sabato 17 marzo 2012

Dell'antica arte veneziana di navigare in laguna e di procurarsi le barche


Come avevo promesso o minacciato, dipende dai punti di vista, con questo primo post  inizierò a descrivere il complesso rapporto che lega un veneziano “di laguna” (precisazione indispensabile, visto che per noi veneziani venuti al mondo ad "un ponte e una calle" da San Marco già dall'altra parte del Ponte della libertà inizia la campagna, con buona pace dei mestrini e di mia moglie) alla sua barca. Che non è come avere l’automobile per portare i figli a scuola, andare in ufficio o a fare le spese del sabato. La barca per noi è praticamente un’amante esigente alla quale dedichi cure, attenzioni, soldi (molti) e tutto il tempo libero che riesci a strappare alle tue giornate e ai tuoi altri amori (che di solito non la prendono bene), magari anche solo per stendere delicatamente la seconda mano di “Lustrofin” sul fasciame della prora, per ripulirne la chiglia dalle incrostazioni o per lucidarne le cromature con il Sidol (che se solo mia madre avesse sospettato l'impegno che ci mettevo mi avrebbe fatto lucidare subito tutta l'argenteria di casa). L'amore cieco ed assoluto che nutrivo per il mio barchino ha significato accettare per anni che in aggiunta al fitto mensile di 40.000 lire per il rimessaggio della barca ci fosse anche il puntuale pagamento di un pizzo "primaverile" di 135.000 lire. 

Il canale di San Piero di Castello, dove all'estrema destra si vede
 ancora la saracinesca del cantiere dove tenevo la barca.
Ah... il campanile è pendente di suo, non è difettosa la foto...
Questo avveniva perché ogni volta che mi recavo al cantiere di San Piero di Castello dove la tenevo per la prima uscita in mare quel bandito chioggiotto del capo cantiere si presentava da me sostenendo che provando in vasca il mio motore Johnson prima di riconsegnarmelo si era accorto che per il gelo invernale si era rotta la piccola elica in plastica del raffreddamento ad acqua e dunque me l’aveva cambiata d’ufficio. Per convalidare la tesi mi mostrava ogni volta il pezzo sostituito, affinché vedessi quanto fosse rotto, però era sempre quello, tanto che negli anni avevo imparato perfino a riconoscerlo. A chi si chiedesse come mai non cambiassi cantiere, ricorderò che a Venezia trovarne uno che accetti barche piccole e poco remunerative è impresa epica e lasciare incustodito e semplicemente legato ad una palina un barchino con un motore fuoribordo che chiunque può sganciare o mettere in moto è come lasciare una BMW aperta e con le chiavi nel cruscotto in qualsiasi periferia urbana. Occorre essere molto ottimisti per sperare di rivederla. In cambio la tua barca, permettendoti di girovagare per miglia tra le barene e le valli da pesca della laguna, da Punta Sabbioni sino a Chioggia, ti regalerà la libertà, le emozioni e le scoperte (anche le paure di trovarsi di colpo avvolto nella nebbia senza sapere più dove stai andando o di vedere il mare diventare di colpo grigio e le onde incresparsi per il vento del temporale che sta arrivando) che nessun veicolo a quattro ruote ti potrà mai dare. Forse solo la moto, per la passione che sa suscitare e le emozioni che ti può offrire, può esserle paragonabile. 


Questa è una topetta con un 20 hp. Si distingue dalla Sanpierota
perché è leggermente più grande e ha la prora alta e arrotondata.
Notare che chi la guida si è portato la sedia da casa.

D’altronde, quanto la barca sia radicata nella nostra cultura lo dice il  fatto che in realtà ne abbiamo creati e utilizziamo anche oggi quasi un centinaio di modelli diversi, di ogni dimensione e per qualsiasi uso (e prezzo). Dalle pesanti Peate, i Burci e le Caorline panciute per gli spostamenti tra le isole della laguna fino alle Tope e alle agili Topette per trasportare le merci tra i canali, passando per tutta la numerosa stirpe che deriva dalle gondole (Sandoli, Sandolini, Pupparini, Vipere, Mascarette…) per finire con le tipiche imbarcazioni a chiglia piatta dedicate alla pesca e alla caccia in laguna come le bellissime Sampierote dei pescatori, che potevi anche usare con la vela al terzo. Poi ci sono anche gli Sciopòni dalla carena larga (perché si tirava con lo schioppo alle anatre e non doveva ribaltarsi per il rinculo) i Cofani e, per l’appunto, i Caccia e pesca. Insomma, la dottrina vigente nella Serenissima Repubblica recita ancora oggi: a ciascuno la sua barca secondo i suoi bisogni (e il suo portafoglio). 

Topette e barchini corrono veloci lungo le Fondamente Nuove

La barca dei miei sogni l’ho incontrata all’inizio dell’estate all’Hotel Des Bains passeggiando solitario lungo la battigia, proprio come Gustav Von Aschenbach che incontra Tadzio e non riesce più a toglierselo di mente. Era lì sulla sabbia, tirata in secca dai bagnini e abbandonata a chiglia in su. E non si vedevano segni che ne facessero intuire un utilizzo da parte di un qualche ignoto padrone. Anzi, doveva essere lì da diverso tempo, forse anche dall’estate prima, tanto che ormai aveva assunto l’aria inconfondibile del relitto trascinato dalle onde sulla battigia a seguito di un qualche tragico naufragio del tipo:  "...e la barca tornò sola!"
Il sole estivo e la salsedine ne avevano già stinto i colori e la plastica dello scafo da bianca e rossa che doveva essere in origine, appariva ormai di un tenue colore crema-albicocca. Anche le cromature del bordo apparivano intaccate dalla ruggine e saltate in qualche punto.

La scialuppa, che di questo si trattava visto che di lunghezza era poco oltre i tre metri e mezzo, veniva unicamente usata dai bambini per fare tuffi sulla sabbia o giocare alla guerra, oppure dai più grandicelli come porta da calcio. Questi usi impropri le avevano lasciato anche un segno indelebile, rappresentato da una fenditura lunga una spanna che correva nella parte centrale della chiglia. 
Io mi recavo ad osservarla quasi tutti i giorni con crescente interesse, in primo luogo perché giaceva non molto lontano dalla nostra capanna e in secondo luogo perché in quell'estate mi trovavo in uno dei periodici momenti tipo: “non t’impegni seriamente nel nostro rapporto, dunque è meglio che ci lasciamo” che hanno segnato la mia quadriennale e travagliata storia d’amore con Donatella negli anni dell’università. Ovviamente, quando una storia d’amore s’interrompe ci sono anche dei danni collaterali da considerare e, appunto, chiudendolo con lei il rapporto si era chiuso anche quello con la barca a vela di suo padre, ma questo per fortuna era solo in teoria.

E' giunta l'ora di rientrare in cantiere e il faro di Murano ci farà da guida
anche perché le Fondamente Nuove le hai davanti e come fai a non vederle?

Infatti, disponendo, tra moglie e figlie, di una ciurma tutta al femminile e decisamente da salotto, ma essendo  molto pragmatico come tutti i medici, quel brav’uomo anche dopo la rottura con sua figlia continuava ad invitarmi per qualche uscita in mare (di nascosto da Donatella) perché non gli era sembrato vero di avere finalmente un marinaio di bordo capace di eseguire le manovre in un tempo accettabile e senza dover ricorrere agli urlacci e di certo non aveva intenzione di perderselo per le mattane della figlia. 

Tanto più che io sapevo anche cucinare il pesce ed eccellenti pastasciutte, mentre in tutto il settore femminile della sua famiglia nessuna andava oltre al petto di pollo ai ferri e comunque, a parte Donatella che sapeva tenere decentemente il timone, anche se ad ogni suo bordo repentino e senza preavviso il rischio di prendersi il boma in testa era elevato, l’atteggiamento medio dell’equipaggio era : “Voi fate pure le vostre manovre da uomini di mare che io mi metto in costume a prendere il sole a prora”. Dunque, la mia presenza a bordo era strategica. Però, ora la faccenda funzionava solo per qualche uscita sino alla boa del miglio fuori da San Nicolò tanto per tirar su lo spinnaker e fare qualche bordo di quelli tosti con l’Alpa 9,50 inclinata ai limiti e il mare quasi nel pozzetto di poppa. Perché la barca del padre di Donatella, con molto senso veneziano dell'understatement era stata chiamata "Co' rivo, rivo..." (quando arrivo, arrivo...) però quando c'era del buon vento da stringere filava che era una meraviglia.


Un' Alpa 9,50 come quella del padre di Donatella (la foto non è mia)

Invece, mi erano purtroppo precluse le favolose traversate notturne verso l’Istria vissute in precedenza. Quelle che dopo una notte passata al timone a fumare e chiacchierare sul senso della vita sorseggiando whisky bevuto a collo per scacciare l’umidità, rivolgendo lo sguardo alle sciabolate di luce dei fari sulla costa e cercando di capire se le luci che punteggiavano l’orizzonte erano ancora quelle di Lignano o se eravamo già al largo di Grado e Monfalcone (le luci di Trieste che andavano su fino alla collina erano inconfondibili) cominciavi a buttarti acqua di mare gelida in faccia per tenerti sveglio e non perdere lo spettacolo dell’alba perché almeno una volta nella vita occorre vedere il disco del sole sorgere lentamente in mezzo al mare dapprima come una piccolo punto rosso che poi in un crescendo tra bagliori rosa e arancioni, dissolverà gradualmente le tenebre. Ah.. naturalmente occorre guardare verso est, non verso ovest come avevo fatto io la prima volta, iniziando così a intaccare la mia reputazione marinaresca.


Vedere la costa dell'Istria alle prime luci dell'alba dopo una notte in mare
è un'emozione indescrivibile.

Alla mattina si gettava l’ancora nella baia di Rovigno o di Novigrad per farsi passare il sonno con un bel tuffo nell'acqua gelida, poi, dopo aver fatto scorta di acqua e di provviste e ripreso il largo in direzione di Mali Losinj (Lussinpiccolo) e le Incoronate si incontrava all'imbrunire qualche isolotto accogliente come Dugi Otok (l'isola lunga), Susak (Sansego) e Ilovik (l'asinello) dove potevi attraccare a qualche pontile e scendere a terra per accendere il barbecue o un falò e cucinare alla brace il pesce che ti vendevano a cassette i pescatori sottobordo e bere malvasia e quella Travarica d’erbe distillata in casa dai contadini che andava giù per la strozza come piombo fuso e dopo un bicchierino già ti sentivi brillo, ma avresti digerito anche il calcestruzzo. Il tutto facendo amicizia con l’equipaggio di qualche altra barca all'ormeggio (di solito tedeschi, ma tanto tra la gente di mare ci si capisce sempre) con il quale poi si finiva a suonare la chitarra (la mia) e a cantare le gesta della “mula de Parenzo” che aveva messo su bottega e di tutto la vendeva "fora che el baccalà", finendo a far bisboccia sino a notte fonda. Non lo potevo più fare perché in tal caso avrei trovato a bordo anche il resto della ciurma e per me e Donatella sarebbe stata dura ignorarsi condividendo gli spazi angusti di una barca a vela di soli nove metri. Tanto più che a me e a lei di norma era destinata per dormire la tughetta a prora dove si tenevano i sacchi delle vele, che già era dura dividerla da innamorati, figuriamoci dopo.


Lo squero del Rio dei mendicanti, uno degli ultimi dove si costruiscono le barche

Per tutti questi motivi, avevo rispolverato il sogno mai sopito di possedere una barchetta tutta mia per esplorare la laguna e le sue valli e magari anche per “rimorchiare” (così quella impara che non c’è mica solo lei al mondo…) e quella barca abbandonata sulla sabbia era proprio lì a dirmi che con un po’ di buona fortuna avrei potuto compiere l’affare della vita, acquistare la mia prima imbarcazione e realizzare le mie segrete ambizioni di navigatore. Si trattava solo di scoprire chi ne fosse il proprietario per vedere quanto avrebbe chiesto per liberarlo da quel rottame, che magari me lo avrebbe regalato pure. Purtroppo, pur avendo studiato letteratura inglese e conoscendo "La ballata del vecchio marinaio" di Coleridge ignoravo che per ottenere una maledizione sulle barche non è necessario uccidere un albatros , è sufficiente anche un granchio porro, il cui spirito evidentemente aleggiava su quel povero scafo abbandonato sulla spiaggia del Des Bains, ma cosa accadde, ve lo racconto la prossima volt...
(continua...)

14 commenti:

  1. Carlo ho tolto il tuo commento affinchè nessuno copiasse quello che hai fatto tu (che peraltro non ho capito), solo per quello.
    Per quanto riguarda la pwd avevo scritto in un post precedente che non avevo la tua mail per mandartela, ma vedo che hai risolto ugualmente ;-)
    In ogni caso mi sto strssando con questi post protetti, quindi può essere che la pianti lì.

    Ma questo non è un post, è un "racconto breve"!:-) Molto interessante comunque la realtà che descrivi sconosciuta ai più, tutte le particolarità sulle "barchette", i nomi strani, gli itinerari...un vero tuffo in una piccola realtà che altrimenti non avrei mai conosciuto :-)

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    1. @ellevibi: hai fatto bene a togliere il mio commento. Non ti preoccupare. La mia mail, in ogni caso, la dovresti vedere scritta sul bordo blu in alto sopra l'intestazione. Per quanto riguarda il post invece, mi sono reso conto da tempo che anche per coloro che pure hanno frequentazioni turistiche ripetute con Venezia è difficile capire come siano diverse dalle loro la vita e le abitudini di chi abita una città che è davvero unica al mondo. Nella bellezza e nei disagi. Così, dopo aver incontrato l'ennesima coppia di turisti che mi ha chiesto se sapevo dire loro in quale giorno e a che ora fosse in programma l'acqua alta a San Marco, ho pensato che fosse interessante iniziare a svelare questo nostro universo alieno. Ciao

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  2. Per una montanara come me quello che descrivi è paragonabile alle avventure di Salgari.
    L'alba sul mare... a tredici anni, sostenitrice della tua teoria che almeno una volta si deve vedere il sole sorgere dal mare, in Sardegna, mi misi la sveglia e con trepidazione per la grande esperienza, uscii sola di notte per aspettare l'alba sulla spiaggia ...immaginati la delusione quando lo vidi sorgere alle mie spalle! Però che tramonto quella sera! ;-)Buona settimana

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    1. @Migola. Divertente...lo sai che è capitato anche a me? Con l'aggravante di essere proprio al timone e di avere pure una bussola a disposizione per farmi ricordare che il sole sorge ad Est e non ad Ovest dove stavo guardando io. Per me, invece, le avventure Salgariane della giovinezza erano proprio le ferrate del Catinaccio. Quelle del Santner e dell'Antermoia, con i loro passaggi stretti sulle cengie esposte, i camini e le scalette mozzafiato, le ricordo ancora oggi come le imprese memorabili della mia vita montanara. Ciao

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  3. io rimango sempre affascinata tutte le volte che visito Venezia dalle barche sulla laguna, leggere il tuo post mi ha fatto comprendere cose che per ora ignoravo.

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    1. Lieto di averti affascinata. E pensa che le barche che puoi vedere nei canali e in laguna sono oltre un centinaio. Ne parleremo...
      Ciao

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  4. ops ho cliccato male!

    Scrivevo quanto mi piacciano le storie di vita vissuta, particolarmente quelle che rispecchiano l'adolescenza e la gioventù. Nomi originali e bellissimi quelli con cui avete battezzato le imbarcazioni. Credo che possedere una barca per i veneziani rappresenti un tutt'uno. Mi piacciono le barche a vela con lo scafo in legno ... solo quelle. Il vetroresina non mi attrae, non sono grande estimatrice, non so nuotare. Il Babbo negli anni '50 aveva acquistato in società un dinky (non so se si scrive in questo modo) le avevano dato il nome Manila. Al Giglio il mio Amore lo avevo riversato su un modestissimo gozzo attraccato al pontile della Toremar, di fatto era il "pilotino" per il controllo dello scafo del traghetto.Non esiste più come il porto di levante così come lo conoscevamo.Blogspot non permette il copiaincolla nei commenti altrimenti ti invierei una foto diventata storica.

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    1. Concordo pienamente con te sulla bellezza e il fascino delle barche a vela con lo scafo in legno. Allo stesso modo i gozzi sono delle barche stupende, costruite con grande sapienza marinara e credo che girare attorno alle coste del Giglio con una barca del genere sia un'esperienza unica. Blogspot non consente i copia e incolla diretti delle foto, ma ci sono vari modi per aggirare l'ostacolo. Per esempio ti puoi fare un account gratuito su Imageshack.us, caricarci la foto che vuoi pubblicare, copiarne il link che le viene assegnato una volta terminato l'upload e postarla.
      Ciao

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  5. Ciao Carlo,

    scusa se non mi sono più fatto sentire ma in questi mesi travagliati sono successe un po' di cose.. vabbè, comunque ora mi sa che riprenderò a leggere il tuo blog. Poi adesso che hai iniziato con un nuovo racconto vai sciolto che non mi perderò neanche un post.

    ciao doge!!!
    cosimo.

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    1. Caro Cosimo/Alessandro, ben ritrovato. Vado sciolto con i racconti, ma aspetto però di conoscere dalla tua viva voce gli accadimenti che ti hanno reso la vita travagliata. Ho giusto un paio di buone bottiglie di birra che ti aspettano...
      Ciao

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  6. E' bello saperne di più su tutte le barchette che sfrecciano per i canali di Venezia, potrò sfoggiare una conoscenza invidiabile d'ora in poi, grazie Carlo per il tuo interessante racconto!

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    1. Cara Maude, vivere a Venezia comporta tantissimi aspetti interessanti e mi diverte molto raccontare la mia città a chi non la conosce. Se ti piace, farò ancora altri post su questo tema.
      Ciao

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  7. Però, ne hai fatte di cose belle! e O comunque sai rendere bello tutto quello che racconti! redcats

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    1. cara Maria Grazia sono lieto che i miei ricordi che riporto qui sul blog ti piacciano. Come direbbe Neruda...confesso che ho vissuto.
      Ciao

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