giovedì 10 settembre 2020

Degli anni di Taranto, della signora Pepe, delle casalinghe impiccione e del dramma dei cachi


Moltissimi anni fa, parlo del 1956, mi trovavo a Taranto, con mio padre, mia madre e mio fratello perché papà era stato nominato ufficiale in seconda dell'Aviere, un grosso cacciatorpediniere americano (ex USS Nicholson) veterano della guerra nel Pacifico ceduto nel primo dopoguerra all'Italia assieme al gemello Artigliere e di stanza con la squadra navale in quella base. 

Sul nostro pianerottolo al quarto piano di una palazzina in Corso Umberto si affacciava anche l’appartamento di una piccola e cicciottella casalinga napoletana (immaginate una sorta di Marisa Laurito, ma in formato mignon) moglie di un impiegato comunale, tale signora Pepe, che era una di quelle persone che sembra vivano unicamente per impicciarsi dei fatti altrui e si fanno un punto d’onore ad aggiornarti su quel che succede nelle altre famiglie del condominio, con particolare riferimento alle tresche amorose. Noi, dopo solo una settimana dal nostro arrivo nella palazzina, eravamo già stati messi al corrente, con fare complice, che quella biondona tutta cotonata che stava con il signor De Cataldo al quinto piano in realtà non era la vera moglie, che invece viveva a Bari con un altro, mentre correvano voci che la signora Angelillo, quella del secondo piano, se la intendesse da anni con il titolare del bar di fronte, mentre quel povero marito, tanto una brava persona, ma tanto ingenuo, non s’accorgeva di nulla (e solo un cieco non avrebbe notato come il figlio non gli assomigliasse affatto). Naturalmente a noi di tutte queste vicende private non poteva importare di meno, ma per la Pepe questo sembrava essere un dettaglio di poco conto.

La nostra esuberante vicina di pianerottolo, oltre al desiderio – mai esaudito per assoluto divieto paterno – di essere invitata a cena e d’intrattenere rapporti con la famiglia di uno di quegli ufficiali di marina che in città erano considerati una casta a parte, aveva come apparente scopo della sua esistenza quello di rivaleggiare con il nostro tenore di vita (che poi non era nulla di speciale). Perciò, se noi si comperava una qualunque cosa, lei come minimo ne comperava due, oppure una (vistosamente) più grossa. Come devo aver già raccontato in un post di qualche tempo fa, l’unico vantaggio per noi piccoli arrivava alla vigilia di Natale, quando la Pepe c’invitava ad ammirare il suo albero (il doppio del nostro) e ci rimpinzava degli addobbi di cioccolata e marzapane (due volte più numerosi dei nostri). Il lato negativo della cosa, invece, era che la Pepe, per confermarci che eravamo proprio di fronte ad una pia donna, ci invitava a recitare le preghierine a mani giunte e solo dopo sganciava il cioccolato. E, proprio alla vigilia di un Natale, la Pepe se ne uscì con un lapsus clamoroso, invitandoci premurosa, con la sua vocina cantilenante, ad essere tanto buoni e a dire le preghierine:“Che facciamo tanto contento il Gesuino Bambù!”. Questo fatto del “Gesuino Bambù”, subito riferito, scatenò per giorni l’ilarità di mio padre e divenne un vero tormentone. 


Mia madre e mio padre ad un ricevimento al Circolo Marina


La Pepe era in perenne agguato sulle scale (per me sorvegliava i nostri movimenti dallo spioncino della porta) ed era quasi impossibile uscire o rientrare a casa senza vederla comparire ad offrirci preziosi suggerimenti non richiesti. Se riuscivamo a sottrarci con qualche sotterfugio all'agguato per le scale, allora la Pepe agguantava mia madre non appena si recava a stendere la biancheria sul balconcino della cucina che era adiacente al suo. Bastava attendere qualche secondo e subito compariva la nostra vicina che, anche lei, ma guarda il caso, era lì per stendere i panni. Da quel momento, apriti cielo! Le sue conoscenze, a quanto c’era dato di vedere, spaziavano su qualsiasi settore della vita tarantina. Mia madre aveva comperato la carne dal macellaio Ubaldo, quello con il negozio all’angolo? E lei subito ti diceva sgomenta “Uuh! Mamma mia! Ma dove è andata? Signora, chillo è nu mariuolo di tre cotte! Io lo chiamo Ubaldo il Ribaldo perché rubba sempre sul peso! Le dico io dove deve andare…” e giù una lista dei migliori macellai di Taranto. Mia madre era appena stata dal parrucchiere? E via con una serie di considerazioni sulla permanente non perfetta (fosse andata al Salone Lola di Corso Umberto, invece…). Per acquistare il pesce (“Uuh! Mamma mia! Signora, ma che pesce le hanno venduto?”) ovviamente si doveva andare soltanto da Salvatore, quello che aveva il secondo banchetto a sinistra nel mercato di Taranto Vecchia (e che facessimo pure il suo nome). Un vero incubo, insomma. 

Quando poi riusciva a mettere piede dentro casa nostra, sempre con le scuse più inverosimili, soppesava ogni nostro avere, dalle stampe antiche appese sopra il divano, alle chincaglierie d’argento sul tavolino del salotto (“Mamma mia! Quante belle cose che tenete, signora cara!”) e sembrava sempre che ci facesse i conti in tasca. Se poi riusciva a penetrare in profondità, fino alla cucina, si scatenava nel valutare quali cibi fossero in preparazione (talvolta alzava persino i coperchi delle pentole) e trovava sempre qualche miglioria da suggerire su tempi di cottura o condimenti. A volte mia madre si accorgeva che la Pepe cercava di sbirciare anche in camera da letto attraverso la porta socchiusa e questo l’irritava assai (anche per il caos inestricabile che vi regnava). 


l'Aviere si rifornisce in navigazione dall'incrociatore Montecuccoli


La nostra vicina, assolutamente indomabile nel suo desiderio di avviare relazioni cordiali con noi, visto che da parte nostra non arrivava alcun segnale d’incoraggiamento (e mai sarebbe giunto) prese direttamente in mano la questione e, sapendo di colpire nel ventre molle, cominciò una furba manovra d’aggiramento con una serie di inviti a pranzo per noi bambini (tanto simpatici e educati). Poiché la signora si riteneva irresistibile nell’individuare e risolvere problemi altrui, per dare maggior forza all’invito e con grande sensibilità verso mia madre le fece notare come i due guaglioncelli fossero tanto pallidi e magri e ne concluse che sarebbe stato il caso di sottoporli ad una bella cura ricostituente a base delle sue celeberrime penne al ragù napoletano verace. Mia madre rimase a lungo incerta se offendersi o esserle grata, visto che le risparmiava l’incombenza di cucinare. Poi prevalse lo spirito pratico. Di conseguenza, la Pepe ci mise all'ingrasso come maiali, sempre previa preghierina pre e post-prandiale, perché era tanto devota. Qualche settimana dopo anche mia madre, incrociata casualmente sul pianerottolo, venne considerata sciupata e magrolina e di conseguenza gli inviti a cena vennero estesi anche a lei (senza preghiere e solo quando mio padre era per mare). Con mio padre, uomo di carnagione olivastra e dal fisico atletico, il trucco del pallore non poteva funzionare. Ma funzionava benissimo il debito d’ospitalità (perché noblesse oblige). Pertanto, una sera, grazie a questa sapiente escalation, la Pepe ottenne un risultato di grande importanza che sancì il trionfo delle sue strategie. Una cena a casa sua con tutta la nostra famiglia, mio padre compreso. In realtà, mio padre, aveva nicchiato per giorni chiedendo a mia madre se non poteva dirsi affondato e disperso in mare o cose del genere. Poi, rassegnato, di fronte alla considerazione che non si poteva fare la figura dei maleducati, accettò. 



L'Aviere in navigazione con mare grosso


La prima preoccupazione della Pepe (bardata come una cavallerizza del Circo Orfei e sfoggiante una vistosa acconciatura nero-corvina sicuramente proveniente dal rinomato Salone Lola di Corso Umberto) una volta varcata la fatidica soglia fu quella di farci subito visitare con orgoglio ogni stanza del suo appartamento, cosa della quale, come capirete, non ci poteva fregare di meno. Fummo così condotti in mesta processione ad ammirare una serie di mostruosità domestiche, tra le quali ricordo un numero impressionante di santi sotto campana di vetro e madonne ingrottate dentro enormi conchiglie (con il lumino, proprio come al cimitero), una credenza baroccheggiante dove spiccavano due cavalli rampanti di maiolica dipinta, un copri asse del water in ciniglia rosa, alcuni quadri ad olio stile pizzeria (una natura morta con cozze, limone e cesti di sardine e un ritratto di bimbo imbronciato con lacrimone sulla guancia) ed in camera da letto, colpo finale, la bambolona con il vestito di pizzo e le treccine adagiata sul copriletto di raso. Sbirciai la faccia dei miei. Mia madre lanciava dagli occhi lampi di puro divertimento, il volto di mio padre era impassibile e terreo, come di chi sa soffrire in silenzio. 

Tra gli orrori in mostra, comparve ad un tratto anche un buffo omino bassottello, spelacchiato e con gli occhiali che la Pepe ci presentò subito come suo marito “o’ ragioniere”. Che non si capiva se era un titolo di studio o il soprannome del bar del biliardo. Caratteristica di “o’ragioniere” era quella di non poter aprire bocca senza essere contraddetto o zittito da sua moglie che monopolizzava il dialogo con tutti noi e in special modo (anche se senza troppo successo) quello verso “o’comandante”. Colpiva soprattutto nel poveruomo, oltre alla cravatta fantasia sulla camicia fantasia, l’aria sottomessa e abbacchiata (e, del resto, con una virago di moglie così…). A sentire la sua dolce metà, l’unica attività degna di nota di “o’ragioniere” era quella di prendere parte annualmente alla processione dei Perdoni, quella dove penitenti incappucciati con un abbigliamento a metà via tra le processioni sacre spagnole e quelle del Ku Klux Klan (mi perdonino gli amici tarantini) sfilano per tutto il centro cittadino al ritmo di due passi avanti e uno indietro, pregando e flagellandosi le spalle con la frusta. Veniva spontaneo chiedersi cosa mai quel poveruomo, che già portava la croce di quella moglie, avesse ancora da farsi perdonare (ancora qualche settimana e l’avremmo scoperto).

La cena, annunciata come alla buona e in famiglia, fu un vero sfoggio di alta gastronomia partenopea (il lettore s’immagini qualsiasi cosa, purché sostanziosa, fritta, rifritta e affogata nell'olio extra vergine) e tutto sembrava filare alla perfezione fino al momento di portare in tavola il lussureggiante vassoio della frutta, dove spiccavano alcuni splendidi cachi maturi. Qui la signora Pepe fu probabilmente tradita dal suo disperato bisogno di vincere la soggezione che le ispirava mio padre e così lo invitò premurosamente a servirsi con uno stentoreo: “Comandante! U’ pigliainculo!”. Mio padre, folgorato, restò con la forchetta per aria. Noi tutti ci fermammo attoniti. Gli occhi di mia madre brillarono luciferini, mentre la Pepe, ostinata, ribadiva il suo invito con un bel sorriso: “Comandante! Gradisce nu pigliainculo?". 
Scusi, signora, non sono certo di aver capito…che cosa intende dire?” le chiese gelido mio padre. 
Perchè? Non le piacciono i pigliainculo?”. La sventurata proprio non si capacitava che mio padre rifiutasse una tale prelibatezza, finché immagino le sia giunto provvidenziale un calcio sotto tavola da parte di “o’ ragioniere” giacché di colpo le connessioni di quel cervello ripresero a funzionare. “Uh! Mamma mia! Comandante! Non vi sarete offeso? Come la chiamate voi al nord questa frutta accà? ” disse prendendo un caco in mano e mostrandocelo.
Cachi, signora, noi li chiamiamo semplicemente cachi, al massimo kaki con la kappa” 

Mio fratello e io non riuscivamo più a trattenere le risa guardando il viso di mio padre che era tutto un programma. La mamma ci fece un rapido cenno di stare buoni, immagino perché non voleva perdersi il seguito del dramma umano che si stava consumando davanti a lei. 
Aaah! Adesso ho capito. Mi dovete proprio scusare. Qui in dialetto li chiamiamo pigliainculo, perché se ne mangiate troppi e non sono maturi, poi non vi fanno più venire la cacarella. Lo sapevate Comandante?”.
Detto questo, cercando di tornare nelle nostre simpatie pur senza mai esserci entrata, con la mossa della disperazione si rivolse a mio fratello e ponendogli affettuosa una mano sulla testa gli domandò “E tu, giovanotto, la fai la cacarella?”. Mio fratello, sgomento, dopo aver cercato con lo sguardo l’approvazione materna, borbottò di sì e la Pepe concluse sospirando “Uh! Mamma mia! Quanto è bbravo stù guaglione!” e subito si lanciò lungo la china scivolosa di un dettagliato resoconto di quanto accaduto ad un suo nipote di Caserta che, non facendo la cacarella per delle settimane, aveva avuto non so più quali problemi intestinali e che lei aveva amorevolmente curato con non so più quali rimedi naturali. Il tutto si concluse con una lunga e appassionata perorazione a favore della regolarità delle funzioni intestinali. 

La Pepe ormai, dopo l'urto contro lo scoglio del caco, era senza speranza, imbarcava acqua, navigava sbandata ed era in procinto di capovolgersi, così mio padre l'affondò definitivamente con un siluro: “La ringrazio del prezioso consiglio di cui mia moglie, i miei figli ed io faremo tesoro. Anzi, poiché domani mattina usciamo in mare lo ricorderò all'equipaggio. Ci sarà sicuramente molto utile!”. La cena ebbe termine nella più gelida cortesia formale (clima siberiano) e la Pepe iniziò quella vertiginosa caduta in disgrazia che si completò rovinosamente poco tempo dopo, giacché il peggio doveva ancora arrivare, ma ve lo racconto tra qualche giorno.... 



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