domenica 13 settembre 2020

Degli anni felici di Taranto, di Luciano detto: "o' scippacore" e della definitiva caduta in disgrazia della signora Pepe.


Dopo avervi presentato nel racconto precedente la Signora Pepe, che per il momento, dopo la catastrofica collisione con un caco, lasceremo spezzata in due sugli scogli come la USS Grommet Reefer nel porto di Livorno, ora vi presento l'altra persona indimenticabile del nostro soggiorno tarantino, che però questa volta lo fu in positivo diventando involontariamente il fattore scatenante dell'affondamento definitivo della nostra invadente e impicciona vicina di pianerottolo. Infatti, tra i marinai in servizio di leva nella base di Taranto in quegli anni c'era anche la nostra ordinanza (allora ogni ufficiale ne poteva avere una) ovvero un giovanotto di Resìna (oggi denominata nuovamente Ercolano, alle falde del Vesuvio) furbo matricolato, un fisico atletico (faceva lotta greco-romana), biondo riccioluto e con l'aria da guappo dei bassifondi ma buono come il pane e di gran cuore. 


La signora Pepe in affondamento dopo l'urto sui cachi


Si chiamava Luciano e i suoi compiti a casa nostra erano limitati a qualche piccola commissione tipo comperare il pane oppure accompagnare e prendere noi a scuola, perché per regolamento era proibito fargli svolgere le pulizie di casa e, del resto, un pomeriggio che mia madre gli aveva chiesto se per favore poteva lavarle i piatti, che lei doveva uscire d’urgenza, lui lo fece in modalità: "jatevenne serena, signò che ce penza o' marinariello vostro" ma sbeccò un piatto e ruppe un paio di bicchieri del servizio e dunque, divieti a parte, non era consigliabile. Luciano aveva una pazienza infinita e un grande affetto per i figli del suo comandante, anche se per farci stare buoni minacciava sovente di farci il “polso”, una stretta (dolorosa assai...) dei minuscoli ossicini della nostra mano che c’induceva subito a più miti consigli. Luciano, poi, che sapeva leggere e scrivere a fatica, riusciva perfino a farci svolgere i compiti (e non escludo che la cosa servisse anche a lui...). Con mia madre, invece, erano guerre divertenti al momento del rendiconto della spesa poiché Luciano, svelto come tutti quelli cresciuti per la strada, trovava sempre un modo fantasioso di giustificare la cresta evidentissima che aveva praticato, tanto che ad un certo punto ebbi il sospetto che mia madre si divertisse a vedere cosa non fosse capace di inventarsi. Una mattina la mamma pesò ostentatamente quelli che, secondo lui, dovevano essere due chili di arance e che invece risultavano (a stento) essere sui settecento grammi. Pensava così che il reo, colto finalmente in flagranza di reato, confessasse di aver incamerato una parte dei soldi. Invece, con un riflesso fulmineo quel simpatico mascalzone di Luciano assunse un’espressione sgomenta ed esclamò “Gesummarìa! Signora, che scuorno c'aggia avuto... un napoletano fregato da un tarantino ...”. Epiche furono poi anche le lotte con le matite per segnare i livelli sulle etichette delle bottiglie di liquore. Ci arrendemmo solo quando l'infame per nascondere i suoi prelievi cominciò ad annacquare il whisky. A quel punto nascondemmo con cura quella buona di malto e mettemmo nell'armadietto dei liquori una bottiglia di whisky andante da quattro soldi. 


Luciano, come si nota dalla sua foto, era davvero un bel ragazzo molto intraprendente e intratteneva rapporti amorosi con un giro impressionante di cameriere, parrucchiere e commesse di qualsiasi età, purché d’aspetto volgarotto. Mia madre per questa sua indefessa caccia alle gonnelle e la sua aria da guappo dei Quartieri Spagnoli l'aveva soprannominato "o' scippacore" e lui, non cogliendo l'ironia e il gioco di parole, se ne compiaceva molto. Il guaio era che a tutte le sue prede, con scarsa fantasia, lui fissava l’appuntamento proprio sotto il nostro portone dove pertanto nel tempo successero scenate memorabili perché il nostro, assai distratto oltre che perennemente in ritardo (portava un costoso pataccone dorato al polso, ma quando gli faceva comodo quell'orologio era sempre fermo) spesso confondeva gli orari e quindi prima o poi una delle due fanciulle in attesa sul nostro marciapiede chiedeva all'altra "Scusa, ma tu chi stai aspettando?" e poi vai di strillo e borsettate. 

Ad ogni modo, il luogo eletto per gli appuntamenti del nostro "scippacore" cambiò repentinamente la sera in cui mia madre rientrando a casa ebbe un duro battibecco con una popolana scarmigliata che l’aveva aspettata davanti al portone per intimarle (con adeguato corredo di strilli, insulti e minacce) di stare alla larga dal suo amato Luciano con il quale l’aveva vista passeggiare insieme al mercato. Ci volle del bello e del buono e l'intervento di alcuni passanti per chiarire l’equivoco con la signora Pepe che aveva osservato estasiata tutta la scena dal balcone. 


L'adorabile Luciano, o' scippacore


Mia madre era letteralmente furibonda e il giorno dopo, appena se lo ritrovò di fronte, somministrò al reo una terrificante lavata di capo. Luciano si presentò al lavoro, la mattina successiva, a capo chino e portando con sé un gran mazzo di fiori di campo e una lettera di scuse tanto sgrammaticata quanto commovente che gli valse il perdono. Per fortuna del giovanotto in quella settimana mio padre era in mare con la squadra navale per delle esercitazioni, altrimenti non so cosa gli sarebbe successo.
 
Comunque, il nostro marinaio durante le sue libere uscite, oltre a tentare di sedurre ogni essere di sesso femminile tra i diciotto e i sessant'anni che gli si parasse davanti, doveva anche sguazzare in ambienti non proprio raccomandabili e sicuramente tra le sue amicizie tarantine ci doveva essere gente con dei dossier alti così negli archivi della Polizia. Infatti, ogni tanto, quando il suo comandante non c'era, altrimenti non avrebbe osato, si presentava a casa con stecche di sigarette o liquori di contrabbando (Gin soprattutto, ma anche brandy Metaxa e liquori spagnoli sconosciuti), presi chissà dove e che mia madre, per quieto vivere gli comperava, anche perché i prezzi erano davvero stracciati. Questo non ci piaceva, ma, d'altronde, il contrabbando era l’attività ordinaria di ogni porto del Mediterraneo e quindi mia madre, essendo donna pragmatica e di riflessi svelti, chiudeva un occhio. 

Ad ogni modo di questi suoi strani giri di amicizie ce ne accorgemmo definitivamente una mattina quando a mia madre, che si era fermata davanti alla bottega del macellaio Ubaldo (il Ribaldo), giusto il tempo di comperare due fettine, rubarono la bicicletta, una vecchia Bianchi rugginosa, con tutta la spesa nel cestino. Tornata a casa fuori di sé, mia madre raccontò del furto a Luciano che, dopo aver seguito con molta partecipazione la triste storia e aver commentato che Taranto era davvero una città di mariuoli, suggerì di non fare denuncia perché ci avrebbe pensato lui. Uscì di casa a fare delle telefonate riservate “alle persone giuste” e rientrò dopo qualche ora tutto sorridente, dicendo a mia madre con aria d’intesa di non preoccuparsi dato che si era trattato di un errore e che ora era tutto a posto. Altro non aggiunse e noi ci domandammo cosa intendesse dire con quel “tutto a posto”. 


Papà e mamma all'epoca, a cena al Circolo Marina


A metà pomeriggio sentimmo suonare con forza il campanello di casa. Mia madre, non avendo ottenuto risposta, scese da basso a vedere di cosa si trattasse e trovò la sua bici appoggiata al portone, tutta lucidata (sembrava nuova) e con tanto di spesa fresca nel cestino. Mio padre fu tenuto all'oscuro di tutta la faccenda (legalitario com'era ne avrebbe fatto una tragedia) e noi, ovviamente, ci accontentammo di quella grazia ricevuta senza approfondire ulteriormente. Luciano, da parte sua, lucrò qualche soldino, una bottiglia di whisky e tre giorni di licenza premio. 

Un paio di giorni dopo mia madre incontrò per le scale il marito della signora Pepe, detto “o’ ragioniere” che, dopo averla ossequiata con tutta l’untuosa deferenza di cui era capace (faceva il baciamano alle signore, ma non accennandolo semplicemente, bensì infliggendo loro umidi baci, vere e proprie slappate, sul dorso della mano), le chiese se fosse contenta di aver ritrovato la bicicletta. Siccome nessuno sapeva del furto oltre a Luciano, mia madre restò allibita. Ma le sorprese non erano ancora finite poiché “o’ ragioniere” le chiese subito dopo di accettare le scuse del giovanotto che aveva fatto “il lavoretto” senza sapere che quella bici apparteneva ad una “persona di rispetto” per troppa inesperienza (sa come sono i giovani…). Le chiese però una piccola mancia per il ragazzo che, in fin dei conti, le aveva lucidato la bici e rifatto la spesa pagando di tasca propria. Mia madre, pur di porre termine a quel colloquio così imbarazzante, frugò nella borsa e gli mise in mano una manciata di banconote senza nemmeno contarle. Messo velocemente in tasca il gruzzoletto “o’ragioniere” ringraziò e rientrò in casa sua (dal portone aperto si sprigionò denso un profumo di penne al ragù napoletano verace). Quando Luciano tornò dalla licenza premio si prese una nuova terribile lavata di capo per averci esposto ad una figura così compromettente, ma finalmente la Pepe e il suo preoccupante marito vennero rimossi per sempre dalle nostre frequentazioni. Luciano, malgrado questi incidenti di percorso, si affezionò moltissimo a noi (e noi a lui) e anche quando lasciò il servizio militare rientrando a Napoli, continuò a farsi vivo ogni tanto con qualche telefonata. Poi, tra una vicissitudine e l’altra, lo perdemmo di vista. 



L'Aviere in ormeggio a Venezia, per la nostra gioia  


Ricomparve misteriosamente una sera di oltre vent'anni dopo, a Venezia. All'ora di cena sentimmo suonare il citofono e siccome nessuno rispondeva ci affacciammo per vedere chi fosse al portone e dal campo una voce maschile, con un forte accento napoletano, ci chiese se abitava lì il suo comandante, facendo il nome di mio padre. Dio solo sa come, ma era riuscito a trovarci (magari grazie a qualche telefonata con “o’ ragioniere”). Luciano arrivò in casa carico di stecche di sigarette americane e regalini per tutti (per me uno Zippo con effigiata una procace donnina nuda, che fu subito sequestrato da mia madre con la scusa che non fumavo...). Lo abbracciammo con tanto affetto e poi, una volta accomodati in salotto, gli raccontammo di mio padre che purtroppo non c’era più e lui ci raccontò tutte le sue peripezie familiari, del fallimento della sua lavanderia, dei suoi quattro figli (un quinto gli era morto giovanissimo dopo una caduta dal motorino) e di come vivesse, per sbarcare il lunario, facendo il macchinista a bordo di scassatissime navi da carico attraverso i mari più esotici. Il classico cargo battente bandiera liberiana, insomma. Ma quale fosse la sua mansione a bordo, purtroppo, non aveva bisogno di dircelo, perché avevamo capito subito che con il frastuono delle macchine era diventato sordo come una campana. Poi non lo abbiamo rivisto più. Ma non è detto che dopo altri vent'anni, come in un racconto di Conrad, Luciano non ricompaia di nuovo. Io sono qui che lo aspetto...magari riesce a trovarmi anche a Mestre.

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