domenica 27 novembre 2016

Dell'antica arte veneziana di farsi comperare il motore nuovo dalle mamme


Qualche giorno dopo il mio naufragio tragicomico, esaurito il clamore di popolo per la vicenda, riprovai a portare la Tellina fino al suo cantiere di San Piero di Castello compiendo il periplo del Lido. Mia madre, sicuramente preoccupata per le mie sorti, ma adducendo la scusa che il suo sogno era sempre stato quello di ammirare da una barca lo spettacolo del passaggio attraverso la bocca di porto fino dell’entrata nel bacino di San Marco, volle farmi compagnia e dopo essersi presentata inattesa in capanna ed esaminata con aria perplessa e un: “Tutta qui?” la mia minuscola scialuppa, al momento di prendere il mare salì a bordo sedendosi coraggiosamente al mio fianco. Accettai di buon grado la sua presenza perché in fondo un po’ di compagnia avrebbe alleviato la noia del viaggio, ma soprattutto l’ansia che mi attanagliava anche se, dopo la figuraccia del naufragio, l’idea di navigare accompagnato dalla mamma mi metteva in ulteriore imbarazzo perché a Cristoforo Colombo, Magellano ed Amerigo Vespucci la presenza materna a bordo era stata risparmiata. Credo anche a James Cook e Vasco da Gama. 

Comunque, la sua partecipazione all'evento si dimostrò inaspettatamente vantaggiosa perché giunti al traverso della spiaggia libera di San Nicolò, dopo due ore di navigazione con una corrente contraria talmente forte per i due cavalli bolsi del motore che a momenti sembrava che la Tellina fosse ferma, mia madre ordinò spazientita di accostare a riva. Sul momento pensai che ne avesse le scatole piene di cuocersi il cranio sotto il sole con quella mia velocità da lumaca, ma il motivo vero era che, essendo già da un pezzo l’ora di pranzo, aveva deciso di gratificarci con una bella frittura di “anguelle” e “sfogi” (pesciolini e piccole sogliole di laguna da preparare con un’infarinata veloce e poi subito dentro l’olio bollente) dalla Sidonia. Questa era la signora ben in carne e dall'aria paciosa che gestiva con la sua famiglia il rustico bar-trattoria che si affacciava sulla spiaggia: una casupola in cemento e lamiera con la veranda esterna in legno e riparata da frangivento fatti con le canne, non molto distante dalla diga foranea che s’inoltrava in mare per oltre un chilometro fino alla lontanissima rotonda in punta dove era situato il faro.


Il faro in fondo alla diga foranea di San Nicolò al Lido


La signora Sidonia era diventata nel corso degli anni una cara amica di mia madre che, detestando da bohemienne qual’era i formalismi della vita di capanna negli stabilimenti alberghieri dove le signore “bene” veneziane si presentavano tutte in ghingheri e sfoggiavano i costumi delle boutique del centro, appena arrivavano le giornate calde e luminose di maggio si metteva addosso la prima camicetta che le capitava sottomano, s’infilava dei pantalonacci larghi e stinti sul costume da bagno demodé, calzava le sue adorate “furlane” (quelle specie di coloratissime espadrillas che un tempo erano cucite a mano con i ritagli di velluto dalle montanare della Carnia e che come suola avevano un pezzo di copertone di bicicletta) e preso con sé il suo cappello di paglia originale cubano, vinto ad una festa dell’Unità, si recava a prendere il sole, un bianchetto in amicizia e talvolta a dipingere in quella spiaggia semi deserta, dove si arrivava a piedi dal capolinea dell’autobus della Linea A attraversando un breve sentiero sterrato tra cespugli, sabbia, rottami vari e alcuni vecchi bunker della seconda guerra mondiale immersi tra le sterpaglie e usati come deposito e rifugio da varia umanità.


Che nelle capanne degli alberghi al Lido le signore bene
si mettevano i bigodini per uscire la sera con i capelli a posto.

Sulle pareti del bar, frequentato da pochi bagnanti occasionali e dai tantissimi pescatori che sostavano per ore lungo la diga con le loro lenze in acqua, c’erano alcune belle vedute di laguna dipinte da mia madre (uno dei suoi temi preferiti) assieme ad un insolito scorcio della spiaggia che era sicuramente una ruffianata di quell'incantatrice di serpenti perché ritraeva - guarda caso - il locale della Sidonia immerso tra i canneti e le dune in tal guisa che sembrava uscito da un racconto di Conrad. Di conseguenza, la mia intraprendente genitrice godeva di credito illimitato e di un trattamento di riguardo. Esattamente (si parva licet) come all’altro capo del Lido accadeva in quegli stessi anni a Hugo Pratt che si pagava i pranzi e il soggiorno alla trattoria “Da Scarso” a Malamocco con qualche disegno di Corto Maltese.


Quelli che incrociano la tua rotta e tu hai solo un motorino
da 2 hp per toglierti di mezzo alla svelta (1972)


Il fatto che mia madre fosse l’artista prediletta dai proprietari del locale comportava che quando il marito della Sidonia tornava con la barca dal bacàn davanti a Treporti c’era sempre del pesce freschissimo da cucinare per gli ospiti di riguardo come noi. Così, seduti ad un tavolo traballante e stinto dal sole, apparecchiato alla buona con una tovaglia di carta a quadretti, ma con davanti a noi un vassoio enorme di frittura asciutta e croccante come dio comanda e un litro di Glera (un prosecco fermo) bello fresco, avvenne il miracolo perché mia madre affermò nell'ordine: 

A) Che era indecente che pensassi di andare in giro per la laguna con un “cagaoro” (testuale) di motore del genere e che quindi avrei dovuto acquistarne uno più potente. 

B) Che nel negozio di motonautica vicino a casa ne aveva visto alcuni usati in vendita e che poteva farmi avere un prezzo di favore, visto che tra le signore che venivano a lezione di bridge da lei c'era anche la moglie del titolare.

C) Che lei sarebbe rimasta dalla Sidonia ancora qualche ora a prendersi il sole e che sarebbe tornata a casa per conto suo. Quindi che salpassi pure le ancore a comodo mio. 

D) Che il whisky di fine pasto offerto dalla Sidonia lo avrebbe preso solo lei perché io dovevo portare la barca sino al cantiere possibilmente da sobrio. 

E) Infine, che il motore nuovo me lo avrebbe acquistato lei a condizione che la smettessi di “fare il Michelasso, che mangia, beve e va a spasso” (nuovamente testuale) e mi guadagnassi finalmente qualche soldino.


La chiesa di San Piero in volta, tra gli Alberoni e Pellestrina (1970)


Giacché le mamme non parlano mai per caso, mi rivelò che per pura combinazione e grazie al suo sconfinato giro di amicizie, che era un po’ come la borsa di Eta Beta da cui poteva uscire sempre di tutto, mi aveva trovato un lavoretto da un tizio del Lido che disegnava fumetti per adulti (roba dell’epoca, che oggi farebbe sorridere) per una casa editrice milanese. Si trattava di ricopiare con la penna a china, sovrapponendoci degli speciali fogli trasparenti di acetato necessari per gli impianti di stampa, gli originali delle vignette che lui disegnava su carta. Questo significava stare tre pomeriggi a settimana in piedi per quattro ore (almeno) davanti ad un tavolo da disegno a “chinare” pazientemente le vicende piccanti di una vampiressa procace e in guepière o, in alternativa, di una guerriera vichinga con la quinta di reggiseno. Noioso, ma discretamente retribuito. Dunque, accettai e nel giro di qualche tempo potei agganciare al pianale di poppa della Tellina un fiammante e velocissimo motore Johnson da 15 cavalli, che era come passare dalla bicicletta alla moto. Con tutti i vantaggi ma anche i rischi connessi, però di questo ne parleremo più avanti. Per festeggiare l'inizio della nuova era di navigazione lagunare la Tellina venne ribattezzata Carla II in onore della mia finanziatrice e in spregio alla superstizione marinara per la quale cambiare nome ad una nave porta male, ma in fondo, visto che la barca era affondata pochi minuti dopo il varo, non è che il vecchio nome le avesse portato molto bene e dunque valeva la pena di tentare la sorte.

Comunque, tornando a quel giorno, lasciata mia madre a fare quattro chiacchiere dalla Sidonia e ripresa la navigazione in solitaria restai senza miscela all'altezza dell’isola delle Vignole per un mio eccessivo ottimismo sui consumi del motore ma forse anche per quell'alone di sventura che aleggiava sull'imbarcazione provocato dalla maledizione del granzo porro. Tuttavia, dopo aver richiamato l’attenzione delle barche di passaggio (a Venezia ci si aiuta sempre in laguna) riuscii ad avere un rimorchio sino al distributore in Riviera san Nicolò da una Sanpieròta con a bordo una famigliola che rientrava dal picnic in barena, ma non prima di sentirmi chiedere dal conducente come mai me ne andassi in giro con un simile "cagaoro" di motore che al massimo andava bene per il canotto dei bambini.


Il naufragio della Tellina nei miei racconti
(in realtà non avevo controllato che ci fosse il tappo della sentina)

Così arrivai al mio cantiere, un grande capannone in lamiera di fronte alle mura dell’Arsenale, che erano quasi le otto di sera, con i due addetti al rimessaggio delle barche che stavano tirando giù la saracinesca. A Venezia trovare un posto libero in qualche cantiere per il rimessaggio della propria barca è sempre stato un’impresa ai limiti dell’impossibile e probabilmente quello che avevo trovato, a parte il costo da strozzini dell’abbonamento mensile e le condizioni capestro (tre mesi già pagati in anticipo a titolo di caparra), disponeva ancora di qualche posto libero solo per il pessimo servizio e per l’atteggiamento ruvido del personale che avrebbe indotto chiunque ad andarsene altrove, se solo avesse potuto. Io non potevo e questo mi diede modo di apprendere subito alcune colorite espressioni del dialetto di Pellestrina espresse con la tipica cantilena e di sentirmi dire con malagrazia che, al massimo, potevo legare la barca ad una delle loro paline, che di tirarla su con le cinghie e l’argano a quell'ora non se ne parlava neppure. Immaginai che se avessi tirato fuori una banconota da diecimila se ne sarebbe parlato eccome, ma sfortunatamente dopo il pieno al distributore le mie finanze ammontavano a duecento lire e tre gettoni del telefono, dunque non disponevo di strumenti di persuasione e dovetti rassegnarmi

Alla mia domanda angosciata sulla possibilità di sopravvivenza del motore nel caso fosse rimasto incustodito per una notte mi venne risposto bruscamente “ma chi vol che te lo ciàva un cagaoro del genere?”. Guardai il mio vetusto 2 hp e pensai che se aveva ricevuto tre volte nello stesso giorno da persone tanto diverse la qualifica infamante di “cagaoro” forse non avevo davvero nulla da temere. Infatti, quella notte sparirono dalla barca i costosi giubbotti salvagente appena comperati (dimenticati stupidamente a bordo) ma il motore nessuno me lo portò via…

(continua...)

3 commenti:

  1. G.mo Volebele Vay, sono passati anni dalla scoperta del suo blog e dalla lettura del suo libro "ars amandi veneziana", ore per me di piacevole lettura, soprattutto per i continui riferimenti alla vita in Marina di suo padre ed i suoi aneddoti come figlio di un ufficiale. Poi un periodo di assenza di suoi scritti e vicissitudini della vita, con corollario di brutti imprevisti di salute,mi hanno tenuto lontano dal suo blog, che oggi ritrovo con vero piacere. Avrò un bel pò da leggere. (Sfogliando l'archivio de "La Stampa" avevo ritrovato l'articolo sull'incidente in cui perse la vita suo padre. Vittima della guerra fredda ?, chissà ?.)-Giuseppe Grosso

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  2. Caro sig. Grosso, mi ha fatto davvero piacere questo suo commento inatteso sul mio blog e sono davvero felice che i miei scritti le piacciano e di averla tra i miei lettori, anche perché vedo che ci accomuna la vita di mare e l’appartenenza alla grande famiglia della Marina. Purtroppo, come ha notato, ho avuto anch'io due anni fa un problema di salute abbastanza serio che mi ha tenuto lontano dal blog per qualche tempo, ma ora ho ripreso in pieno e dunque scriverò ancora e magari anche qualche storia sulla nostra vita itinerante tra circoli marina e basi navali sulla quale mi farà particolarmente piacere avere il suo giudizio. La ringrazio moltissimo per avermi segnalato l’articolo sulla scomparsa di mio padre contenuto nell'archivio de La Stampa e del quale ignoravo l’esistenza. L’ho trovato facilmente e l’ho salvato insieme ad altri documenti e foto sulla storia della mia famiglia. Visto che siamo vicini alle festività natalizie le faccio tantissimi auguri cordiali di trascorrerle al meglio e, ovviamente, da uomo di marina, auguro buon vento a lei e tutti i suoi cari.

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    1. Ricambio gli auguri a lei e famiglia e non mancherò di continuare a seguirla.

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