pendente di suo, non è difettosa la foto...

Questo avveniva perché ogni volta che mi recavo al cantiere di San Piero di Castello dove la tenevo per la prima uscita in mare della stagione quel tagliagole pellestrinotto del capo cantiere si presentava da me sostenendo che mentre provava in vasca il mio motore Johnson prima di riconsegnarmelo si era accorto che a causa del gelo invernale si era rotta la piccola elica in plastica del raffreddamento ad acqua e dunque me l’aveva cambiata d’ufficio, perché lui ci teneva ai suoi clienti e metti mai che mi si fosse fuso il motore in navigazione. Per convalidare la tesi mi mostrava ogni volta il pezzo sostituito, affinché vedessi quanto fosse rotto, e magari lo ringraziassi pure per la cortese sollecitudine. Purtroppo, però, il pezzo era sempre quello, tanto che nel corso degli anni avevo imparato perfino a riconoscerlo.

A chi si chiedesse come mai non cambiassi cantiere, ricorderò che a Venezia trovarne uno che accetti barche piccole e poco remunerative è un'impresa epica, un po' come trovare un posto al garage comunale di Piazzale Roma e, d'altra parte, lasciare incustodito e semplicemente legato ad una palina un barchino con un motore fuoribordo nuovo di zecca che chiunque può sganciare o mettere in moto è come lasciare una BMW aperta e con le chiavi nel cruscotto in qualsiasi periferia urbana. Occorre essere molto ottimisti per sperare di rivederla.

Tuttavia, in cambio di questi sacrifici la tua barca, permettendoti di girovagare per miglia tra le barene e le valli da pesca della laguna, da Punta Sabbioni sino a Chioggia, ti regalerà la libertà, le emozioni e le scoperte che nessun veicolo a quattro ruote ti potrà mai dare. Forse solo la moto, per la passione che sa suscitare e le emozioni che ti può offrire, può esserle paragonabile.

L'altra faccia della medaglia è che la tua barca ti donerà a volte anche la paura di trovarti di colpo avvolto nella nebbia fitta senza sapere più dove stai andando e con l'unica opzione di legarti ad una bricola nell'attesa che si alzi per non trovarti disperso chissà dove, oppure l'angoscia di vedere il mare diventare sempre più grigio e le onde incresparsi per il vento del temporale che sta arrivando quando sei lontano da ogni approdo. Magari ti offrirà il piacere di rimanere senza miscela in mezzo alla laguna perché hai fatto male i calcoli e quindi dovrai sorbirti due ore di voga a remi per raggiungere il distributore che c'è a Burano sperando non sia chiuso, oppure il brivido esotico di attraversare uno sciame di zanzare in mezzo alle barene come Humphrey Bogart  e Katharine Hepburn nella "Regina d'Africa", ma avrai anche lo scroscio di pioggia improvviso con l'acqua che ti entra anche sotto la cerata, sempre che tu non l'abbia ceduta (perché noblesse oblige) alla tua passeggera, nel qual caso scenderai a terra da strizzare come lo straccio dei pavimenti. Ma non dimentichiamo neppure il fottuto sacchetto di plastica che ti si avvinghia all'elica bloccandola e che ti costringe a calarti fuoribordo per tagliarlo con il coltello e la barca che ti si slega dalla palina mentre stai mangiando alle Vignole (perché a fare i nodi decentemente non lo ha mai imparato) così che ti toccherà raggiungerla a nuoto. Tutte vicende che, nel bene e nel male, vivrai però come delle avventure uniche, da raccontare e portare per sempre nei ricordi e che un giorno ti consentiranno di dire con orgoglio, come Pablo Neruda: "Confesso che ho vissuto", anzi, "che ho navigato" (in laguna).


Questa è una topetta con un 20 hp. Si distingue dalla Sanpierota
perché è leggermente più grande e ha la prora alta e arrotondata.
Notare che chi la guida si è portato la sedia da casa.

D'altronde, quanto la barca sia radicata nella nostra cultura lo dice il  fatto che in realtà ne abbiamo creati e utilizziamo anche oggi quasi un centinaio di modelli diversi, di ogni dimensione e per qualsiasi uso (e prezzo). Dalle pesanti Peate, i Burci e le Caorline panciute per gli spostamenti tra le isole della laguna fino alle Tope e alle agili Topette per trasportare le merci tra i canali, passando per tutta la numerosa stirpe che deriva dalle gondole (Sandoli, Sandolini, Pupparini, Vipere, Mascarette…) per finire con le tipiche imbarcazioni a chiglia piatta dedicate alla pesca e alla caccia in laguna come le bellissime Sanpierote dei pescatori, che potevi anche usare con la vela al terzo. Poi ci sono anche gli Sciopòni dalla carena larga (perché si tirava con lo schioppo alle anatre e non doveva ribaltarsi per il rinculo) i Cofani e, per l’appunto, i Caccia e pesca. Insomma, la dottrina vigente nella Serenissima Repubblica recita ancora oggi: a ciascuno la sua barca secondo i suoi bisogni (e il suo portafoglio). 

Topette e barchini corrono veloci lungo le Fondamente Nuove

La barca dei miei sogni l’ho incontrata all'inizio dell’estate del 1970 all’Hotel Des Bains, al Lido, passeggiando solitario lungo la battigia proprio come Gustav Von Aschenbach che incontra Tadzio e non riesce più a toglierselo di mente. Era lì sulla sabbia, tirata in secca dai bagnini e abbandonata a chiglia in su. Non si vedevano segni che ne facessero intuire un utilizzo da parte di un qualche ignoto padrone. Anzi, doveva essere lì da diverso tempo, forse anche dall'estate precedente, tanto che ormai aveva assunto l’aria inconfondibile del relitto trascinato dalle onde sulla battigia a seguito di un qualche tragico naufragio del tipo:  "...e la barca tornò sola!"
Il sole estivo e la salsedine ne avevano già stinto i colori e la plastica dello scafo da bianca e rossa che doveva essere in origine, appariva ormai di un tenue colore crema-albicocca. Anche le cromature del bordo apparivano intaccate dalla ruggine e saltate in qualche punto.

La scialuppa, che di questo si trattava visto che di lunghezza era poco oltre i tre metri e mezzo, veniva unicamente usata dai bambini per fare tuffi sulla sabbia o giocare alla guerra, oppure dai più grandicelli come porta da calcio. Questi usi impropri le avevano lasciato anche un segno indelebile, rappresentato da una fenditura lunga una spanna che correva nella parte centrale della chiglia. 
Io mi recavo ad osservarla quasi tutti i giorni con crescente interesse, in primo luogo perché giaceva non molto lontano dalla nostra capanna e in secondo luogo perché in quell'estate mi trovavo in uno dei periodici momenti tipo: “non t’impegni seriamente nel nostro rapporto, dunque è meglio che ci lasciamo” che hanno segnato la mia quadriennale e travagliata storia d’amore con Donatella negli anni dell’università. Ovviamente, quando una storia d’amore s’interrompe ci sono anche dei danni collaterali da considerare e, appunto, chiudendolo con lei il rapporto si era chiuso anche quello con la barca a vela di suo padre, ma questo per fortuna era solo in teoria.


E' giunta l'ora di rientrare in cantiere e il faro di Murano ci farà da guida
anche perché le Fondamente Nuove le hai davanti e come fai a non vederle?

Infatti, disponendo tra moglie e figlie di una ciurma tutta al femminile e decisamente da salotto, ma essendo  molto pragmatico come tutti i medici, quel brav'uomo anche dopo la rottura con sua figlia continuava ad invitarmi per qualche uscita in mare (all'insaputa di Donatella) perché non gli era sembrato vero di avere finalmente un marinaio di bordo capace di eseguire le manovre in un tempo accettabile e senza dover ricorrere agli urlacci. Dunque, non aveva intenzione di perderselo per le mattane della figlia. 

Tanto più che io sapevo anche cucinare il pesce ed eccellenti pastasciutte, mentre in tutto il settore femminile della sua famiglia nessuna andava oltre al petto di pollo ai ferri o alla fettina di fegato lasciata cadere con ribrezzo nella padella rovente e senza nemmeno infarinarla e, comunque, a parte Donatella che sapeva tenere decentemente il timone anche se ad ogni suo bordo repentino e senza preavviso il rischio di prendersi il boma in testa era elevato, l’atteggiamento medio dell’equipaggio era : “Voi fate pure le vostre manovre da uomini di mare che io mi metto in costume a prendere il sole a prora”. Dunque, la mia presenza a bordo era ritenuta strategica. Però, ora la faccenda funzionava solo per qualche uscita sino alla boa del miglio fuori da San Nicolò tanto per tirar su lo spinnaker e fare qualche bordo di quelli tosti con l’Alpa 9,50 inclinata ai limiti e il mare che entrava quasi nel pozzetto di poppa. Perché la barca del padre di Donatella, con molto senso veneziano dell'understatement era stata chiamata "Co' rivo, rivo..." (quando arrivo, arrivo...) però quando c'era del buon vento da stringere filava che era una meraviglia.


Un' Alpa 9,50 come quella del padre di Donatella (la foto non è mia)

Mentre le uscite brevi in laguna continuavano imperterrite, purtroppo a causa delle turbolenze sentimentali in atto mi erano invece precluse le favolose traversate notturne verso l’Istria vissute in precedenza. Quelle che dopo il primo turno di notte passato al timone restavo lo stesso sveglio (anche perché dormire nello spazio angusto della tughetta delle vele con Donatella che russava era impresa fuori dalla mia portata) a fumare e chiacchierare sul senso della vita con suo padre, sorseggiando whisky bevuto a collo per scacciare l’umidità e rivolgendo lo sguardo alle sciabolate di luce dei fari sulla costa per capire se le luci che punteggiavano l’orizzonte erano ancora quelle di Lignano o se eravamo già al largo di Grado e Monfalcone (le luci di Trieste che andavano su fino ad Opicina erano inconfondibili). Alla fine cominciavo a buttarmi acqua di mare gelida in faccia per rimanere sveglio e non perdere lo spettacolo dell’alba perché almeno una volta nella vita occorre vedere il disco del sole sorgere lentamente in mezzo al mare dapprima come un piccolo punto rosso sull'orizzonte che poi, in un crescendo tra bagliori rosa e arancioni, dissolverà gradualmente le tenebre. Ah.. naturalmente occorre guardare verso est, non verso ovest come avevo fatto io la prima volta, iniziando così a intaccare la mia reputazione marinaresca.


Vedere la costa dell'Istria alle prime luci dell'alba dopo una notte in mare
è un'emozione indescrivibile.

Alla mattina si gettava l’ancora nella baia di Rovigno o di Novigrad per farsi passare definitivamente il sonno con un bel tuffo nell'acqua gelida (e chi ha mai fatto il bagno in Istria sa bene quanto lo sia anche d'estate), poi, dopo aver fatto scorta di acqua e di provviste e ripreso il largo in direzione di Mali Losinj (Lussinpiccolo) e le Incoronate, se il vento era buono si incontrava all'imbrunire qualche isolotto accogliente come Dugi Otok (l'isola lunga), Susak (Sansego) e Ilovik (l'asinello) dove potevi attraccare a qualche pontile e scendere a terra per accendere il barbecue o un falò e cucinare alla brace il pesce che ti vendevano a cassette i pescatori sottobordo.  A volte trovavi anche della malvasia e quella Travarica d’erbe distillata in casa dai contadini che andava giù per la strozza come piombo fuso e dopo un bicchierino già ti sentivi brillo, ma ti faceva digerire anche il calcestruzzo. Capitava spesso, durante questi approdi, di fare amicizia con l’equipaggio di qualche altra barca all'ormeggio (di solito tedeschi, ma tanto tra la gente di mare ci si capisce sempre) con il quale poi si finiva a suonare la chitarra (la mia) e a cantare le gesta della “mula de Parenzo” che aveva messo su bottega e di tutto la vendeva "fora che el baccalà", finendo a far bisboccia sino a notte fonda. Ora, come ho detto, tutto questo non lo potevo più fare perché in tal caso avrei trovato a bordo anche il resto della ciurma e per me e Donatella sarebbe stata dura ignorarsi e non litigare condividendo gli spazi angusti di una barca a vela di soli nove metri. Tanto più che, come ho detto, a me e a lei di norma era destinata per dormire la tughetta a prora dove si tenevano i sacchi delle vele, che già era dura dividerla da innamorati, figuriamoci dopo.


Lo squero del Rio dei mendicanti, uno degli ultimi dove si costruiscono le barche

Per tutti questi motivi, avevo rispolverato il sogno mai sopito di possedere una barchetta tutta mia per esplorare la laguna e le sue valli e magari anche per “rimorchiare” (così quella stronzetta supponente impara che non c’è mica solo lei al mondo…) e quella barca abbandonata sulla sabbia era proprio lì a dirmi che con un po’ di buona fortuna avrei potuto compiere l’affare della vita, acquistare la mia prima imbarcazione e realizzare le più segrete ambizioni di navigatore. Si trattava solo di scoprire chi ne fosse il proprietario per vedere quanto avrebbe chiesto per liberarlo da quel rottame, che magari me lo avrebbe regalato pure. Purtroppo, pur avendo studiato letteratura inglese e conoscendo "La ballata del vecchio marinaio" di Coleridge ignoravo che per ottenere una maledizione sulle barche non è necessario uccidere un albatros, è sufficiente anche un granchio porro, il cui spirito evidentemente aleggiava su quel povero scafo abbandonato sulla spiaggia del Des Bains, ma cosa accadde, ve lo racconterò la prossima volta...
(continua...)

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