venerdì 10 giugno 2016

Dei suonatori lungocriniti in rotta per il Mar Nero tra Polifemi e lettere a Pinocchio.

Tutto sembrava filare a gonfie vele nell'appartamento padovano che mia madre aveva affittato per facilitarmi negli studi (che erano proprio l'unica cosa che non filava) anche perché, pur avendolo subito trasformato in alcova e centro permanente di dissolutezze e cazzeggiamenti vari, avevo perfino lucrato un trenta in sociologia, che allora lo davano anche al postino che portava le raccomandate, ma in famiglia, dato che lo ignoravano, ne menavo gran vanto. Una sera, però, arrivò la telefonata che mandò ogni cosa all'aria. Era la proposta di un'audizione e di una successiva scrittura per suonare come orchestra di classe turistica a bordo delle navi da crociera dell'Adriatica di Navigazione.

Come i miei lettori ricorderanno, oltre ad esplorare le frontiere del piacere con la mia Donatella (fate finta di crederci, si sa che in queste cose i maschietti esagerano sempre) e dell’alta gastronomia con il pulet à la merde, in quel primo anno di università mi dedicavo con grande trasporto al mio complesso rock, nato ancora ai tempi del liceo.

In quegli anni imparavi a suonare la chitarra anche per strada, da sconosciuti.

Prima di compiere l'errore dell'appartamento, l'altro grande sbaglio di mia madre era stato quello di regalarmi tra mille raccomandazioni perché non trascurassi lo studio (ma figuriamoci) una chitarra acustica in offerta stracciata da Barera, in Merceria. La chitarra in questione era di un orrido colore giallastro (che la rendeva invendibile a prezzo normale) e con una tastiera dura come un manico di scopa e a momenti ti pagavano loro purché la portassi via. Ma essendo un giovane di grande ingegno, sostituii subito le corde ruvide che scorticavano le dita con quelle lisce da chitarra elettrica per poterle “tirare su” e appena finito il doloroso apprendistato sul giro di do e il barrè dopo qualche mese la permutai con la mia prima chitarra elettrica, un’eccellente Zerosette Castelfidardo alla quale in seguito associaì una Fender Esquire a una piastra (che conservo ancora) e infine, la mitica Stratocaster di Jimi Hendrix (rivenduta quasi subito per cause sentimentali). Quindi, con altri quattro amici e compagni di classe tra i quali Emanuele che avevo persuaso subdolamente a fare il bassista (che per rimorchiare era la cosa più sfigata e dunque mica lo potevo fare io) fondai un complessino ad imitazione di un effimero gruppetto di Liverpool che allora andava tanto di moda ma di certo sarebbe svanito dopo il primo disco: The Beatles.
            
Gli inizi non furono brillanti, tanto che mia madre richiesta di un giudizio sul mio fragoroso accompagnamento di “She loves you” rispose gelidamente: “Davi l’impressione di un’armatura medioevale che rotola per una scalinata”. Questo, integrato da altri giudizi corrosivi sulla mia capacità di cantante, m'indusse presto a trasformarmi in chitarra solista. In ogni caso, del tutto corazzato contro i giudizi negativi che attribuivo comunque ad incompetenza, per un più completo adeguamento al ruolo mi lasciai anche crescere i capelli quasi sino alle spalle ed assunsi l’aspetto educatamente trasandato che poi caratterizzò anche l’imminente stagione dell’impegno politico. A causa del nuovo look affrontai stoicamente anche il martirio quotidiano del “Quando li tagli?” al quale mia madre, che per distinguermi da mio fratello con le sue amiche mi chiamava: “Il figlio lungocrinito”, si dedicava con impegno.


In versione "figlio lungocrinito", per la gioia di mamma.

Passavamo interi pomeriggi a provare in uno scantinato nei pressi della Misericordia, con gran sollazzo dei vicini e frequente arrivo dei vigili ed io, che nel frattempo mi occupavo di tutto fuorché di far progredire i miei esami di Giurisprudenza fermi a quell'unico voto, brigavo assai per ottenere una qualche scrittura seria che ci consentisse, finalmente, di abbandonare il circuito precario delle salette parrocchiali e delle festine private. Giunti alle soglie dell’estate del 1969, con un’abile strategia raccontai a mia madre che avevamo avuto una scrittura per una tournèe di alcune settimane nelle peggiori balere tra Jesolo e Lignano. Non era vero, ma servì egregiamente allo scopo perché lei, in piena crisi d’ansia, purché il suo bambino lungocrinito non finisse in certi postacci, ci trovò, grazie a sue amicizie del giro del bridge, una strepitosa scrittura per suonare sulle navi da crociera dell'Adriatica di Navigazione. 

Come si può immaginare, Donatella, nonostante le mie assicurazioni (poco credibili anche a me stesso) che avrei fatto il bravo ragazzo monogamo e fedele non la prese affatto bene e iniziò a tramare alle mie spalle, trovando ben presto appoggio in mia madre pentitissima che, non potendo rimangiarsi quanto promesso, con una tipica astuzia materna provò a sabotare la cosa inducendo la mamma di Emanuele a negare il permesso al nostro bassista.

L'Ausonia in uscita da Venezia. Durante le crociere estive suonavamo lì,
mentre d'inverno ci beccavamo quella carretta dell'Esperia.

Per loro sfortuna all'epoca leggevo con passione "L'arte della guerra" di Sun Tzu e dunque disponevo di raffinate strategie per contrattaccare. Tra queste, l'argomento forte era che avevamo firmato un contratto con penale incorporata ed era efficacissimo per tenere a bada quelle due e anche la madre di Emanuele, nota per il suo braccino corto e quindi spaventatissima dalla prospettiva di dover pagare dei soldi e così alla fine ci imbarcammo sulla motonave Ausonia dove, tra una crociera estiva ed una invernale (sull'Esperia) attraverso il Mediterraneo, tra Grecia, Turchia e Mar Nero, quella che doveva essere solo una scrittura di qualche mese si trasformò in due lunghi anni assai poco costruttivi dal punto di vista del mio impegno universitario (zero esami), ma sicuramente spettacolari per numero di esperienze e, siccome non siamo mica fatti di legno, anche di conquiste. Il cielo è vasto e l’Imperatore lontano” diceva un poeta cinese del medioevo per giustificare la dolce vita e i traffici illeciti nella remota isola di Haj-nan, e tale era il mio pensiero, anche se, tra tanta spensieratezza, capitava anche qualche episodio sfortunato.
 
sul ponte del'Ausonia in battuta tra le canadesi

Anche se, vedendomi così lungocrinito, il Commissario di bordo mi aveva spedito subito dal barbiere per via del decoro da mantenere a bordo, la mia prima preda, già al secondo giorno di navigazione, fu una traccagnotta americana afflitta, oltre che da cellulite precoce, anche da un vistoso strabismo (e subito gentilmente ribattezzata dai miei compagni: Polifemo) che, dopo una pomiciata notturna di routine sulle comode sdraio del ponte di passeggiata, già dal giorno seguente fu disinvoltamente rimpiazzata da una rossa lentigginosa, sempre americana e tutt'altro che malvagia.
Per alcuni giorni la traccagnotta scomparve di scena come inghiottita dal mare ed io non me ne diedi particolare pena, anzi, nemmeno la ricordavo. Tuttavia, una sera, mentre stavamo suonando “Homburg”, un pezzo dei Procul Harum di grande atmosfera, si spalancò di colpo la porta del ponte di passeggiata. Assieme ad una ventata di aria gelida e profumata del mare mi ricomparve improvvisamente davanti Polifemo grondante indignazione da tutti i pori e, come si intuiva dal suo incedere incerto, anche qualcosa di fortemente alcolico.  Colto l'attimo che precede la burrasca cercai di cavarmela con un sorriso accattivante e un cordiale: Hi sweetness! How are you?”, ma ci voleva ben altro. Polifemo, che ormai era lanciata sul piano della violenza fisica, dopo un insulto irriferibile in slang mi affibbiò due vigorosi ceffoni sul muso. Quindi girò i tacchi soddisfatta e si diresse al bar, per l’ennesimo gin fizz.

Ci fu un attimo di sconcerto in sala, ma siccome è regola aurea tra gli uomini di spettacolo che the show must go on, continuammo a suonare imperterriti, anche se io avevo la mascella indolenzita e le guance rosse come il fuoco e Lele suonava la batteria con una mano sola perché con l’altra si teneva la pancia dal ridere. A mio onore resta il fatto che, pur traballando vistosamente (Polifemo aveva due bracciotti sodi, da Popeye ingozzato di spinaci) nel doloroso frangente non avevo emesso neppure una stecca! Scoprii in seguito che, tra le oltre 250 fanciulle disponibili a bordo in classe turistica, per sostituire Polifemo ero andato a scegliere proprio la sua compagna di cabina. Quando si dice la mala sorte...
 
Sulla spiaggia di Rodi, con Violet, che Donatella non lo deve sapere...
            
Dal punto di vista musicale eravamo ormai diventati veramente bravini e l’armonia del gruppo era buona, tranne quando c'era da mettere mano al nostro repertorio che per forza di cose doveva essere vastissimo e comprensivo di tutti i generi, giacché si suonava allo stesso pubblico per quindici sere consecutive con altrettanti pomeriggi di piano bar dove era richiesta musica soft di sottofondo che veniva eseguita dal nostro pianista, da Emanuele al basso, da Lele alla batteria con le spazzole mentre i due chitarristi erano esentati e liberi di corteggiare le gentili ospiti ai tavoli.
C'erano, infatti, alcune canzoni che il nostro fantastico pianista, forte della sua raffinata formazione classica non si degnava di eseguire neppure per scherzo. Sua madre insegnava clavicembalo al Conservatorio e lui, con la sua naturale modestia, amava dire di sé che era stato messo al pianoforte all’età di tre anni, come Mozart. Pertanto, occorreva lottare duramente per convincerlo a suonare i brani nazional-popolari per gente di bocca buona. Tra le tante canzoni ripudiate c'era anche il popolarissimoCasatschok”, il ballo della steppa del piccolo cosacco, che francamente era una robetta ignobile e buona per le balere romagnole. Dunque capivo il suo disagio. Ma siccome si navigava su e giù per il Mar Nero e andava bene per i giochi dell’animatore, ci potevi scommettere che te lo chiedevano almeno una volta a sera. Così lui, estroso come tutti i cavalli di razza, boicottava regolarmente il pezzo mettendosi a fare il fenomeno, suonando di schiena e lanciando coriandoli e stelle filanti alle signore, possibilmente nelle scollature. Grazie a ciò avevamo tutti gli attacchi della pianola fuori tempo e sembravamo due orchestre distinte. Fino a quando le nostre invocazioni affinché un castigo divino si abbattesse su quell’essere malvagio, furono esaudite. 

Una sera, infatti, durante una breve pausa un bambino accompagnato dalla mamma mi venne a chiedere se sapevamo suonare la melensa “Lettera a Pinocchio” cantata da Johnny Dorelli. Ci fu un giro di occhiate complici tra me e gli altri aspiranti vendicatori e l’accordo per punire Mozart scattò istantaneamente. Accarezzai la testolina al pargoletto e indicandogli il nostro ignaro pianista classico che stava guardando altrove gli dissi: Noi non la sappiamo suonare, tesoro, ma so che il signore al pianoforte, che è tanto bravo e gentile, la conosce benissimo. Chiedila a lui e vedrai che la suonerà molto volentieri per te e la mamma, tutte le volte che vorrai!”. La mamma portò subito il piccino a parlare con il pianista che dapprima cercò di negare, ma siccome noi continuavamo a ribadire in coro “Guardi che la sa … dice di no perché è timido, ma se lei insiste vedrà che poi gliela suonaper tutto il resto della crociera il nostro Mozart dovette suonare il “Casatshòck” e anche Lettera a Pinocchio” senza più fiatare.
 
Nel porto di Odessa, con l'Ausonia attraccata alle spalle
            
Un altro testone di granito, musicalmente parlando, era Emanuele. Come bassista era tecnicamente bravissimo, freddo e preciso come un chirurgo svizzero, ma aveva una flessibilità mentale pari ad una barra di tungsteno al nickel. Di conseguenza aborriva il concetto stesso d’improvvisazione che vedeva come un angoscioso salto nel buio, tanto che quando Mozart eseguiva dei brani jazz al piano, lui veniva esentato. Trovava, infatti, le sue sicurezze nella pianificazione più meticolosa delle attività esistenziali ed ogni variazione imprevista di programma lo turbava profondamente sprofondandolo nel più cupo sconforto. Un giorno che gli avevo preso in prestito il dentifricio rimase seduto in mutande sul letto a guardarmi inerte per cinque minuti perché la sua programmazione prevedeva che il lavaggio dei denti avvenisse prima e non dopo essersi vestito.
            
Una mattina a colazione, tra un caffè e una brioche, avevamo deciso di cambiare tonalità a Gimme some lovin’” perché Vincenzo sosteneva di strangolarsi sempre nel cantarla e del resto bastava guardare come diventava cianotico e con le vene del collo ingrossate per credergli. Però, con grave mancanza, non solo di tatto, c'eravamo dimenticati di avvertire Emanuele, che, deposta la tazza del cappuccino, si era rapidamente rinchiuso in bagno giacché la sua pianificazione giornaliera prevedeva l’evacuazione subito dopo la prima colazione. Così lui la suonò nella vecchia tonalità per tutto il tempo, incurante delle nostre occhiate disperate.
           
Eccoci all'opera, io sono quello che tiene in mano
l'unica sigaretta della sua vita per fare il figo. 

Emanuele ci regalò, peraltro, anche momenti di grande imbarazzo la sera in cui quella vera calamità dell’animatore di bordo invitò il pubblico della sala a partecipare al gioco dei mestieri, con ricchi premi e cotillon. Si trattava di un giochino per imbecilli come del resto tutti quelli proposti ogni sera e che prevedeva di indovinare dopo una serie di domande il mestiere di due passeggeri scelti a caso tra il pubblico. Cose che annoiavano già ai tempi delle scuole elementari. Una dei due sorteggiati di quella sera era una vistosissima signora bionda ossigenata, truccata pesante e carica di bigiotteria come la Madonna di Pompei. Al momento della fatale domanda dell’animatore: Secondo voi, che mestiere fa questa bella signora? dimenticandosi di avere il microfono aperto Emanuele suggerì: La zoccola e l’insinuazione rimbombò a 120 watt d’uscita per tutta la sala (anche con l’effetto eco ed il riverbero) provocando un fragoroso scoppio di risate tra il pubblico, le proteste del marito della signora e le nostre scuse più contrite. Oltre ad un cazziatone del Commissario di bordo.

La mattina seguente, commentando l’episodio mentre facevamo colazione, quello scellerato ebbe il coraggio di lamentarsi che, avendo indovinato, avrebbero in ogni caso dovuto dargli il premio.      

1 commento:

  1. Ritornano le storie delle crociere, esilarantissime come al solito!!!! ;-)
    Praticamente una miniera....Complimenti Carlo! :-)

    ( Sono sempre Lilas, del Quartier...)

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