martedì 24 dicembre 2013

Auguri a tutti e arrivederci nel 2014

Carissime lettrici e lettori del mio blog, un grazie per la simpatia con cui continuate a seguirmi e tanti auguri per uno strepitoso 2014 con affetto e un abbraccio da tutti noi, bretone compreso. Sperando di riuscire anche per il prossimo anno a donarvi qualche sorriso con le nostre piccole storie e i ricordi di vita quotidiana e veneziana.


domenica 15 dicembre 2013

Cronache natalizie e di fine anno di un viaggiatore avventuroso suo malgrado.


Va bene, ormai ci siamo. La mattina c’è una nebbia gelida che ti si appiccica sul viso neanche fosse neve, per strada si scivola sul ghiaccio che ci vogliono gli scarponcini da montagna e la signora della casa di fronte ha appeso alla ringhiera del balcone la monumentale luminaria con Babbo Natale e le sue renne che di notte illumina ritmicamente la nostra camera da letto di luci rosse e azzurre, neanche fosse uno di quei TIR bulgari che incontri in autostrada. Dunque, tra qualche ora tirerò giù nuovamente l’albero di Natale dal suo ripostiglio e inizierò la lunga e sofferta opera di addobbo tra cavi attorcigliati in un nodo gordiano di lucine cinesi che poi non si accenderanno, palline azzurre, argento e oro regolarmente senza il gancetto per appenderle, la punta in cima che non ne vuole sapere di stare dritta, il bretone che continua ad annusare la base dell’albero con atteggiamento sospetto e lo sguardo severo dell'elfa in stile: “se non sei capace togliti e fai fare a me, che ti sta venendo un orrore…”. 

In tutto questo ho pensato che sarebbe stato bello scrivere un post in tema con le prossime festività e qui è iniziato il dilemma perché volendo risparmiare agli amici che mi leggono le solite tiritere retoriche e buoniste sul Natale e l’anno nuovo, che quelle le trovi da qualsiasi parte anche con poesia di Alda Merini incorporata, pensavo di raccontare qualche storia insolita e magari divertente. Il fatto è che avendo ormai diverse primavere alle spalle ho anche diversi Natali e capodanni da raccontare (...ma va?) e alcuni pure movimentati a dovere, ma proprio per questo non sapevo decidermi su quale scegliere. Potevo - che ne so? -  citare il Natale del trifulone piovuto miracolosamente dal cielo proprio alla vigilia, quando parlando con la nostra vicina di pianerottolo che era la simpatica e napoletanissima moglie di un colonnello della Guardia di Finanza mia mamma aveva appreso che tra i doni ricevuti dal marito c’era una specie di patata puzzolente che la signora non sapeva se buttare in spazzatura o meno. Così, essendo mia madre di Canelli, a mezza via tra Langhe e Monferrato, aveva subito intuito di che si trattasse e con un abile riflesso viperino si era offerta di provvedere gentilmente allo smaltimento della suddetta patata maleodorante liberando la nostra vicina dall’incomodo. Così il giorno del pranzo di Natale era apparso sulla nostra tavola un tartufo bianco di Alba (la trifula) grande come una palla da tennis, paradisiaco arricchimento per giorni di risotti e uova strapazzate. Potevo in alternativa dire di quel capodanno a Cortina quando un gruppo di incauti amici che volevano festeggiare l'anno nuovo con una polenta e salsiccia in una malga sperduta dalle parti della frazione di Alverà ci avevano affidato il compito di portare le bottiglie di champagne. Avendo indicazioni abbastanza vaghe su come si raggiungesse il posto, alla fine Donatella, io e i due amici che erano in macchina con noi ci siamo persi tra stradine che portavano in mezzo al nulla e tra cumuli di neve. Così a mezzanotte in punto per vincere il freddo e in spregio alla sorte avversa che ci impediva di compiere la nostra missione abbiamo stappato in macchina le bottiglie e dato luogo ad una delle più colossali bevute di  Moët & Chandon della storia, anche se, con una chiara caduta di stile, dovemmo berlo deplorevolmente a canna per la mancanza di flute (non chiedetemi come abbiamo fatto poi a tornare in albergo perché ricordo solo che eravamo tanto, ma tanto allegri).

Quando a Natale ci si divertiva con cose semplici

Magari avrei anche potuto raccontare di quel capodanno triste, solitario y final con tanto di strade e treni bloccati da metri di neve e struggente telefonata interurbana di auguri a moglie e figlio, trascorso al Roxy Hotel di Campobasso (che almeno Vasco Rossi si trovava come le star al Roxy Bar, che di certo era meno desolante) grazie ad un genio sabaudo che aveva messo in programma una mia docenza dal 27 al 30 dicembre, ignorando che in Molise quando nevica lo fa sul serio. Oppure, sempre in tema di capodanni solitari in albergo, citare quello vissuto molti anni prima all'Hotel Rosetta di Perugia, avendo colpevolmente ignorato il principio che non bisognerebbe mai litigare e lasciarsi con la propria ragazza il giorno prima di partire per le vacanze e quando hai già prenotato e pagato un’ intera settimana di soggiorno, ma tanto meno ruggire di virile orgoglio e dirle in tono di sfida: “Guarda che non ho bisogno di te, a Perugia ci vado benissimo da solo, non ti preoccupare” perché poi ti tocca farlo davvero se non vuoi perdere la faccia. Ma siccome a volte la sorte gira in positivo le sconfitte quando meno te lo aspetti, l’ultimo dell’anno ero già in camera dalle dieci, rintanato sotto le coperte a leggere un libro giallo con solo il pessimo umore a farmi compagnia quando alcuni minuti prima della mezzanotte suonò inatteso il telefono. Era il portiere che, essendo io l’unico cliente sfigato rimasto in albergo (ma dai?), mi proponeva di scendere giù nelle cucine dove il personale avrebbe stappato qualche bottiglia in allegria e aperto dei panettoni per festeggiare l’anno nuovo. Mi vestii in un lampo, scesi da basso e passai una serata simpaticissima, finendo perfino a cantare in coro delle canzonacce in dialetto umbro che purtroppo oggi ho dimenticato.


Eccomi in live concert a bordo dell'Ausonia, con una delle rare sigarette della mia vita.

Sempre rimanendo in tema di capodanni insoliti passati in viaggio ne avrei certamente da raccontare alcuni tra quelli trascorsi in navigazione, quando appena iniziata l’università non avevo trovato nulla di meglio per evitare di studiare che suonare con il complesso rock di cui ero chitarra solista a bordo delle navi dell’Adriatica come orchestra della classe turistica. D’estate si navigava sulla rotta per il Mar Nero a bordo dell’Ausonia che era l’ammiraglia della società. Una nave moderna, dotata di ogni comfort ed era un gran bel vivere, anche perché in classe turistica le belle figliole nostre coetanee si contavano a pacchi. Le crociere a bordo dell’Ausonia si svolgevano però solo tra luglio e agosto. D'inverno navigavamo, invece, a bordo dell’Esperia, una vecchia carriola rugginosa, semi-affondata a Trieste, rimessa a galla dopo la guerra e restaurata alla buona, soprattutto per quanto riguardava le caldissime e rumorose cabine interne di classe turistica dove alloggiavamo. La chiamavamo la Caienna, e non senza buoni motivi. Caratteristica dell’Esperia era quella di essere stretta e lunga e quindi di ondeggiare paurosamente con il mare al traverso. Prerogativa, questa, che era messa ancor più in risalto dal fatto di essere una delle ultime navi da crociera al mondo a non possedere uno straccio di aletta anti-rollio. E la cosa, per l’appunto, si notava parecchio. Pertanto l’Esperia era la nave ideale per godere di robusti mal di mare costituendo un opportunità davvero imperdibile per un appassionato del genere.

Gerusalemme sotto la neve (1973)

A questo si aggiunga che, essendo Genova il suo porto di partenza e arrivo per puntare verso Barcellona e Maiorca, durante il primo e l’ultimo giorno di crociera proprio quando si svolgevano le feste per il cenone di Natale e il veglione di capodanno, l’ Esperia transitava inevitabilmente nel Golfo del Leone. Ora, esistono al mondo alcuni posti fetenti dove se ci passi in nave puoi essere sicuro di ballare come un turacciolo in qualsiasi giorno dell’anno. Questi sono: Capo Horn, Il Capo di Buona Speranza, le Bocche di Bonifacio, Capo Matapan e il Golfo del Leone. Noi, per l’appunto, si ballava come turaccioli due volte a viaggio. La cosa funzionava così. Si partiva dal molo Garibaldi verso le due del pomeriggio, con la musichetta della banda, i ciao-ciao con la manina, i coriandoli, le stelle filanti e con il mare liscio come l'olio. Per le prime due/tre ore di navigazione i passeggeri, emozionatissimi e festanti, si aggiravano per la nave prendendo possesso delle cabine e curiosando in ogni locale disponibile (ivi comprese le sentine e lo sbratto di cucina). Noi si aveva il nostro bravo daffare a tenere a bada i bambini che venivano a curiosare tra gli strumenti (Lele ingaggiava vere e proprie zuffe per scacciare gli aspiranti batteristi e preservare le sue bacchettine...) e i soliti perdigiorno che volevano sapere seduta stante i titoli di tutte le duecento e passa canzoni del nostro repertorio per vedere se sarebbero state di loro gradimento. Verso le otto si aprivano le porte della sala dei buffet e la gente già in coda famelica dalle sette si avventava ad ingozzarsi di tutto quello che trovava, purché unto e bisunto. Nella corsa affannosa ai vassoi del cibo si vedevano scorrettezze plateali, con spintoni, tirate di giacca e gomitate da espulsione. L’epicentro degli scontri era soprattutto davanti ai branzini con la maionese e alle aragoste in bellavista. Anche il prosciutto di cinghiale tagliato a mano e la porchetta in crosta esigevano solitamente un alto tributo di sangue. Si vedevano madri in preda a crisi d’isterismo mandare avanti i bambini (intanto che papà prende i piatti e le posate...) con la stessa risolutezza con cui Napoleone muoveva i suoi battaglioni ad Austerlitz: "tu Paolino dirigiti alle insalate! Mariangela punta ai risotti! Giulio... vedi se riesci a conquistare la zuppa inglese...e tieni la posizione che mamma arriva con i piatti! ". Tutto questo nell'illusione che l’agile corporatura dei figli li agevolasse ad intrufolarsi nella calca e rischiando invece seriamente l’estinzione della prole perché in tali frangenti e sotto tutte le latitudini: "pietà l' è morta!"

Girando nel bazar di Gerusalemme ( 1973 )

Immancabilmente c'era chi, in preda a fame atavica, tentava di riempirsi il piatto perfino di parti delle sculture decorative in margarina surgelata raffiguranti il dio Nettuno e le Naiadi, provocando lo sdegno dello chef. Quasi tutti poi, temendo di restare senza cibo o di non riuscire più a condurre un secondo assalto con successo, dimentichi di essere nella vita di tutti i giorni dei raffinati ed esigenti gourmet, infilavano nello stesso piatto il roast beef, la zuppa di cipolle, i tortellini con la panna, le melanzane al funghetto e l’ananas al maraschino. Altri mangiavano direttamente davanti al vassoio duramente conquistato (fosse anche quello delle cipolle in agrodolce...), senza neppure ritornare al proprio tavolo. E, soprattutto, si ingurgitavano litri di bevande gassate e di spumanti, che costituivano degli ottimi propellenti. Alle nove, spazzolate anche le ultime briciole e sorbiti i caffè e gli amari, si aprivano finalmente le danze, con l'Esperia intenta ad un grazioso dondolio...

Poi la nave, verso le dieci, cominciava a beccheggiare sempre più sensibilmente e noi dal nostro palco vedevamo le signore e i signori in abito da sera diventare dapprima verdognoli e poi, attraverso varie sfumature, di un bel grigio plumbeo. Si vedevano le prime coppie abbandonare a precipizio la sala. Verso le undici, riuscivamo a suonare solo tenendo ferme le aste dei microfoni con le gambe e dopo aver assicurato con le corde alle colonne del salone gli amplificatori e il pianoforte a coda. Intanto, i camerieri accorrevano di gran lena con la segatura in varie parti della sala. Verso mezzanotte era tutto finito. La sala era deserta e i corridoi pullulavano di gente elegante in coda davanti alle latrine. Fino all’alba si aggiravano per la nave rari zombie verdognoli, mentre dalle cabine si levavano gemiti lamentosi. La mattina dopo, a tavola facevamo la conta dei superstiti e, soprattutto, vedevamo scorrere esclusivamente litri di brodino. Noi ci salvavamo grazie al fatto che ci nutrivamo di cose secche, senza bere alcunché e che prendevamo il Valontàn, anche se Emanuele sosteneva che il nome del farmaco derivava dal fatto che ti consentiva di non vomitare in cabina, bensì qualche decina di metri più in là.

Al Muro del pianto di Gerusalemme: un solitario sotto la nevicata (1973)

Avevo deciso di terminare qui il post ma poi ho letto che in questi giorni ha nevicato copiosamente sia al Cairo che a Gerusalemme e allora mi è tornata in mente un'altra avventura piuttosto insolita e con un bel brivido non solo di freddo che ho vissuto nei giorni attorno al Natale del 1973. Le foto che illustrano il post sono alcune tra quelle che ho scattato in quel viaggio. Ovviamente non spaventatevi: sono ancora qui a raccontarvela, dunque è finita bene.

Anche questa volta si trattava di una crociera invernale sulla navi dell'Adriatica (ma a bordo della minuscola Messapia) che feci una volta tanto in veste di passeggero su precettazione materna con l'ordine tassativo di fare da baby sitter a mio fratello Franco e un suo compagno di classe, tale Giovanni, che mi stava cordialmente sulle balle per via delle sue simpatie politiche di destra, quindi antitetiche alle mie. Sbarcati ad Haifa dopo la consueta tappa al Pireo per la visita di Atene e del Partenone ci imbarcammo su di un pullman granturismo ed iniziammo un tour di tre giorni per tutta Israele. La guerra del Kippur era finita dal mese di ottobre (per quello l'escursione aveva prezzi stracciati alla nostra portata) e dappertutto si respirava una tensione fortissima. Sul lago di Tiberiade pranzammo con gli spinosissimi pesci di S.Pietro, che ne giustificavano senza dubbio la santità, in un albergo enorme e deserto perché il gestore ci spiegò sconsolato che i Siriani, pur arretrati dalle alture del Golan, ogni tanto sparacchiavano ancora qualche colpo d’artiglieria dimostrativo che per mancanza di gittata finiva in mezzo al lago sollevando alte colonne d'acqua. Ovviamente i già scarsi turisti non erano propensi a credere che non ci fosse alcun pericolo. Anche sulle rive del Mar Morto lo scenario non cambiava e a parte noi e gli equipaggi di due mezzi blindati intenti a far toeletta e a sgranchirsi le gambe (uno dei carristi, incurante della nostra presenza, orinava tranquillamente contro i cingoli del suo mezzo) non c'era anima viva ad aggirarsi tra gli sparuti chioschi e negozietti di souvenir. Questo, assieme al colore fangoso dell’acqua e all'aspetto da pietraia della spiaggia, accresceva il senso di desolazione del luogo. Sicuramente di maggior soddisfazione era il versante del paese che dava sul deserto del Neghev (un mare affascinante e senza fine di montagne e sabbie grigio-rosse, attraversato dagli aliti di un vento freddo e odoroso di sterpaglie). Anche lì, però, la violenza della guerra appena finita era ricordata da alcune carcasse d’automezzi anneriti ai lati della pista e da chilometri e chilometri di fortificazioni, postazioni di mitragliatrici, antenne radar e reticolati fittissimi. Nel cielo sfrecciavano in continuazione, lasciando lunghissime scie bianche i Phantom e i Mystère con la stella di Davide. In tutti i luoghi santi dei vari culti sostava sempre un blindato in assetto di guerra e spesso e volentieri ti facevano aprire le borse ed eri perquisito accuratamente.

Incontri sulle rive del Mar Morto (1973)
In questo clima non troppo rassicurante arrivammo verso sera a Gerusalemme dove stava scendendo da ore una copiosissima nevicata. Il che non era poi una cosa tanto insolita per una località che, anche se pochi ci pensano, è a 760 metri d’altitudine. Sarebbe bastato ricordarsi la storia della nevicata di duemila anni fa, della grotta di Betlemme e del bue e dell’asinello per comprendere che a volte da quelle parti d’inverno fa freddo come in Val di Fassa e quella era una delle volte. Per colmo di malasorte, ci avvisarono (dopo una frugale cenetta kasher a base di yogurt, cipolle e cetrioli) che, per un disguido dell’organizzazione e per via di un volo charter che non era partito per la neve, nel nostro albergo non c'era più posto e che quindi ci avrebbero portato a pernottare in un villaggio turistico sulle vicine colline di Bethania (nel territorio della Cisgiordania occupata) che, pur chiuso nel periodo invernale, sarebbe stato riaperto solo per noi. Giunti verso le undici di sera al villaggio, un grumo di casette isolato in mezzo alle colline, prendemmo posto nei bungalow che si sparpagliavano in un buio bosco di cedri. Dopo un chilometro di passeggiata notturna tra stradine e vialetti a Franco e Giovanni toccò il penultimo bungalow del villaggio e a me l’ultimo, che aveva anche la lampadina dell’ingresso fulminata e tutt'attorno non si vedeva una cippa di nulla.

Così mi ritrovai solo e soletto in una stanzetta gelida e dall'odore di muffa tipico dei locali chiusi da mesi (con bagno, angolo di cottura e condizionatore d'aria, ma nessuna traccia di termosifoni...) e mi spogliai parzialmente per andare a dormire, infilandomi in un letto talmente impregnato di umidità da farmi battere i denti. Dopo una ventina di minuti stavo ancora cercando di prendere sonno e di riscaldarmi appallottolato nel copriletto di ciniglia e nel pelo del giaccone di montone, quando avvertii intorno alla casa un rumore di passi furtivi. Allarmato, mi misi a sedere sul letto e chiesi ad alta voce: "Franco, sei tu? ", ma non ottenni risposta. In compenso i passi cessarono e si sentì distintamente un rumore metallico. Un "Ta-clak!" come di un otturatore di fucile quando si mette il colpo in canna. Pensai che un eventuale animaletto del bosco sarebbe stato senz'altro capace di fare passi furtivi, ma non di armare un fucile e così, con il cuore in gola, mi alzai e salii su di una sedia per sbirciare all'esterno dalla finestrella della cucina. Nella mia mente, intanto, si affollavano ipotesi sempre più tragiche sull'identità e le intenzioni di un qualcuno che si aggirava armato in quella terra e in quella notte da lupi. Fuori, però, solo buio pesto e vento sferzante. Non si sentiva più alcun rumore.

nella città vecchia di Gerusalemme (1973)

Restai qualche istante in attesa di un segnale di vita, trattenendo il respiro. Tutto taceva. Che se ne fossero andati? Decisi quindi, con il coraggio incosciente dei fifoni, di tentare una sortita. Così spalancai la porta d’ingresso e... mi trovai la canna di un Kalashnikov premuta con forza sullo stomaco! Lo impugnava un tizio con il volto seminascosto dalla keffiah e i cui occhi non promettevano nulla di buono. Con le mani tenute bene in alto, mentre aspettavo la raffica che avrebbe posto fine ai miei scriteriati giorni, trovai la forza di biascicare: "I’m italian... amico... friend ...Venice." e per una frazione di secondo fui attraversato dal pensiero che assai poco dignitosamente mi apprestavo a morire in calzini, mutande e canottiera. Da sotto la keffiah spuntò invece un sorriso a trentadue denti, del tutto inaspettato. Subito dopo, abbassando finalmente il mitra, il tizio mi rianimò con una serie di cordiali manate sulle spalle, affermando tutto allegro di essere una sentinella e subito dopo, avendo notato il mio abbigliamento, cominciò anche a ridere senza ritegno.
Di fronte a tanta ilarità (niente affatto condivisa) il mio primo impulso, lo confesso, fu di rivelargli cose poco edificanti sul vero mestiere della sua mother e della sua sister, ma poi, considerando che non era il caso di entrare in polemica con un giovanotto così affabile e, soprattutto, ben armato, mi limitai ad accasciarmi sulla seggiola della cucina con le pulsazioni a duecento. Mi sfuggì solo un sommesso: "ma va in mona" che sicuramente il giovanotto non era in grado d’intendere. Un secondo invito ad andare “in mona” (accompagnato questa volta dal lancio di una scarpa) lo rivolsi in seguito a Franco e Giovanni quando venti minuti dopo l’accaduto si affacciarono alla porta del mio bungalow chiedendo se fossi stato io chiedere aiuto.

La mattina seguente rividi il mio incubo notturno che faceva colazione assieme agli altri gitanti nel corpo centrale dell’albergo, con il suo monumentale mitragliatore ben appoggiato al tavolino (e, bontà sua, mi gratificò ancora di molti cordiali sorrisi). Costui, mi venne poi spiegato, era un contadino che durante la chiusura invernale sorvegliava per conto della direzione dell’albergo i bungalow per impedire i furti. Non essendo stato avvisato del nostro arrivo aveva pensato che ci fossero dei ladri in azione e si era comportato di conseguenza. Mi domando ancora oggi, però, e non senza apprensione, cosa sarebbe successo se il giovanotto, pur così cordiale, fosse stato appena un pochino più impulsivo con il grilletto del suo Kalashnikov.

Bene.. ho scritto davvero troppo e la finisco qui. Per farci gli auguri, ci ritroviamo su queste pagine tra qualche giorno. Ora vado a montare l'albero...

domenica 17 novembre 2013

Dell'acqua alta, del vento rabbioso di tramontana e di quel 4 novembre del 1966


Cielo color piombo, pioggia battente da tutte le parti, vento teso e gelido che ti rovescia l’ombrello e s’intrufola anche sotto il giaccone scacciando i tepori della felpa in pile e facendoti stringere i denti dal freddo, visto che ormai il cappuccino bollente ingurgitato al bar sotto casa è un ricordo lontano. Cammino già da un’ora tra i campi e le stradine sterrate dietro via Asseggiano con i jeans fradici sino al ginocchio e le scarpe e le calze intrise d’acqua mentre il bretone, che ormai sembra un mocio Vileda a quattro zampe, trotterella imperturbabile al mio fianco (dannati cani da caccia abituati ad andar per campi con ogni tempo) spostandosi pigramente di cespuglio in cespuglio e di albero in albero per marcare il territorio. All'improvviso, mentre come spesso accade in queste circostanze estreme mi sto domandando perché mai non avessi scelto un sedentario cagnolino da salotto, sento risuonare il cellulare con le note imperiose della Radetzky March, la musica che non casualmente ho associato al numero dell'elfa dopo un lungo e sofferto ballottaggio con la Marcia Imperiale di Guerre Stellari.



In tanti hanno cantato la Venezia turistica da cartolina, ma pochi hanno saputo 
cantare quella popolare, le sue emozioni e la sua vita come Alberto D'Amico.
Questa sua bellissima canzone mi emoziona ancora oggi.

Così, dopo aver strillato “Sitzen! Stai seduto!” al cane, che gli ordini in tedesco riescono sempre efficaci, mi riparo sotto un albero per riuscire ad estrarre il Nokia dalla tasca posteriore dei jeans maledicendo di non avere tre mani per tenere ombrello, guinzaglio e telefono contemporaneamente. Alla fine, tenendo stretto il guinzaglio tra le ginocchia e il cellulare tra spalla e guancia (che l’ombrello lo devo tenere con due mani, altrimenti il vento me lo strappa via) riesco a parlare. L'elfa, dopo aver esordito con l'atteso: "Era ora! Ma quanto ti ci vuole a rispondere?" mi dice di non aspettarla per pranzo perché forse dovrà andare in tarda mattinata a Rialto per sbrigare delle faccende di lavoro ma che però ha letto su internet che c'è lo sciopero dei vaporetti e anche l'acqua alta con punte ben oltre il metro, cioè di quelle che mandano sotto mezza città. Mi chiede quindi se le conviene andare per i Frari o per San Polo e la pescheria che sono le vie più brevi aggiungendo di guardarmi bene dal fare le solite ironie su quelle di terraferma che non sanno girare per Venezia (mio figlio sono riuscito a recuperarlo su questo punto ed ora è quasi autonomo, lei no).

Dopo averla rassicurata che non avrei fatto ironie di sorta perché tanto se l'era già fatte da sola, le spiego che se davvero è previsto oltre un metro di acqua alta in certe calli di quel percorso non ci passerà mai. Inoltre, anche raggiungendo il traghetto delle gondole di San Tomà, poi  per tornare verso Rialto doveva percorrere una calle che si chiamava Piscina San Samuele ed era libera di scoprire il perché. Le chiedo invece come mai non voglia fare il percorso per la Strada Nova che forse sino al campo dei Santi Apostoli ci arrivava con i piedi asciutti ma lei risponde che è troppo lungo e mi domanda se posso suggerirle qualche percorso alternativo. Ora io lo avrei anche qualche possibile percorso alternativo tra calli e campielli "sconti" da suggerirle, ma sono sicuro che una di terraferma come lei ci si perderebbe in un amen, dunque rinuncio in partenza per non consumare la batteria del cellulare in lunghe spiegazioni ad una che, oltretutto, è spumantina di carattere e si spazientisce facilmente. Siccome il rischio di dirle “appena sei ai Frari gira per la calle che fa angolo con il negozio di elettrodomestici” che magari nel frattempo è diventato una bottega di paccottiglia per turisti è alto, vorrei evitare di ricevere la telefonata frizzantina di una che si è persa tra le calli a causa mia.

In piazza con l'acqua alta e mio fratello con l'orrido cappellino
 impostogli dai nonni grazie all'arrendevolezza dei suoi 11 anni.(1963)

Così gioco la carta subdola della dissuasione affettuosa e le dico di considerare il fatto che se anche fosse riuscita ad arrivare a Rialto, probabilmente la Riva del carbon era già mezzo metro sotto acqua, quindi tutto si sarebbe risolto in una perdita di tempo, per non dire della pioggia e del vento che le garantivano un bel raffreddore. La mossa funziona, perché dopo il previsto "Quando ti si chiede una cosa non mi aiuti mai" m'informa di aver deciso di andare a Venezia in un altro momento, che tanto non non era poi così urgente. Nella soddisfazione dimentico però che occorre sempre temere l'ultima freccia avvelenata dell'elfa, così la mia arciera preferita riesce a scoccare un "Prendi tu il pane e il latte che io non ce la faccio" e poi chiude la telefonata. In tal modo non faccio a tempo a replicarle che, sempre per via della faccenda della terza mano mancante, forse la bottiglia del latte potevo anche infilarla nella tasca del giaccone ma il sacchetto del pane avrei dovuto tenerlo con i denti. Per fortuna, siccome una certa genialità di fondo non mi abbandona mai, realizzo che posso usare il manico dell'ombrello come un gancio per appendervi la borsa del panificio e così il problema è risolto.

Sistemata la consorte, sulla strada del ritorno, visto che ormai ero in tema, mi tornano in mente le acque alte di quando andavo a scuola e che talvolta tra il giubilo generale significavano niente lezioni perché qualche professore risultava non pervenuto assieme a tanti compagni di classe. Io, purtroppo, ero stato dotato di stivaloni di gomma sino al ginocchio e dunque non potevo esimermi, perché anche se non li avessi avuti mia zia all'epoca insegnava matematica e fisica nel vicino liceo scientifico e se ci arrivava lei non potevo non farlo io, visto che facevamo lo stesso percorso. Poi, davanti al portone del Liceo Foscarini, la cui fondamenta era molto bassa e tra le prime ad essere allagate, c'era sempre il preside Pareschi ad organizzare le squadre di soccorso degli studenti "stivalati" ai colleghi e ai compagni di classe bloccati in calle Racchetta o sul ponte dei Gesuiti. Che voleva dire caricarsi le persone sulle spalle e portarle di peso sino davanti al portone. Ovviamente le attenzioni maggiori erano riservate alle compagne di classe che venivano sempre messe in salvo con molta cura, soprattutto le più carine che venivano spesso issate sulle spalle facendo leva su punti anatomicamente rilevanti. Il professore di chimica, il temuto "Checco" gioia e delizia di intere generazioni di foscariniani, veniva spesso dimenticato sul ponte dei Gesuiti, che se lo pigliassero i bidelli.

Mio fratello davanti ad una passerella portata via dalla marea
 e con addosso uno dei giacconi di montone grezzo che avevamo preso
a Gerusalemme e che nostra madre appendeva fuori sul balcone perché
a suo dire puzzavano troppo da pecora per stare in casa.

Le stesse operazioni di salvataggio le avrei vissute diversi anni dopo quando, lavorando all'epoca alla Banca Commerciale che mi aveva incautamente assunto (del resto nemmeno io mi capacito ancora del perché fossi entrato in una banca essendo del tutto negato per quel mestiere), il direttore ci mandava a recuperare i colleghi che venivano da Mestre. Il problema era che la nostra banca per evitare lo scoccare di indebite scintille amorose o corteggiamenti tra colleghi e anche per una certa misoginia congenita, aveva poco personale femminile e quel poco che c'era era stato selezionato anche in base a rigidi criteri estetici. Infatti, come avvenenza le nostre colleghe rivaleggiavano con la signorina Silvani di Fantozzi e spesso perdevano la tenzone. L'unica che si salvava ed era decisamente carina era una nuova impiegata di Treviso, credo assunta per una raccomandazione. Infatti, c'era una vera e propria gara tra i colleghi per localizzarla e salvarla che spesso era risolta brutalmente con criteri gerarchici. Io, essendo all'epoca felicemente e fedelmente accasato con Donatella e non intendendo partecipare a quella competizione indecorosa, mi limitavo a portare all'asciutto gente che mi stava simpatica e una volta anche una famigliola di turisti americani bloccati sul ponte di San Moisè, che poi volle a tutti i costi lasciarmi "ten dollars" di mancia, che conservo ancora come il primo dollaro di Zio Paperone.

Poi, però, sarà per quel vento di tramontana che non aveva smesso un attimo di flagellarmi assieme alla pioggia, sarà per quello che avevo appena ricordato ma mi torna improvvisamente alla memoria anche quel drammatico 4 novembre del 1966 quando Firenze e Venezia vennero invase dalle acque con tutto quel che ne seguì. Quella notte di tregenda in cui il mare in tempesta spinto da un vento fortissimo ruppe gli argini ai Murazzi del Lido rischiando di spazzar via in un colpo Pellestrina e Malamocco  (si seppe solo dopo quanto si fosse andati vicini alla tragedia) e allagando la città io partecipavo tutto in ghingheri e vestito da gran sera alla festa dei 18 anni di una ragazza di quella buona borghesia veneziana che allora frequentavo e m’invitava perché non giravo ancora per i cortei a prendere manganellate con il Manifesto che spuntava dal tascone dell’eskimo e la sciarpetta rossa di cachemire (dono ironico di mia madre al suo figliolo lungocrinito, rivoluzionario di bon ton). Tra una danza e l’altra avevamo sentito più volte il lamento lugubre delle sirene dell’acqua alta, quel suono che a mia nonna ricordava i bombardamenti e sbiancava in volto ogni volta che lo ascoltava, ma nessuno ci aveva fatto caso anche perché da noi nei mesi classici dell’acqua alta la cosa è normale. Poi, verso le due del mattino, con ancora la festa nel vivo e molta gente che stava ballando, visto che un po' mi annoiavo decido di tornare a casa. Saluto e ringrazio la padrona di casa, scendo e alla luce fioca della lampadina delle scale mi pare di vedere che la palladiana dell’androne stia tremolando. Mi fermo sorpreso, ma poi penso si tratti solo di qualche bicchierino di troppo, così scendo quell'ultimo scalino e mi trovo sgradevolmente con l’acqua gelata alle caviglie.

Gatto che spunta dal buio di un sotoportego (1970)
Diversi gatti ci lasciarono le penne quella notte. A loro, che sono
parte dell'anima veneziana, va il mio pensiero commosso.

Maledico le maree e chi le ha inventate, apro il portone, scendo altri tre scalini che non ricordavo e l’acqua arriva di colpo alle ginocchia. Sorpreso dal trovarla così alta faccio istintivamente qualche passo in avanti per guardarmi attorno e in quel momento salta la luce in calle e in tutta la zona. Sento grida di sorpresa provenire dalla casa che ho appena lasciato, ma ormai il portone si è chiuso e il campanello, ammesso che riesca a ritrovarlo in quel buio, non funziona più. Provo a gridare, ma nessuno scende ad aprire o nemmeno mi sente. Così, siccome la casa dei miei nonni e di mia zia è solo a qualche calle di distanza e per fortuna ho anche le loro chiavi decido di raggiungerla. Quelle poche calli però si rivelano presto un cammino angosciante. Non ho punti di riferimento e cammino a tentoni come in un labirinto cercando di capire dove c'è il muro, ormai l’acqua mi arriva all'addome, sono mezzo congelato da quel bagno nell'acqua gelida e sporca e inizio a sentire anche un forte odore di nafta che fa girare la testa. Da qualche finestra si vede tremolare la fiammella fioca di una candela, per il resto è tutto buio pesto e non si sente alcun rumore, se non il miagolio straziante di un gatto rintanato da qualche parte e che deve passarsela male anche lui. Poi, per fortuna, dopo qualche minuto sento delle voci, mi faccio sentire e incontro due vigili con gli stivaloni e una torcia elettrica che mi dicono che c'è un vero disastro in città e mi ordinano di mettermi subito al sicuro, così mi faccio scortare sino a destinazione (che poi bastava girare l'angolo e fare un ponte ed ero arrivato).

Certe calli sono buie anche con la luce, figuratevi che bello percorrerle
senza e in mezzo all'acqua gelata...

Come salgo dai nonni, mentre la zia alla luce di un candelabro mi prepara un tè bollente e mi porta dei panni asciutti, provo a chiamare mia madre per tranquillizzarla, ma tutte le centraline telefoniche sono saltate e il telefono non dà alcun segnale. Aspetto sveglio le poche ore che ancora mi separano dal chiaro, poi poco prima delle sette esco per cercare di raggiungere casa mia, in Corte dell'Alboro. Il vento ancora forte continuava ad impedire alla marea di defluire dalle bocche di porto e quindi l'acqua non era affatto calata e in calle c'era ancora almeno mezzo metro. Così mia zia e la nonna, dopo aver rinunciato a convincermi che non era il caso di uscire di nuovo, mi aiutano ad imbragarmi alla meno peggio per affrontare la traversata. In casa c'è un paio di stivali di gomma, ma sono del tipo basso e quindi inutili. Però mia zia ha una specie di tuta in plastica che usa per sudare e perdere chili pedalando sulla cyclette. Il set è composto da una giacca e dei grossi bragoni argentati che si possono stringere sulle caviglie e alla cintura. Indosso solo i pantaloni gommati sopra una vecchia calzamaglia in lana del nonno e infilo i piedi dentro dei sacchetti di plastica della spesa e poi dentro gli stivali, sigillando il tutto con lo scotch da pacchi. La nonna insiste per strofinarmi le gambe con l'olio canforato per il freddo, ma rifiuto energicamente. Poi, sentendomi bardato come un palombaro, scendo in calle con la zia e la nonna affacciate in ansia alla finestra per vedere come procede il varo e inizio a camminare lentamente verso campo San Bartolomeo. Come ci entro dal sottoportico della Bissa per poco non mi scontro con un tizio che sta vogando sopra un sandolo. Lo spettacolo è incredibile: ci sono almeno altre tre barche e in acqua galleggia di tutto, compreso un gatto morto. C'è anche molta nafta uscita dalle caldaie delle case e l'acqua è lurida e maleodorante.

Due giorni dopo nei canali galleggiava ancora di tutto

Guardo le vetrine del negozio della Luisa Spagnoli e vedo che dentro ci sono vestiti che galleggiano e altri messi in salvo alla meno peggio con gli espositori sopra il bancone o appesi sugli scaffali più alti. Procedo ancora verso San Salvador e all'inizio delle Mercerie ci sono altre barche e soprattutto decine di scatole da scarpe e di cappelli di Marforio che navigano con loro. Però la zona è bassa e dunque il livello dell'acqua inizia a salire ancora. Ormai ce l'ho a metà del petto e sento che avendo superato la cintura sta iniziando ad entrare nei pantaloni appesantendomi le gambe neanche fossero di piombo. Così appena salito sul ponte dell'Ovo, all'asciutto (si fa per dire) scopro di assomigliare all'omino Michelin, con le braghe comicamente gonfie di litri d'acqua e allora decido di togliere tutto lo scafandro e di proseguire seminudo in calzamaglia, che tanto se proprio devo congelarmi almeno provo a camminare veloce.


 Le immagini di quel 4 novembre del 1966 
che portò ore drammatiche a Firenze e Venezia

In effetti la cosa funziona e grazie anche al fatto che le altre zone da attraversare erano più alte e l'acqua arrivava solo alle ginocchia arrivo finalmente a casa e trovo mia madre serafica in salotto che dopo un bacetto mi dice "Oh! bene, meno male che sei arrivato...asciugati, mettiti gli stivali alti e vai a prendere tuo fratello che è uscito a cercarti cinque minuti fa, dovrebbe essere ancora in campo."
La guardo stupito. "Scusa, ma non eri preoccupata per me?"
"Proprio no, quando mi sono svegliata questa mattina e ho visto l'acqua alta fin sul portone ho immaginato che o avevi dormito dalla tua amica o eri andato dai nonni. Sei stato da loro, vero?"
"Si... certo."
"Lo vedi? Avrai tanti difetti, ma su questo sei come me, quando serve te la sai cavare sempre. Lo so benissimo, altrimenti mica ti manderei in giro, cosa credi?".
Mia madre, che come tutti gli artisti era piuttosto stravagante anche nel modo di farmi gli elogi, spesso mi lasciava nel dubbio che non si trattasse invece di un'ironia, ma in quel caso sentivo che era davvero un complimento e la cosa mi rende ancora orgoglioso oggi.

domenica 30 giugno 2013

Dei blog in stand-by per sovraccarico d'impegni

Lo so bene che stavo andando a rilento nel pubblicare i miei racconti sul blog procedendo al ritmo di uno al mese quando andava bene ma, anche se non l'avevo ancora rivelato, il motivo era ed è che da maggio sono molto impegnato a scrivere il mio settimo libro (titolo provvisorio: Noblesse oblige, ma anche no) che vorrei provare a consegnare per la revisione delle bozze almeno a settembre (tanto so che poi la figuraccia del ritardo la farò lo stesso). A questo si è aggiunta pochi minuti fa la telefonata di Simone Laggia, il direttore della compagnia teatrale La Vanguardia Nonsensista con la quale ho collaborato(e recitato)  per la messa in scena della mia Ars amandi veneziana per annunciarmi l'intenzione di andare in scena il 28 luglio nell'ambito della consueta rassegna teatrale all'aperto a Marghera con la farsa inedita in un atto "L'Appartamento al ponte delle tette" (esiste davvero e si chiama così perché anticamente le cortigiane, sfidando bronchiti e pleuriti, stavano alla finestra a petto nudo per invogliare i passanti) che avevo scritto su misura per loro lo scorso anno. 

Ars Amandi Veneziana: la scena del ristorante veneziano
con il povero Carlo sgomento di fronte all'appetito imprevisto di Donatella
e alle prese con il cameriere pagato a percentuale

E' una sorta di vaudeville alla Feydeau che vede come protagonisti una coppia male assortita di studenti universitari, uno timido e impacciato, l'altro rodomonte e donnaiolo e coinquilini di un appartamento veneziano che di volta in volta li vedrà ospitare le rispettive ragazze, con scambi di amori repentini, fughe precipitose per l'arrivo inatteso di un fidanzato tradito e madri e padri sospettosi e invadenti che sorprenderanno nell'intimità sempre la coppia sbagliata, per terminare con un finale davvero...sorprendente. 

Truccato da cattivissimo professor Barbaro, con il gatto Belzebù
 e in attesa di ricevere il malcapitato Carlo che dovrà chiedermi la mano di Donatella

Il fatto è che non avendo mai messo in scena il pezzo ed essendo il 28 luglio praticamente dopodomani, da questo lunedì pomeriggio e per tutto il mese dovremo quasi quotidianamente trovarci al teatro Lippiello, dove ha sede la compagnia, per discutere la messa in scena, gli allestimenti necessari, le musiche e soprattutto fare le prove. Quindi, come ben immaginate, mi tocca darvi appuntamento per i primi di settembre, quando impegni, caldo e vacanze saranno alle spalle e potrò nuovamente dedicarmi a scrivere per gli amici di blog le vicende mie, dell'elfa, del figliol prodigo e del bretone. Ovviamente auguro con tanta simpatia una bella estate serena a tutte le amiche e gli amici del blog sollevando un bel calice di fresco Chardonnay in loro onore.

mercoledì 12 giugno 2013

Della rivalutazione del campeggio, dei villeggianti teutonici e del "campingzelt über alles"


L’allarme rosso è scattato appena l’elfa mi ha chiamato per dirmi che aveva trovato un last minute per un villaggio vacanze - camping a quattro stelle al Cavallino (45 minuti di macchina da Venezia, che se prosegui per Punta Sabbioni, vedi il campanile di San Marco) dove accettavano anche il cane e che se mi andava avrebbe fatto subito la prenotazione. Ovviamente avrei dovuto decidere in fretta, che saremmo dovuti partire  tre giorni dopo. Le ho detto di sì, anche se con qualche riluttanza, un po’ perché mi aveva preso alla sprovvista e un po’ perché in fondo avevo da tempo voglia di staccare, di scaldare le vecchie ossa al sole e di una bella nuotata nell’acqua fredda e tonificante di fine primavera, come facevo da ragazzo. Dunque, perché perdere quell'occasione inattesa?

A farmi temere una scelta incauta era quella definizione di villaggio vacanze che nelle mie esperienze passate in associazione alla parola camping non prometteva nulla di buono, tanto che mi sono subito riaffiorati alla mente numerosi ricordi fantozziani che avrei voluto dimenticare e che ora vi racconterò qui di seguito. Però l’elfa, che le mie storie e tutte le fisime ad esse collegate le conosce bene, sapendo dove sarei andato a parare mi aveva garantito che non si sarebbe trattato di tende, ma di casette su ruote dotate di ogni comfort e del resto bastava guardare il sito del campeggio per vedere che era tutto distante anni luce (in meglio) rispetto al mio vissuto tragicomico di campeggiatore. Alla fine ho dovuto ammettere di aver fatto bene a fidarmi della mia compagna perché mi sono goduto quattro giorni miracolati dal sole e dove tutto è stato perfetto (perfino il suo umore), facendomi ricredere su tante cose e perfino sulla presenza dei tedeschi, che si sono rivelati vicini di casa discreti, educatissimi e silenziosi. A quanto pare, e per fortuna, non fanno più i tedeschi di una volta…

Ma veniamo al mio travagliato battesimo da campeggiatore.

All'inizio fu tutta colpa di Mino. Costui era un giovane e baffuto studente milanese di ingegneria elettronica che avevo incontrato per caso in montagna a Moena. La mia sparuta comitiva di amici si era incrociata di buon mattino con la sua, ben più numerosa, davanti all'ingresso del rifugio Fronza alle Coronelle e dal momento che qualcuno dei miei compagni di gita stava nello stesso albergo di qualcuno dei suoi ci fermammo a salutarci. Siccome a quell'ora faceva piuttosto freddino, il sole era scomparso dietro a delle nuvole nere e tirava vento, decidemmo che lo scambio di saluti sarebbe stato più simpatico se fosse proseguito all'interno del rifugio e magari con qualche fettina di strudel appena sfornato e un bicchierino di grappa alla genziana per scaldarci. Una volta appreso che l’obiettivo comune era di attraversare la forcella delle Cigolade per poi discendere nel cuore del Catinaccio costeggiando i Mugoni fino al rifugio Gardeccia e quindi raggiungere la seggiovia al Ciampediè per rientrare a casa, decidemmo di riunirci e di fare la gita tutti assieme. 

il battesimo del mare del mio bretone
(ora sappiamo che galleggia...)

Ben presto, appena la salita a zig-zag verso la forcella iniziò a farsi impegnativa sotto un sole a martello, Mino ed io, pur essendo eccellenti ed esperti camminatori, ci ritrovammo a far compagnia ed assistenza morale a due ragazze che si erano già staccate dal gruppo e ansimavano di fatica procedendo a lento moto e cazzeggiando neanche fossero a spasso per negozi. Una di queste due ragazze era romana e si chiamava Valeria. Era una biondina piuttosto graziosa e questo fatto, assieme a quello che, avendo appena lucrato un 23 all’esame di diritto penale, mi era ben noto il reato di circonvenzione d’incapace, m’indusse alla massima benevolenza nei suoi confronti. Così, quando, dopo avermi chiesto se me ne intendessi di macchine fotografiche, tirò fuori dallo zaino “…la Nàikon che mi hanno regalato i nonni per la maturità, ma non so se è una buona marca e non ho ancora capito come funzioni” mi trattenni dal proporle uno scambio alla pari con la Kodak Instamatic di mio fratello, che per fare belle foto non c’era paragone. Non solo, ma quando raggiungemmo in cima alla forcella il resto della comitiva che stava pranzando al sacco, dopo aver appreso che si era portata dietro solo due mele, prima di sbucciargliele con il coltellino svizzero le offrii premurosamente un panino con la Simmenthal e la mia tavoletta di cioccolato. Per completare la captatio benevolentiae le diedi anche qualche rapida informazione su come impostare tempi e diaframma e sull'esistenza degli esposimetri. Da quel momento in poi, ogni volta che voleva fare una foto Valeria veniva a chiedermi consiglio e la cosa mi mise di buonumore. 

Anche Mino era molto simpatico e cammin facendo avevamo scoperto che entrambi militavamo nel Manifesto, che lui era nel Servizio d’ordine della Statale mentre io ero tra quelli che venivano sempre manganellati, che suonavamo la chitarra (ma lui era ancora al giro di Do) che eravamo stati tutti e due mollati dalle nostre ragazze prima delle vacanze e che eravamo interisti. Ce n’era abbastanza per diventare amici, tanto più che una sera, quando ormai molti dei nostri compagni di gita erano ritornati a casa e a Moena c’era quel clima di smobilitazione del dopo ferragosto che rende malinconici perché è finita la vacanza, di fronte ad un bicchiere di birra scaccia tristezze al bar del Faloria scoprimmo che entrambi avevamo preso la cotta per quella Valeria di Roma (che però non si era filata nessuno dei due). Così ci tenemmo in contatto e giacché durante l’inverno successivo mi ero rimesso insieme per la terza volta con la mia Donatella (repetita juvant) e lui aveva una nuova compagna, all'inizio di giugno (eravamo nel 1970) mi chiamò per sapere se mi andava di fare un giro in tenda “alla proletaria” con le nostre donne per i passi dolomitici. 

Pur con qualche remora dovuta al fatto che partendo verso la metà del mese mi sarei perso i Mondiali di calcio in Messico, la voglia di provare quell'esperienza del tutto nuova prese il sopravvento (tanto immaginavo che ci avrebbero buttato fuori dopo le prime partite). Così accettai incautamente e convinsi altrettanto incautamente Donatella a vivere con noi l’esperienza affascinante del campeggio libero e dell’immersione totale nella natura intesa come mezzo per la riscoperta del proprio io e la liberazione della mente dalle sovrastrutture imposte dal consumismo capitalistico. Tuttavia, pur potendo citarle a proposito interi brani dell’ "Avere o essere” di Erich Fromm, non fu una cosa facile, perché Donatella, figlia viziatissima di un primario e abituata alle mollezze del bagno tiepidino con i sali profumati e del pane tostato con burro e marmellata a colazione, era molto diffidente verso la vita spartana che le proponevo. Riuscii a convincerla solo dopo averle giurato che se la cosa non le fosse piaciuta l’avrei riportata immediatamente a casa senza discutere. 

Il giorno convenuto Mino e la sua Irene ci vennero a prendere a Piazzale Roma con una rugginosa Bianchina familiare stracarica sino all’inverosimile e dopo quattro ore di viaggio, superato con grandi stenti il Passo Rolle e scesi in Val di Fassa con i freni che cigolavano ad ogni tornante per l’eccesso di carico a bordo, dopo aver imboccato una stradina sterrata che era un campionario di buche, piantammo le tende una di fronte all’altra in uno spiazzo erboso ai margini del bosco e vicino alle cascate del Rio di Costalunga, alle porte di Moena. Mino, che campeggiava da una vita, disse che aveva scelto il luogo appositamente perché in tal modo avremmo avuto anche l’acqua corrente. Questo non fu di buon auspicio. Mezzora dopo, appena rientrati alla base con le provviste prese in paese, iniziò a piovere. E piovve come succede solo in montagna per due giorni filati che dentro alla tenda non sapevi più se quel rumore d’acqua scrosciante era quelle delle cascate o del diluvio che ci martellava. Anche il fatto di poter stare rintanati con la propria ragazza nell’intimità angusta di una tendina canadese non era di sollievo perché per colmo di sfortuna a Donatella erano venute le mestruazioni in anticipo ed il suo umore corrente raggruppava assieme la sindrome mestruale con quella pre e post mestruale, tanto che già verso le quattro del pomeriggio aveva iniziato a darmi dello spergiuro perché non la riportavo a casa. 

Verso la sera del primo giorno arrivò una breve pausa (forse perché il Padreterno era rimasto a corto d’acqua) e sopra il Sass da Ciamp fece capolino un po’ di sole ingannatore tra le nubi con il colore del tramonto. Così, dopo aver sgranchito le ossa rattrappite da ore di permanenza sotto una tendina dove non potevi nemmeno alzarti in piedi e provveduto a rincuorare le donne con previsioni ottimistiche per l’indomani (roba scientifica tipo: rosso di sera bel tempo si spera) malgrado i fiammiferi umidi riuscimmo ad accendere il fornelletto da campo e a carbonizzare dei wurstel per mettere qualcosa sotto i denti che non fosse tonno in scatola o la Simmenthal. Da bere però c’era solo la scorta di acqua minerale giacché le lattine di birra che Mino aveva messo in fresco nell’acqua gelida del torrente all’interno di un ingegnoso riparo di pietre di sua ideazione (l’ingegnere è la prova dell’esistenza di Dio, diceva) erano state già trasportate via dalla corrente e ormai dovevano navigare nel vicino torrente Avisio. Ma almeno avevamo una bottiglia di Kranebet per togliere l’umido dalle ossa. Poi, esaurite le pile del mangiadischi senza averne altre di ricambio (quella fu una fortuna, perché aveva solo alcuni dischi dei Camaleonti e dell’Equipe 84 che ormai ci uscivano dalle orecchie da tanto li avevamo ascoltati) Mino tirò fuori la chitarra nel generoso tentativo di animare la serata e dandomi modo di scoprire che in un intero anno e malgrado le mie lezioni era unicamente riuscito a passare dal giro di Do al “Mare nero” di Battisti, con la possibile variante di “Non è Francesca” se non fosse stato per quell’accordo di Mi bemolle maggiore, che ancora non riusciva a prendere bene la nota con il mignolo. 

Alla fine, ridotti allo stremo, senza viveri, costretti a lavarci con la minerale perché l’acqua del torrente era piena di fango e con le nostre compagne ben oltre l’orlo della crisi di nervi (anche perché gliela puoi smenare finché vuoi con la bellezza primordiale del contatto con la natura ma devi riconoscere che per una ragazza andare a fare i bisogni nel bosco con la giacca a vento e sotto la pioggia, non è il massimo della vita), all’alba del terzo giorno malgrado un timido sole decidemmo di smontare il campo ormai ridotto ad un pantano e dirigerci verso il lato trentino del Garda, dove c’erano campeggi organizzati con tanto di piazzole illuminate, bar, pizzeria, bagni con docce calde e supermercato. Insomma: la riscoperta della civiltà contemporanea. Però scoprimmo presto che a parte i prezzi esorbitanti per le nostre risorse scarse da studenti, nei camping c’erano anche i tedeschi… e questo fu la fonte di una nuova conoscenza sorprendente.

Ora io non ho nulla di personale contro i tedeschi, ci mancherebbe. Anche se nelle mie vene scorre un po’ di sangue austriaco da parte dei nonni paterni e quindi dopo l’Anschluss del 1938 qualche diffidenza la possa umanamente avere, nondimeno ne ho conosciuti molti nella mia vita e tutti si sono dimostrati eccellenti persone, spesso portatori di educazione, cultura e valori qui ormai inconsueti. Poi, da quell'epica Italia - Germania 4-3 che ebbi la fortuna di vedere in loro compagnia, mi hanno sempre regalato grandi soddisfazioni calcistiche perdendo regolarmente quando erano strafavoriti, dunque, come pensarne male. Anzi, sono loro che dovrebbero avercela con me perché quando lavoravo all’Ufficio Estero della banca che incautamente mi aveva assunto, spedivo le loro caparre di prenotazione degli alberghi di Jesolo e Caorle mediamente con un mese di ritardo rispetto alla data prevista di arrivo, tanto che i colleghi avevano appeso a fianco della mia scrivania un quadretto con la storica frase di Diaz: “Risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”. 

Tuttavia, in quel breve soggiorno nel campeggio di Riva del Garda, oltre alle zanzare lacustri, I miei amici ed io avemmo modo di scoprire come non vi sia nulla come il camping per rivelare il lato nascosto di quella brava gente: il loro senso profondo del “das campingzelt über alles”. Infatti nel giro di una sola giornata ci fu subito chiaro:

1. Che nei campeggi i tedeschi scendono in colonna dal Brennero con dei camper mostruosi, tipo carro armato che ci manca solo il simbolo dell’Afrika Korps sulla fiancata.

2. Che per mettersi nella piazzuola devono fare mille manovre tra gli alberi assistiti all’esterno da una moglie tanto oversized quanto gesticolante e inascoltata e comunque arrivando con le ruote sempre ad un pelo dalla tua tendina.

3. Che appena posizionati sulla piazzuola i camper tedeschi si espandono come i Transformer dei cartoni animati estraendo perfino la veranda e il salottino con le tendine ricamate e le piantine di gerani.

4. Che il campeggiatore medio tedesco dispone di accessori di ogni tipo, dagli stendibiancheria al frigobar, dalla parabolica per il tv color, sino al tappetino di erba sintetica dove apporre le statuette dei nani da giardino e perfino i tappetini con scritto “Wilkommen” davanti all’ingresso.

5. Che nei campeggi i tedeschi per prima cosa picchettano tutti gli spazi disponibili, che sia ben chiaro a tutti che il territorio è occupato militarmente e quindi tirano fuori il barbecue, per affumicare tutti i vicini con l’aroma di bräthwurstel già dalle quattro del pomeriggio.

6. Che il tedesco medio deve trovare nei camping almeno una mezza dozzina di cartelli con scritto che qualcosa è “Verboten”. Il vivere in un mondo disciplinato dai “Verboten” pare infonda loro sicurezza e gli dia la forza per affrontare il mondo disordinato e approssimativo di noi latini.

7. Che nei campeggi i tedeschi sono onnipresenti a qualsiasi ora e riempiono meticolosamente ogni spazio disponibile, soprattutto nei chioschi bar e al ristorante. 

8. Che nei campeggi i tedeschi bevono birra in quantità industriale e poi fanno chiasso tutta la notte, non fosse altro perché un rutto da birra dentro una tenda si propaga nel silenzio notturno con l’intensità del ruggito di un leone

9. Che nei campeggi i tedeschi si svegliano all'alba e fanno chiasso con i cassonetti per buttare via i vuoti delle bottiglie di birra della notte precedente.

10. Che se devi correre in bagno c’è sempre un bambino tedesco che te lo ha occupato per i cavoli suoi e ti guarda storto ringhiandoti “Besetz! Raus!”. Lo stesso accade quando fai la fila per lavarti i denti (la paffuta bambina tedesca che hai innanzi a te, con le treccine bionde e il pigiamino celeste con i puffi, brandisce lo spazzolino come una mazza ferrata, casomai tentassi di passarle davanti…)

11. Che se appena starnutisci c’è sempre un tedesco che ti dice di far silenzio e poi si lamenta degli italiani. 

12. Che la tentazione di orinare sul tappetino con la scritta “Wilkommen” diventa ogni ora sempre più forte.

13. Che se lo fai davvero, poi rientri in tenda che ti senti meglio e la tua ragazza ti fa le coccole neanche fossi un eroe.

14. Che se al bar del campeggio i tedeschi sono ancora in piedi ad abbracciarsi davanti al televisore per il pareggio di Muller e intanto gli "Spaketti und Makkaroni" mettono la palla al centro e gli infilano il goal del 4-3 definitivo è bene che i soli due italiani presenti in sala evitino di fare il gesto dell'ombrello. Tanto poi, nel cuore della notte, mani ignote correggeranno il cartello stradale di Riva del Garda in Rivera del Garda.

Trascorsi 20 anni da questa esperienza di campeggio estremo e diventato nel frattempo marito e padre più o meno esemplare mi lasciai nuovamente convincere ad affrontare l’esperienza del campeggio e questa volta sul Gargano, anche se l’elfa, con le sue subdole arti seduttive mi abbindolò rivendendomi la nostra meta come un lussuoso “villaggio vacanze” e giustificando alla luce degli eventi che ne seguirono tutte le diffidenze successive. Ma di questo ne parleremo prossimamente…

sabato 18 maggio 2013

Della prima spiaggia, del wi-fi balneare e delle vicine di ombrellone francesi


Sono da poco passate le sei del mattino. La luce del sole, che di questi tempi, quando c’è, è merce rara visto il clima che assomiglia più al monsone asiatico che alla primavera, inonda già la nostra camera da letto filtrando tra  i rami dei platani sulla strada. Essendo ormai sveglio da diversi minuti anche per l’ennesima ginocchiata da cartellino "rosso diretto" dell'elfa che quando si gira nel sonno colpisce all'inguine con la precisione delle sue frecce, decido di andare nel mio studiolo ad accendere il computer nell'attesa che la mia compagna apra gli occhi. Così, aprendo Facebook vi trovo un messaggio di mio figlio che alle 05.25 di mattina, dopo aver attraversato di notte la Polonia e la Lituania in pullman, ci tiene a farmi sapere di essere in stazione a Varsavia e che tra un'ora ha la coincidenza per Olomuc (mi pare di ricordare che sia nella Repubblica Ceka) dove poi prenderà un altro treno per Brno e infine, dopo aver dormito a casa di suoi amici, l'autobus per rientrare nel suo ostello universitario a Vienna. Io, che da ventenne andavo in giornata da Venezia a Busto Arsizio per amore di una ragazza conosciuta in vacanza e già mi sentivo un eroe, lo ammiro anche per questo. Talis pater, talis filius. 

Alcune mie foto scattate durante la gita della scorsa settimana in bragozzo
tra le isole della laguna orientale, da Quarto d'Altino a Sant'Erasmo e il Lazzaretto Nuovo.
Qui un cocàl (un gabbiano reale) sorveglia il suo territorio

Vedo che il giovane "farfallone amoroso" è ancora collegato su internet e così chattiamo per qualche minuto. Dopo avermi informato (tentando una vergognosa captatio benevolentiae) che, per rendere omaggio alle radici austroungariche di famiglia e dei bisnonni paterni, nel weekend della prossima settimana sarebbe stato a Budapest con degli amici di università e che quindi avrebbe prelevato altri 150 euro (questo era il punto), per addolcire ulteriormente la pillola il giovanotto mi avverte che Katerina ha già postato sul suo Facebook le foto del loro giro sul Baltico, tra Klaipèda e Riga e di guardarle. 

Così, mentre ammiro con una punta freudiana d’invidia le immagini del mio rampollo e della sua ragazza abbracciati al sole su una lunga spiaggia dalla sabbia bianchissima e un mare così azzurro e trasparente da sembrare il Mediterraneo, sento una mano che si posa leggera sulla mia spalla e la voce dell’elfa ridestata.
"Lasciami il posto che voglio parlare con mio figlio e guardare le foto. Tu intanto vai a  portare fuori il cane che appena rientri andiamo a Jesolo a prendere il primo sole dell’anno. Sbrigati che non voglio fare le code…
La notizia mi coglie del tutto alla sprovvista.
"Andiamo a Gèsolo? Ah! Non me l’aspettavo!" 
"Sì, visto che finalmente c'è il sole oggi si va proprio a Jesolo che tu denigri tanto chiamandolo Gèsolo per indispettirmi. Perché? Adesso non ti va più? Non sei quello che me la sta smenando da settimane perché ha bisogno assolutamente di un bagno di mare per drenare il naso dall'allergia da polline? Ora che te lo propongo ti tiri indietro?
"Beh…no… va bene, a patto che ci stiamo poco: due bagnetti, un po’ di sole e via. Lo sai che in spiaggia mi annoio mortalmente ad osservare per ore te che ti abbronzi mentre io mi ustiono. Poi dobbiamo tornare presto per il cane…" 
"Per il cane non c’è problema perché viene mio fratello a portarlo a spasso e a dargli la pappa e in quanto alla noia che ti infliggerei, sappi che quest’anno puoi portarti il tablet perché ho letto che c’è il wi-fi anche in spiaggia. Dunque, potrai cazzeggiare a tuo piacere sul web"

Bricole e barene a perdita d'occhio verso Sant'Erasmo,
l'isola che fungeva da orto per la Serenissima,
oggi famosa per i suoi tenerissimi carciofi violetti
 e dove ancora esistono secolari vitigni unici al mondo di uva dorona.

Quest'ultima notizia mi conferma che L’Italia è un felice paese dove la genialità (e altro) si mangia a colazione come il pane e nutella. La strepitosa idea del Wi-fi da spiaggia, di cui ero all'oscuro, non poteva germogliare che qui da noi e in particolare provenire dai filantropi degli stabilimenti balneari che notoriamente farebbero anche il salto nel cerchio di fuoco pur di indurti a prendere un ombrellone con sdraio in quarta fila a 15 euro (per la prima serve la fidejussione bancaria) e un pedalò a 35. Dunque, ora da Jesolo (Gèsolo) a Lignano e da Mondello a Ladispoli il vicino/vicina di ombrellone potrà chattare animosamente su Facebook, twittare, telefonare con Skype o mostrare le tette all’universo mondo con la webcam del tutto gratuitamente (forse mi sbaglio, ma su questo punto del gratis la vedo dura…). Bene…molto bene. Ma c'è un però da valutare.

L'enorme edificio del Tezon Grande, al Lazzaretto Nuovo.
 Un' isola all'entrata della laguna dove venivano alloggiati
obbligatoriamente per quaranta giorni (da qui la quarantena)
  tutti gli equipaggi e le merci provenienti via mare per evitare
un possibile contagio della peste in città.
Abbandonata dopo la dominazione austriaca che l'utilizzava
 come un deposito militare, sino a pochi anni fa
 l'isola era una giungla inestricabile dove era difficile approdare.
Oggi un gruppo di appassionati archeologi e di volontari
 la sta lentamente restaurando e riportando al suo splendore.

Tralascio gli aspetti clinici della ciber-dipendenza di cui mi accusa l'elfa e provo immediatamente ad immaginarmi intento a scrivere questo post sulla sdraio con il mio tablet da 8 pollici in precario equilibrio tra l’addome sudaticcio (un po’ fuori forma, lo ammetto) e le ginocchia. Purtroppo, mi affiora  subito alla mente il ricordo del giovane “American idiot” che ciondolando come uno zombie con in mano un bicchierone di Coca cola tra le poltroncine del Frecciarossa Roma-Venezia mi aveva allagato e distrutto un portatile aziendale da 1500 euro pensando di cavarsela disinvoltamente con un: "Ooops! So sorry...."  (il suo corpo crivellato con la penna a biro giace ancora da qualche parte tra Arezzo e Cortona...).

Sotto gli intonaci ottocenteschi del Tezon sono emerse
 decine e decine di  preziose scritte come questa
dove gli  equipaggi raccontavano del loro viaggio,
 la provenienza e la destinazione e le merci trasportate.

Pertanto, occupandomi anche di FMEA (Failure Mode Effects and Analysis) effettuo un brain storming personale per immaginare da dove potrebbe arrivare il pericolo e classificarlo in base ad un coefficiente di probabilità di impatto con il mio tablet e di gravità potenziale del danno in modo da prevenirlo. Gli eventi possibili che mi vengono in mente sono:

1) Moglie con spray abbronzante al cocco che arriva fino sullo schermo rendendolo appiccicoso (punti 6.5) 
2) Bambino del vicino che fa a secchiellate di sabbia con la sorellina (8, 75) 
3) Signorina dal forte accento padovano che tra poco sbatterà al vento il telo da bagno pieno di sabbia (punti 5) 
4) Cenere di sigaretta di moglie che viene a curiosare fumando (7,5) 
5) Acqua salmastra che gocciola sullo screen dal costume di moglie che viene a curiosare ancora bagnata (7,5)
6) Moglie che per vedere un filmato di tango su You Tube effettua il touch screen con le dita insabbiate rigandoti lo schermo (8,0)
7) Bambino e sorellina del vicino che dopo essersi ridotti come i guerrieri di terracotta di Xi’an corrono in mare a ripulirsi e ritornano fradici scrollandosi l’acqua di dosso come due cagnolini (7,5 punti) 
8) Adolescenti che si rincorrono tra gli ombrelloni con i fucili ad acqua giocando a Steven Seagal contro Schwarzenegger e allagando te e la presa USB del tablet (7.5) 

Poi, proprio quando penso di aver previsto tutto, il cervello mi rimanda l’immagine dell’elfa spazientita che rosolata al sole quanto basta mi dice "Basta rincretinirti su quel computer, vieni a fare il bagno…" . Obbedisco e dimentico fatalmente la “regola dei dieci passi” dei film western. Quella per cui spento il tablet lo riponi amorevolmente all'ombra nella sua custodia, ti allontani di dieci passi verso il mare, ti volti e: "Buongiorno, vorrei far denuncia di un furto in spiaggia….” 

Gli equipaggi in quarantena al Lazzaretto nuovo
venivano periodicamente visitati dai medici che indossavano questa veste.
Chi presentava sintomi sospetti veniva subito trasferito sull'isola
del Lazzaretto vecchio dove si portavano gli appestati.
Il lungo naso a becco della maschera protettiva indossata dal medico
era riempito di erbe medicamentose e unguenti per fare da filtro ai microbi

Alla fine, considerato l'alto coefficiente di rischio, decido di lasciare il tablet a casa malgrado il “Non lo vuoi portare? Cavoli tuoi, ma poi non mi dire che ti annoi” e si parte. Arriviamo in spiaggia verso le dieci e c’è già un carnaio di gente bianchiccia richiamata come noi dalla prima giornata di sole.
Comunque, preso il lettino e l’ombrellone ci buttiamo finalmente nelle acque gelidine dell’Adriatico per la prima nuotata della stagione da cui ritorno intirizzito ma orgoglioso per aver fatto quasi 50 metri filati a stile libero (ho provato anche a nuotare a farfalla, ma dopo cinque metri avevo già un fiatone imbarazzante e ho pure bevuto cercando peraltro di darmi un contegno di fronte all'elfa ridacchiante dicendo che era per fare dei gargarismi di acqua salata benefici per la gola). Quindi: sdraio, unzione meticolosa della consorte con le creme e lettura di Repubblica sino all’ora del pranzo, atteso con crescente impazienza. 

Il leone cinquecentesco sulla vera da pozzo del Lazzaretto Nuovo,
miracolosamente sfuggito agli scalpelli napoleonici.
E' uno dei pochi esistenti che tiene tra le zampe il libro del vangelo chiuso
perché in quel periodo Venezia era in guerra.

Caldo afoso del dopo pranzo in spiaggia. Il panino alla piastra con formaggio sintetico, rucola e prosciutto made in Taiwan, ingurgitato in fretta seduto sotto il sole al tavolino del chioschetto bar e circondato da una mandria di tedeschi e trevigiani sudati e in attesa del nostro posto, ha iniziato un lungo viaggio spazio-temporale nel mio stomaco alla ricerca dei succhi gastrici, mentre la birra tracannata nel tentativo di deglutirlo, ora zampilla allegra dal mio corpo in tanti rivoletti di sudore. Il mio sonno sulla sdraio, spezzato periodicamente dalle gomitate leggere di mia moglie (stai russando, ti guardano tutti…) viene definitivamente interrotto dal rumore di un ombrellone vicino che si apre e dalle imprecazioni in chioggiotto del bagnino che nel farlo si è pizzicato le dita.

Metto a fuoco la scena. Alle sue spalle è in attesa una bella signora, tutta fasciata in un fluttuante pareo azzurro cielo che lascia intravedere un pudico costume intero blu notte. I capelli sono fermati da un nastrino in seta e ai piedi porta delle infradito in pelle naturale, sicuramente di marca. Tutto molto semplice, ma di grande eleganza. 
Mentre ho la sensazione di averla già vista e mi sforzo di capire dove, mi soccorre inattesa la mia compagna che la stava osservando a sua volta con lo sguardo compiaciuto della vipera che ha visto comparire l’ignaro topolino. "Prima che tu me lo chieda, è la signora che al baretto era seduta sul tavolino accanto a noi…". 
Guardo l’elfa stupito ed ammirato. "Ma lo sai che hai ragione? Brava… è proprio la signora francese."

Ecco Burano, con il campanile pendente e le case multicolori

Essendo uomo assai incauto ed ingenuo malgrado i 27 anni di vita con l’elfa che dovrebbero avermi insegnato ad essere un tantinello più attento a scorgere cosa c’è sotto le foglie dove poso i piedi, mi arriva subito uno sguardo indagatore. "E tu come fai a sapere che è francese?", 
"Perché oltre alla "salad mixte" ha ordinato al cameriere con la tipica cadenza francese quel “capiucinò” che mi ha ricordato la zia Ines, quella di Marsiglia che mi chiamava sempre “Carlò” e non sono mai riuscito a farle arretrare di un millimetro quell’accento " 
L'elfa ridacchia con il tono di quando vuol essere perfida "A me ricordava più Peter Sellers nella parte dell’ispettore Clouseau, comunque è lo stesso…"

Guardo intanto con interesse le cose che escono dalla borsa etnica in raffia della nostra vicina e che ripone con cura sulla brandina. Creme, oli solari quanto basta, poi “Le Monde” e proprio quando mi aspetto il solito Ken Follett o Wilbur Smith in versione francese mi salta fuori “Una donna spezzata” della Simone De Beauvoir. Dunque, la signora, oltre che molto charmant, è anche una donna di buone letture.

La quiete della laguna all'imbrunire

Anche l’elfa, che ha seguito tutta la faccenda attentamente riprende il discorso "Tutta questa tua premessa è solo per dirmi che ti ha colpito e l’hai notata?".
"Si… ha un bellissimo viso e mi sembra molto raffinata, l’archetipo della signora colta e di gran classe, un po’ come Ingrid Bergman in “Indiscreto”. Te la ricordi? E’ il film con Cary Grant che fa il diplomatico e lei è un’attrice di prosa…".

La sua domanda però non è affatto innocente ed appartiene a quella serie di quesiti del tipo: “Mi trovi ingrassata?” o “Come mi sta questo vestito?” che nella logica femminile significano: “E’ da tanto che non litighiamo... ti va di strillare un po'?” e ai quali si deve evitare di rispondere, ma come al solito e sempre per via della faccenda che non controllo cosa ci sia sotto le foglie che calpesto ci casco dentro fino al collo. Infatti, preso dal piacere della citazione, dimentico imprudentemente quale tragedia avesse scatenato Paride porgendo quella benedetta mela alla donna sbagliata, e, soprattutto, che elementari regole di prudenza suggeriscono di non parlar mai bene di una nuova presenza femminile ad una donna che già conosci, tanto più se è tua moglie.

Cala la sera sulla laguna

Basterebbe, a tal proposito, aver presente come una donna in spiaggia osservi diversamente da noi l’arrivo di una nuova vicina d’ombrellone, soprattutto se sola e potenzialmente competitiva. Noi aspettiamo di vederla finalmente in costume per ammirarne le forme. Il nostro fine è almeno inizialmente solo di tipo estetico e comunque innocente fino (eventualmente) al momento successivo in cui cominciamo a valutarla in termini di scopabilità (passati i cinquanta, diventa puro esercizio teorico). La nostra lei, al contrario, attende perfidamente di vedere la rivale in costume per controllarne di persona il numero delle smagliature, la consistenza delle masse cellulitiche e l’eventuale gluteo o seno cadente per farti poi notare il tutto puntigliosamente. Il suo fine, in questo caso, è esclusivamente l’annientamento dell’avversaria, hic et nunc e non si fanno prigionieri.

Entrando nel canale di Mazzorbo al tramonto

Infatti, lo sguardo di mia moglie cambia subito colore e diventa intenso come quello della mia gatta Mitzi quando studiava bene le mie mosse per graffiarmi con comodo.
"A parte che il tuo archetipo di donna fascinosa ha già superato i quaranta da un bel pezzo, non vedi che si tiene su disperatamente con il trucco? Se guardi bene noterai che è il trionfo del mascara e il viso è irrigidito nel rigor mortis dagli strati di fondo tinta. C’è più argilla addosso a lei di quanta ce ne sia in un liceo artistico. Se parliamo di portamento è rigida come una scopa e, in quanto a classe, ti basti sapere che ha portato alla bocca con le dita i pezzetti di tonno dell'insalata. Ha solo delle discrete tette, ma probabilmente ha il reggiseno con i ferretti. Se solo lo sgancia, crolla l’impalcatura. Il sedere, invece, lo tiene ancora su probabilmente a forza di diete e di palestra, ma su quei fianchi matronali che si ritrova ha due stupende maniglie dell’amore, non trovi? Ti concedo solo che ha delle belle mani da pianista… vuoi ancora dell’altro?".

Pochi minuti ancora e scenderà la notte sui campanili e la laguna

Allargo le braccia rassegnato. La bordata di un’intera fiancata di cannoni della galeazza veneta aveva sbriciolato l’innocente vascello francese. "Colpita e affondata! Ritiro tutto. Ammetto di essere orbo e di aver scambiato una vecchia cariatide per una donna incantevole ".
Mia moglie sorride soddisfatta dandomi una pacchetta cordiale sulle ginocchia.
"Bravo! Così va meglio…anzi, bravò!" 
Poi si distende di nuovo sulla brandina a riscaldarsi al sole,
Provo a mia volta a riprendere il sonno, ma non ci riesco più.
Sicuramente è colpa del primo caldo e del panino…

lunedì 11 febbraio 2013

Del senso del bretone per la neve, degli enigmi cinesi e dell'incomunicabilità umana


Il biiiip prolungato della sveglia, subito associato al rabbioso: “Nooo… quanto la odio quella TUA sveglia dannata!” dell’elfa (perché la sveglia alle sei e un quarto la chiede lei, ma poi è colpa mia quando suona) seguita dal consueto “Vai tu in bagno, così dormo ancora altri cinque minuti” mi strappa al calduccio della trapunta in piuma d’oca anche perché so che altrimenti ne verrei scalciato fuori da quella che vuole dormire e secondo lei la disturbo. In realtà, ero sveglio da almeno mezzora intento ad ascoltare i rumori inconfondibili del vento che scrolla le foglie dei platani e delle auto che attraversano le pozzanghere. Infatti, appena raggiungo un’accettabile postura da Homo erectus (non pensate male…) e ricevuto il consueto “Non camminare a piedi scalzi! Quante volte te lo devo dire?” di colei che dovrebbe dormire, ma mi sorveglia vigile, scosto le tende, scruto nel buio interrotto a tratti dalla luce dei lampioni e ….“Cazzo, piove…” . 

La bellezza di scostare le tende di  mattina presto e scoprire che piove...
Che, detto così, non è proprio l’incipit più affascinante della letteratura italiana. Vista la giornataccia invernale andrebbe forse meglio il decadentismo dannunziano, con un bel: “Orsù, andiamo è tempo di migrare” a cui magari aggiungere “…e portare il bretone a pisciare” prima di iniziare la solfa del pastore che lascia gli stazzi e va per il tratturo antico al piano.

Il quale bretone, nel frattempo, anche se non l’ho ancora verificato, sicuramente avrà approfittato del favore della notte per acciambellarsi a dormire sulla Sacra Poltrona Proibita del mio studio, immerso tra le morbidezze dei cuscini di raso e il plaid scozzese. Perché il giovanotto, spiace dirlo, da cane ruspante dal bel profumo di sottobosco, nato per i campi fangosi e i sentieri di campagna, si sta imborghesendo a tal punto da doverlo avvisare che rischia il declassamento di Standard & Poors da cane da caccia AAA+ a cane da salotto AA, come un Chihuahua. E questo comporterebbe per default il fiocchettino vezzoso, il cappottino scozzese per l’inverno e il collarino con le pailettes luccicanti. Veda lui se gli conviene…


Ma che ore sono? Devi proprio accendere la luce?

Siccome a pensar male si farà peccato, ma ci si azzecca quasi sempre, come mi affaccio nel salottino e accendo la luce scorgo un musetto spettinato e due occhioni assonnati colti in flagranza di reato che mi fissano con l’aria del: “Ah! sei tu? Ma che ore sono? Dormivo così bene..." . Appena gli indico sdegnato il suo tappetino per dormire dimenticato sul pavimento dicendogli  "Scendi subito da quella poltrona, che non è tua!"  lui, come ogni mattina, dopo essersi stiracchiato e aver praticato una lunga abluzione delle parti intime (immagino per scherno nei miei confronti) scenderà. Una volta sceso, la mossa successiva di quel mascalzone peloso sarà quella di mettersi ad abbaiare senza alcun motivo in corridoio finché Morena strillerà “Porta fuori quel povero cane!” e al mio angosciato “Ma piove che Dio la manda…” arriverà l’immancabile “ Hai voluto avere il cane? Buona passeggiata…”. Il bretone mi guarderà con l’aria soddisfatta di chi dice “Hai visto? Se mi lasciavi sulla poltrona, non avrei abbaiato”.

Però, in realtà, occorre ammettere che il possedere un cane ti spalanca aspetti inesplorati della vita e ti fa scoprire nuove opportunità interessantissime. Cose tipo il vedere le luci dell’alba e i tramonti sui prati, infradiciarsi i piedi nella rugiada, attraversare sciami di zanzare camminando lungo i fossi e tremare di freddo con le prime gelate e il cane che emette nuvole di vapore dalle fauci come fosse un drago, slogarsi una caviglia sprofondando tra le zolle di un campo arato, venire inseguito da una coppia di gatti e disturbare coppiette nei parchi perché Whisky ha deciso che deve pisciare proprio sulla panchina dove stanno pomiciando. Insomma, tutto un nuovo mondo.Ma non solo, ci sono infatti anche delle possibilità inedite: per esempio, mi sono sempre chiesto perché la domenica mattina, quando puoi finalmente dormire, i Testimoni di Geova ti suonassero il campanello alle otto per farsi mandare affan… quando potevano benissimo farsi mandare affan… verso le undici con tutto comodo. Ora, alzandomi per tempo ed essendo per strada verso le sei e quaranta, so che posso suonare il campanello ad un Testimone di Geova e chiedergli se posso salire su un momento a rompergli i marroni con la Bibbia mentre è ancora in pigiama. Giusto il tempo di sapere dove abiti qualcuno di loro e lo farò.

Andar per campi con il cane verso sera offre spettacoli insoliti per un veneziano d'acqua

Poi devo capire il mistero di Stella, la signora cinese che gestisce il bar dove vado a far colazione per quattro buoni motivi: è l’unico in zona che apre alle sei (dopo aver chiuso a mezzanotte, perché i cinesi non dormono mai), il caffè è buono, ha le brioches appena uscite dal forno e l’arredamento del locale è un progetto di mia moglie, quindi mi sembra di essere a casa. Stella, che ovviamente non si chiama così, ma, come anche suo marito Marco, ha questo simpatico uso cinese di darsi un nome italiano (dubito che, se andassi a vivere a Pechino, mi farei chiamare Doge-ni-hao ) ogni mattina, da tre mesi a questa parte, appena mi vede entrare mi chiede sorridendo “Fagottino di mele e cappuccino, vero?”. Ora io non so se lei o qualche fabbrica dolciaria dello Szechuan abbia una sovrapproduzione di fagottini di mele surgelati da smaltire prima della scadenza, ma il fatto è che io prendo da sempre la brioche con la marmellata e il macchiatone e tre mesi dovrebbero essere un tempo ragionevole per l’apprendimento delle mie abitudini. Anche perché se in soli  tre giorni quella donna ha capito che l'elfa dopo il caffè macchiato freddo chiede un bicchiere d'acqua e glielo fa trovare pronto assieme alla caraffetta del latte prima ancora che lo domandi, non si capisce perché non possa porre altrettanta attenzione con me. Dunque, ho capito che ci deve essere sotto qualcosa d’intenzionale nei miei confronti, dovuto probabilmente alla mia aria gioviale e tollerante, mentre con l'elfa fin dalla prima occhiata si capisce che è bene non scherzarci troppo. Probabilmente, quella che mi viene rivolta è una qualche forma di raffinatissimo umorismo cinese, una sorta di tormentone, come quando ogni volta che segnano gli altri mentre vedo la partita da loro, Stella si affaccia dal bancone e mi chiede “tu contento che ha segnato Inter, vero?” oppure come quando dopo avermi detto che “toast piccoli finiti, solo quello grande”, poi mi porta un toast più piccolo dell’altro, ma appoggiato su una foglia di lattuga e senza salsa rosa. Ieri mattina ho avuto un tuffo al cuore perché appena entrato, dopo il solito sorriso gentilissimo, mi ha detto: “ tu vuoi macchiatone, vero?...” e quando già stavo per congratularmi ha aggiunto “e fagottino di mele…” . Inizio ad odiare i fagottini di mele. 

Però le nebbie in terraferma non sono il "caìgo" veneziano.  Altro fascino.

Da ragazzo mi piacevano molto le “Tragedie in due battute” di Achille Campanile e i film di Antonioni sull’incomunicabilità (credo di essere uno dei pochi italiani ad aver visto tre volte Deserto Rosso). L'uscire con il cane con tutte le occasioni di nuovi incontri che comporta mi consente oggi di vivere in prima persona, non proprio in due battute ma quasi, delle vere tragedie dell’incomunicabilità umana, dove ti sembra che le tue parole scorrano leggere sulla pelle dell'altro come il vento, senza lasciar traccia e significati. Un po' come succede a volte con l'elfa che  mentre le parlo di una cosa che mi sta a cuore pensa a tutt'altro e mi risponde con "Ricordami che dobbiamo pagare la bolletta del gas" o cose simili, tanto che ormai mi diverto a infilare improvvisamente nei miei discorsi frasi senza senso tipo "Abbiamo un cavallo verde in giardino"  per vedere se si meraviglia o continua a seguire il corso dei suoi pensieri anche se ha l'aria di chi ti ascolta.

Le prime luci del mattino sui campi di Via Calabria

Al bar dei cinesi, per esempio, staziona sempre una persona con la quale non riesco a comunicare.  Si tratta un vecchietto che, se non fosse male in arnese, sembrerebbe la copia conforme, occhiali scuri compresi, di Lionel Twain, il miliardario eccentrico di "Invito a cena con delitto". Ogni volta che mi vede entrare si avvicina con fare furtivo e, dopo avermi chiesto se mi serve un orologio, del tutto incurante del mio "...ma anche no, grazie"  mi propone mirabolanti "orologi americani ultimo modello" dal valore di almeno 150 euro e che lui, ma solo perché gli sono simpatico per via del cane e perché una volta gli ho offerto (incautamente) un calice di rabosello, mi offre sottobanco per 10 euro. Quando gli faccio notare che orologi del genere si trovano in omaggio nei fustini del detersivo e che il logo CE sta per China Export, dunque, se proprio vengono dall'America, sono stati prodotti in qualche China Town di Los Angeles o New York  allora mi prende confidenzialmente sottobraccio e abbassando la voce perché altri non sentano me li propone a 5 euro, volendo anche in versione per la mia signora.

costeggiando la vecchia ferrovia per Calalzo in un giorno nebbioso

Malgrado i miei rifiuti ostinati in questi mesi mi sono visto proporre di tutto, sempre di provenienza americana e al prezzo amichevole di 10 euro, negoziabile a 5 e fino al patto tra gentiluomini del:  "Tu lo provi per qualche giorno e se ti piace me lo comperi, di te mi fido...".  Qualche tempo fa, malgrado gli avessi detto subito di non essere interessato al genere avendo da un lato ancora una discreta vita coniugale e, dall'altro, potendo eventualmente trovare di tutto su internet gratis e pure con virus in omaggio,  ha tirato fuori con aria complice dalla sua valigetta sdrucita dei DVD, sempre di provenienza americana e di ultimissima produzione, con la compianta Pozzi Moana e la  pensionata settantenne Staller Ilona, in arte Cicciolina, che più che dei porno dovevano essere delle sedute spiritiche al geriatrico. Avendo la cosa oltrepassato i limiti pur assai ampi della mia sopportazione senza tanti giri di parole gli ho detto che ero stanco di tutte quelle sue proposte tarocche e che gradivo far colazione in pace, così per per qualche tempo mi è girato alla larga, limitandosi ad un cenno di saluto. Ieri mattina, ritrovato il coraggio, mi ha riavvicinato chiedendomi: "Ti servono occhiali?" e al mio deciso "Grazie, no. No, grazie! Come vedi non li porto..." ha continuato imperterrito "Ho degli occhiali americani ultimo modello, che in negozio li trovi almeno a 200 euro, ma a te li vendo a 10 euro".

Sulla via del  ritorno a casa... (finalmente)

Poi tra gli incomunicabili c'è la padrona di Biscotto. E’ una signora giovane, sulla trentina, sempre in pelliccetta ecologica, jeans, stivaletti e maglioncino (di marca) che possiede uno dei cagnettini più odiosi e isterici che abbia mai visto (lo giustifico solo perché con un nome del genere, anch’io non sarei di buon umore). Ora, questa signora ha deciso che ogni volta che vede passare Whisky per i giardini della piazzetta Santa Barbara, il suo Biscotto (che non è mai al guinzaglio) debba per forza farci amicizia. Quindi inizia a indicargli allegra il mio cane dicendo: “Guarda Biscotto… c’è il tuo amico Whisky…vai a giocare con lui, su che vuol fare amicizia con te… portagli la tua pallina”. Ovviamente Biscotto, molla subito la pallina e arriva sparato come un proiettile ringhiando e mentre io cerco di dirle: “Signora, lo tenga…guardi che non ha alcuna intenzione di fare amicizia” lei risponde ogni volta: “ma no, stia tranquillo…vuole solo giocare con il suo amico”. Ovviamente parte la zuffa con Biscotto che cerca di morsicare Whisky. Lei a questo punto accorre, stacca il suo cane dal mio e dopo averlo accarezzato (mentre quello continua a ringhiare) gli dice affettuosa: “Su, Biscottino mio adorato, fai amicizia…lo vedi che Whisky vuol giocare con te?” (segue nuova zuffa furibonda tra i due amici).

E' scesa la notte e la nostra strada verso casa
è rischiarata solo dalle luci della stazione  di Mestre

Appena le dico (trattenendo a stento Whisky che quando tira al guinzaglio è un SUV che sgomma con le sue quattro ruote motrici) “Signora.. non mi pare il caso di insistere…se lo porti via, per favore!” lei, dopo aver dato un croccantino ad entrambi i cani che si ringhiano a distanza, risponde sorridendo: “Ma no.. non si preoccupi, vedrà che ora si sono calmati e giocano assieme. Vero Biscotto che vuoi giocare?” (terza zuffa furibonda tra i duellanti). La scena prosegue ad libitum fino a quando la signora mi farà notare che avendo un cane di indole aggressiva lo dovrei portare in giro con la museruola.