domenica 16 agosto 2020

Dei fotografi che il ritratto in posa proprio non lo sanno fare e dei loro esordi sfortunati


Di solito la domenica, anche se nessuno me lo chiede, mi piace mettermi alla tastiera mentre la lavatrice che mia moglie ha messo su prima di uscire per andare dai genitori finisce il suo ciclo di lavaggio per raccontare qualcosa, perché so che diverse amiche e amici si divertono - bontà loro - a leggermi. Oggi ho pensato di prendere spunto dal fatto che ho almeno quattro cari amici su Facebook e nella vita che sono eccellenti fotografi e, a parte uno di loro che ha uno stile di narrazione fotografica in cui mi riconosco, gli altri sono prevalentemente dei bravissimi fotografi di modelle (spesso splendide) messe in posa in studio o in ambienti suggestivi e scelti con cura per ottenere immagini sempre di buon gusto e di taglio professionale .

E questa è una loro dote che ammiro e anche invidio perché il ritratto in posa non è nelle mie corde e proprio non riesco a farlo, in quanto so già che sarei retorico e scontato o, peggio ancora, avendo visto da appassionato di storia della fotografia, migliaia di immagini scattate da Helmut Newton, David Hamilton o Szymon Brodziak e ci metto perfino Man Ray e Mariano Fortuny, di sicuro finirei per fare inconsapevolmente qualche déjà vu di foto loro.

Del resto, avendo iniziato a fotografare nel 1967 (primo anno di università) il contesto culturale e sociale in cui stavo entrando portava inesorabilmente alla foto di reportage e alla street photography e tutti i ritratti, perché ne ho fatti anch’io, eseguiti in quegli anni (e anche dopo, come vedete da questa piccola selezione di foto di mia moglie, non postando quelli numerosi di mie volonterose amiche degli anni '70 per motivi di privacy) erano soltanto momenti e gesti presi al volo e spesso rubati al soggetto senza nessuna posa, ma che ai miei occhi e a quelli di chi poi avesse visto l’immagine, raccontavano una storia o rivelavano un carattere (almeno queste erano le mie intenzioni).


 

Per dirvi quindi quanto sia totalmente negato per la foto in posa (ricordo di aver fatto anche una decina di scatti ad una amica di mio fratello molto carina sulla spiaggia degli Alberoni in pieno inverno, ma alla fine le due foto migliori erano quelle che lei aveva fatto a me), vi rivelerò queste vicende piuttosto imbarazzanti che hanno segnato i miei volonterosi esordi in questo campo e che mi hanno indotto a smettere nel giro di poco tempo per manifesta incapacità.

Alla disperata ricerca di qualche lavoretto per rimpinguare l’esigua paghina settimanale, grazie ad un amico la cui madre era una maestra delle elementari avevo avuto l’incarico di fare la foto ricordo di un paio di classi di quinta con i loro insegnanti nel cortile dell’Armando Diaz. Così, volendo dare l’idea di essere molto professionale e disponendo solo della Vito B Voigtlander regalatami dal nonno per la comunione, mi ero fatto imprestare da un amico una (costosissima) Leica a telemetro con tanto di cavalletto e, dopo aver messo tutte le due classi in posa nel cortile (penando non poco per far stare quieti i bambini), avevo scattato una decina di foto. Una volta a casa, entrando nella mia camera oscura per sviluppare la pellicola, mi sono accorto che non c’era alcuna pellicola perché mi ero dimenticato di metterla. Quindi, con la coda tra le gambe e adducendo una qualche supercazzola di problemi tecnici, ho dovuto telefonare alla scuola chiedendo se per cortesia si potevano schierare nuovamente le classi in cortile per una nuova serie di foto. Ottenuto il permesso, ritornai con la Leica, il cavalletto e almeno quattro rullini di pellicola, che non si sa mai. Alla fine dopo essere rientrato a casa tutto contento, ho sviluppato la pellicola in camera oscura e solo allora, essendo la Leica una macchina a telemetro, mi sono accorto di aver fotografato con il tappo sull'obiettivo. Credo che all’Armando Diaz stiano ancora aspettando le mie foto, ma forse cinquant’anni dopo si sono rassegnati.




Così, per evitare in futuro inconvenienti del genere, mi sono comperato una delle prime reflex, una Canon FT, perché così, visto che s’inquadra attraverso l’obiettivo, se ci fosse stato il tappo me ne sarei accorto. L’occasione seguente arrivò con il matrimonio a Torcello del mio compagno di stanza a Padova al quale mi offersi di fare il servizio fotografico e, per sua fortuna, il padre della sposa affidò lo stesso incarico ad un fotografo professionista, giacché io, ormai in preda ai sacri furori sessantottini della foto di reportage sociale, a parte un paio di immagini banalotte dei due sposi inginocchiati davanti all’altare e di una foto ravvicinata in cui si vedeva benissimo quella scritta “aiuto! “ che qualche buontempone aveva scritto in bianco sulla suola nera delle scarpe di Roberto (lui quando la vide rise, ma i suoi suoceri no…) mi dedicai soprattutto a fotografare la sua vecchia zia monumentale con il vestitone a fiori e la montagna indecente di scampi e bresaola che traballava sul piatto preso al buffet, il chierichetto che sbadigliava senza ritegno alle spalle del sacerdote e il cugino di sette anni che si scapperava il naso durante la cerimonia. Inutile dire che quando presentai le foto fui ringraziato gelidamente e non mi vennero neppure rimborsati i costi della stampa.




L’ultima occasione di riscatto arrivò l’estate seguente quando mia madre, che aveva un talento innato per attaccare bottone con gli sconosciuti, purché strambi come lei, mi aveva portato a casa una ragazza americana di Los Angeles conosciuta in treno rientrando dalla montagna e che stava seguendo un corso di sei mesi organizzato dalla sua università (e sicuramente molto costoso) in collaborazione con lo IUAV che si occupava genericamente d’arti varie (dalla fotografia alla dipintura dei tessuti e dalla ceramica al vetro). Ad occhio e croce si trattava di una gran pippata per allieve facoltose, ma non era carino dirlo e comunque lei stava realizzando un libro fotografico sui camini veneziani. Così pur giudicando la cosa una cazzata immane, (su pressante invito di mia madre) mi offrii di portarla a zonzo per le zone più nascoste della città alla ricerca del camino perduto. Così una mattina di buonora, con la mia nuova Nikkormat al collo e chino sotto il peso del borsone pieno di obiettivi, assieme alla ragazza cominciai il Venetian Old Camini Tour che si rivelò subito un'impresa pazzesca perché quella sembrava spiritata e di ogni camino che le indicavo, dai Frari a San Pietro di Castello e da Sant’Alvise alle Fondamente Nuove, trovava sempre qualcosa da ridire. Ne vedevamo di tutti i tipi, a cono e squadrati, a semicono tronco e a spirale, in mattone e in metallo, ma pochi le sembravano degni di uno scatto. Mi sentivo una specie di caddy che portava su e giù per le diciotto buche del campo la sacca con le mazze da golf, scodinzolando ubbidiente dietro al padrone. Alla fine, comunque, grazie anche alla Corte dei camini alla Giudecca, una ventina di scatti decenti per il suo libro vennero fuori e così, avendo appreso durante la strada che avevo una barca, mi chiese se potevo portare lei e il suo ragazzo in laguna per un servizio fotografico.




Così, un paio di giorni dopo, imbarcati di buon’ ora lei e un biondone palestrato che sembrava uscito da Bay Watch, dopo un’oretta di navigazione e uscendo dalle briccole che segnavano il percorso del canale navigabile ci fermammo in un tratto di acqua abbastanza bassa tra Burano e Sant’Erasmo. Li i due ragazzi, dopo essersi spogliati nudi senza alcun imbarazzo, entrarono in acqua (gli arrivava poco sopra alle ginocchia) e dopo averla raccolta a manciate si cosparsero della melma grigiastra del fondo (non ebbi il coraggio di dirgli che ospitava anche dei piccoli vermi). Subito dopo aver ricoperto completamente testa, viso e tutto il resto si trasformarono in statue d’argilla assumendo pose plastiche da statua greca con la laguna e Burano sullo sfondo mentre io, sceso in acqua a mia volta scattavo il più velocemente possibile per togliermi dall'imbarazzo (studiando legge ero consapevole che un nudo all'aperto comportava tutta una serie di reati, anche se volevano essere pose artistiche).
Il problema fu che non c’era solo Burano sullo sfondo, ma quasi subito nel canale transitò una grossa barca da carico con cinque persone a bordo che alla vista dei due ragazzi nudi in mezzo all’acqua, virarono di bordo più volte per godersi la scena facendo gestacci e coretti che immaginate facilmente. Una volta risciacquati e risaliti a bordo, tolsi il rullino dalla macchina e glielo porsi dicendo loro: “E’ meglio che ve lo facciate sviluppare in America…”. Loro presero quel gesto per una mia delicatezza professionale, trattandosi di foto di nudo, ma in realtà era perché ci tenevo ad avere almeno un oceano di mezzo.

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