domenica 5 febbraio 2012

Varda che nèvega (forse...)

In questi giorni ho letto nei blog delle mie amiche dei pezzi molto belli e pieni di poesia sulla neve e quindi provo a raccontare qualcosa a mia volta, anche se le immagini dolomitiche delle piazze e delle strade di Roma, confrontate ai pochi centimetri che sono caduti qui a fine gennaio mi rendono difficile farlo. Meno male che le foto e i racconti della nevicata che ha nascosto in poche ore la nostra auto parcheggiata a Casorate Primo (Pavia), mi hanno tolto quella fastidiosa sensazione che l’Italia si fosse rovesciata come la Costa Concordia. Tra l’altro, il nostro giovane ambasciatore veneto nel pavese mi ha appena comunicato che questa mattina stava nevicando di nuovo e il mio pensiero è corso subito alla bella Katerina che domani lo raggiungerà da Brno dopo un viaggio di 12 ore tra treno, autobus, metropolitane e lande innevate (cosa non si fa a vent’anni per amore…).

Carlo "Amundsen" con il suo fedele cane da slitta Whisky "Armaduk"
in attesa di dirigersi verso il pack polare della Gazzera .
Notare la presa al collo del cane da slitta per farlo stare finalmente fermo.

La giovane feldmarescialla morava, malgrado la Czech Republic non sia ai Caraibi è piuttosto freddolosa e dunque spero che mio figlio le spieghi con precisione teutonica e non con la sua deplorevole approssimazione italiana dove le ha nascosto le chiavi di casa perché possa entrare a scaldarsi mentre lui è al lavoro e non passare un intero pomeriggio seduta al bar con le valigie. Ma, soprattutto, spero che si ricordi di mettere le chiavi nel nascondiglio al momento di uscire di casa, perché il sangue del mio sangue quando è assonnato è una mina vagante, proprio come suo padre che ormai non conta più le volte che si è chiuso il cancello alle spalle senza prendere le chiavi. Fortunatamente, so che Gianmarco (che oggi ha rinunciato alla partita e sta pulendo la casa a specchio per prepararla all’arrivo del severissimo ispettore generale) le sta preparando per la cena un sontuoso gulash con le patate e tanta paprika gulàshova (sua madre ce ne ha regalata una confezione grande come un proiettile d’artiglieria e dobbiamo smaltirla) e spero che questo, servito bello fumante assieme a qualche bicchiere di Bonarda dell’Oltrepo’ (acquistata su consiglio paterno, che lui manco sapeva esistesse) possa corroborarla a dovere. Di mio ci aggiungerei una polenta gialla non troppo soda, che possa sciogliere nel suo grembo lo straordinario gorgonzola di quelle parti, ma sono raffinatezze che i figli non conoscono ancora.

Piazza  San Marco sotto la neve, vista dal campanile (1970)
  
Tornando alla neve, devo dire che qui a Venezia da diversi anni è un evento abbastanza raro dato che, se proprio deve, nevicherà una o due volte, non di più.  Piuttosto ghiaccia un bel po’ di laguna come in queste ore, che di notte, quando è sereno come ieri,  si arriva molto sotto allo zero, ma neve non se ne vede. Però mi ricordo benissimo quanta ne veniva giù e che freddi erano gli inverni degli anni ’50, quando, non potendo seguire mio padre da una base navale all'altra per via della scuola, abitavo nella grande casa dei nonni, a San Lio. 

Allora, per i miei occhi di bambino la neve era una specie di magia ed era attesa come tale. L’avvertivo fin dal giorno prima, quando il vento di bora assieme ai nuvoloni grigi me ne portava il profumo, perché la neve ha un suo profumo sottile, che se ci fai attenzione lo distingui tra mille. Veniva giù silenziosa quasi sempre di notte, quando i fiocchi “attaccavano” bene sui masegni in pietra d’Istria delle calli e dei campielli perché nessuno li calpestava, tranne forse qualche gatto randagio in cerca di riparo nei sotoporteghi o di qualche prelibatezza nei sacchi della spazzatura. La mattina, appena aperti gli occhi, sentivo la nonna che brontolava in cucina che era tutta colpa della bomba atomica (qualsiasi evento atmosferico in quegli anni era attribuito dalla vox populi agli effetti degli esperimenti nucleari) e la mamma che discuteva con la zia se mandarmi a scuola o meno. Così, appena spalancate le imposte della mia camera sul canale mi appariva lo spettacolo dei tetti bianchissimi a perdita d’occhio, delle cupole di San Zanipolo che sembravano enormi meringhe coperte di panna montata, delle barche ricolme di neve e del ponte delle paste con le ringhiere tutte ghiacciate e le impronte dei pochi ardimentosi che rischiavano lo scivolone sui gradini.

La piazza vista dal lato Procuratie nuove (1970)

Se il gran consiglio di famiglia decideva per la scuola, allora, dopo essere stato preventivamente corroborato con due rossi d’uovo sbattuti con tanto zucchero, venivo imbacuccato da strati di sciarpe fino agli occhi. Inoltre, nonostante il cappottone spigato con la martingala, portavo il Gazzettino infilato sotto la canottiera per ulteriore difesa dal freddo. Quando mi chinavo il giornale scrocchiava con mio grande imbarazzo e, se sudavo, mi restava impressa sul torace gran parte della pagina. In quel periodo si usavano dei pessimi inchiostri da stampa. Comunque, l’andata a scuola significava ogni volta il ritorno a casa con la neve fin dentro al collo, la sciarpa e il grembiule fradici e una nota sul diario, per tutte le pallate di neve che ci scambiavamo nel cortile dell’Armando Diaz. Naturalmente, significava anche le urla della mamma e della zia e il classico “Questa volta se ti ammali vai in ospedale!” che ha accompagnato tutta la mia infanzia.

Faccio presente ai lettori più giovani che all’epoca indossavo un cappottone da deportato in Siberia non in qualità di precursore del look fantozziano, ma perché nell’austero clima di povertà del dopoguerra i cappotti e i vestiti passavano di padre in figlio, anche perché in famiglia qualche nonna o mamma brava con la macchina da cucire la si trovava sempre. La mia nonna materna era, infatti, perennemente in azione con la sua Singer a pedale e con il gessetto bianco per segnare le stoffe sopra le carte modello quadrettate di Burda. Credo che a forza di cucire gonne e vestiti per la mia mamma e la zia, avesse pedalato almeno quanto Coppi e Bartali messi insieme.
Il mio primo cappotto non riciclato (1959)
Da un vecchio cappotto con la martingala di mio padre n’era fuoriuscito il cappottino con la martingalina che accompagnò la mia infanzia accoppiandosi nei giorni di gran freddo con i resti di un collo di lince appartenuto a mia madre e che, in seguito, terminò, decisamente spelacchiato, la sua ventennale ed onorata carriera sul cappotto di mio fratello più piccolo. Dopo gli undici anni ebbi finalmente il primo cappotto tutto mio: una specie di loden con il collo di pelo sintetico che mi fece compagnia fino quasi al ginnasio. Quelli erano comunque anni in cui non si buttava via nulla e si riciclava tutto, dalle croste del formaggio per il minestrone,  alle branchie del pesce (le ganassette fritte, buonissime) fino alla cenere che serviva per il bucato e anche l'arte del rammendo dava il suo contributo all'economia domestica tanto che, per esempio, colli e polsini delle camicie venivano pazientemente rivoltati per raddoppiarne la durata. Anche per abbandonare un paio di scarpe occorreva che il calzolaio, all’ennesima richiesta di risuolatura, confessasse l'impotenza della scienza calzaturiera a procedere oltre ed emanasse la luttuosa sentenza scuotendo sconsolato il capo (il calzolaio, in genere, non parlava mai perché aveva sempre la bocca piena di chiodini.). Infatti, io devo aver portato lo stesso paio di scarponcini con la suola Vibram per alcuni anni e almeno fino a quando il piede non ne volle più sapere di entrare, nemmeno con il calzascarpe e il borotalco.

Se invece si decideva per il “resti a casa, ma non illuderti che tanto questo pomeriggio i compiti li fai lo stesso” allora potevo stare a leggere qualche fumetto seduto vicino alla grande stufa a legna e carbone in ghisa e maiolica che troneggiava al centro della cucina e che riscaldava tutta la casa, fornendo anche la brace per il ferro da stiro e dove, aprendo un apposito sportellino, si potevano anche abbrustolire le patate americane e il pane raffermo. Noi la legna e il carbone li tenevamo sulla grande terrazza coperta della casa, con una vista spettacolosa su mezza Venezia e ricordo ancora la nonna (quella materna, che veniva dalle campagne del Monferrato, l’altra era una principessa altezzosa che al solo pensiero sarebbe inorridita) che in pieno inverno tagliava in due i ciocchi di legna con l’accetta (a me era proibito anche di avvicinarmi al ceppo e al massimo potevo aiutare a portare il secchio del carbone per rifornire la stufa).

Il fotografo di Piazza San Marco e la neve (1970)

Tra i ricordi di quegli inverni freddissimi, mi viene in mente che a metà degli anni ’50  l’appalto per spalare la neve era stato dato dal Comune ad un certo Belanda, un tale che aveva un'impresa di pulizie e che era un trafficone molto chiacchierato. Questi sperava di poter lucrare sulla quota fissa riconosciutagli comunque dal Comune intascandosela per mancanza di precipitazioni. Invece quel gennaio nevicò per giorni e giorni e ricordo benissimo mentre andavo a scuola attraversando campo Santa Maria Formosa le squadre di spalatori che cantavano in coro sotto la neve “Belanda, Belanda, questa è Dio che te la manda… te la manda grossa e fina, perché vuol la tua rovina”.

Anni più tardi, ai tempi del liceo, la neve era vista invece con particolare interesse perché c’era sempre la possibilità che qualche professore scivolasse sui gradini con il bordo in marmo del ponte di Campo dei Gesuiti, che portava al Marco Foscarini e che era sempre ghiacciato per via del vento della laguna che giungeva dalle Fondamente Nuove. In seconda liceo, la terribile Gigia, la professoressa di matematica, forse spinta dalle preghiere di decine di allievi, scivolò proprio su quel “maledetto ultimo ponte” e rimase a casa per due settimane facendo saltare diversi compiti. Poi la Gigia una volta risanata recuperò con gli interessi e le sue decimazioni tramite interrogazione o compitino a sorpresa fecero stragi, ma fu comunque un bel ricordo.

Mi fermo qui, perché ora mi pare di sentire il profumo della neve… che sia la volta buona?

20 commenti:

  1. ma quanto mi è piaciuto questo racconto!
    quasi quasi mi sento in colpa perché non ho scritto nulla sulla neve, e penso che non lo scriverò. ché mi verrebbe da lamentarmi, visto che preferisco, senza dubbio alcuno, il caldo.

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  2. Incollo qui il commento lasciato in fb.

    Vera grande bella "noblesse", caro Carlo. Venezia raggiunge l'inesprimibile bellezza di sempre con le tue magnifiche variazioni in bianco neve. Musica le tue immagini, musica e incanto il tuo racconto. Quel "mentre andavo a scuola attraversando campo Santa Maria Formosa" mi ha fatto provare un po ' d'invidia, benigna s'intende, per le bellezze che ti godevi andando a scuola. Ma in campo Santa Maria Formosa ho giocato pure iio, anche in questi ultimi anni, quando ancora avevo il coraggio di liberare cZen, pronto a intrupparsi con i ragazzi che giocavano a calcio. Ci hai mai portato Whisky a correre libero, rischiando una multa, come ben sappiamo? Sto andando fuori tema. Lunghi applausi per te.

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  3. Delizioso questo racconto Carlo, ha proprio il sapore dell'uovo sbattuto con lo zucchero, dolce,bianco e morbido..
    Le foto poi sono splendide, e complimenti alla vostra tenuta da Antartide, siete entrambi bellissimi!

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  4. @Isi: Ti ringrazio molto. Mi piace raccontare le mie vicende giovanili anche perché è un modo per entrare in empatia e scoprire che tanti amici ne hanno vissute di simili e sentirsi accomunati dagli stessi valori e stili di vita. Da noi in Veneto c'è un detto che dice: "Se vuoi patire le pene dell'inferno, vai a Trento d'estate e a Feltre d'inverno". Purtroppo Venezia assomma entrambe queste caratteristiche perché d'estate, con lo scirocco umido, l'odore forte dei canali, le zanzare e il caldo soffocante che ristagna tra le calli anche di notte, ti sembra di dormire in un girone infernale dove se riesci a prendere sonno, poi ti svegli con il cuscino inzuppato. D'inverno,anche se è il momento migliore per visitare la città perché puoi camminarla da solo con i tuoi pensieri e assaporandone la magia dei silenzi, hai l'umidità gelida che ti penetra le ossa fin dentro casa e il vento di bora che ti fa scivolare sui ponti ghiacciati e che porta l'acqua alta. Rimangono per una visita la primavera e l'autunno, dove non farà tanto caldo, ma la città sa essere splendida comunque. Ciao

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  5. @harmonia: grazie carissima Dora. Sapevo che una veneziana come te avrebbe apprezzato questi miei ricordi perché probabilmente sono comuni. Io attraversavo quotidianamente Campo Santa Maria Formosa (uno dei più grandi e belli della città) per andare a scuola ma soprattutto per andare a trovare una mia ragazza dell'epoca che stava in Ruga Giuffa. A volte perfino per andare a studiare (rimorchiare) alla biblioteca Querini Stampalia, che sicuramente conosci.Come immagini ho anche giocato molto a calcio nella zona meno di passeggio del campo, con le porte disegnate sul muro della sezione del PCI e sul palazzo della Roberta di Camerino che gli stava di fronte. Il campo era ideale perché c'era pure la fontanella per dissetarsi e in caso di arrivo dei vigili c'era tutto lo spazio per vederli da lontano e squagliarsela per le calli salvando il prezioso pallone. Ho portato talvolta a correre libero in Santa Maria Formosa l'altro Whisky, il lupo, ma mal me ne incolse perché una mattina, cercando quell'assatanato di brutalizzare un barboncino infiocchettato, mi fece conoscere la sua padroncina che poi, per vendetta, mi ha pure sposato. Ma è una triste storia che prima o poi racconterò. Tu comunque, che abitavi in Rio Marin, con la chiesa dei Frari e la scola di San Giovanni Evangelista a portata di mano, non te la passavi mica male...
    Ciao, ci vediamo domenica a teatro (non ti puoi perdere la mia interpretazione del perfido padre di Donatella).

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  6. @Maude Chardin: Vero che Whisky ed io siamo bellissimi nella foto che ci ha fatto Morena? Soprattutto mi piace molto l'espressione sgomenta del bretone preso per il collo, che ha l'aria di dire: "Ma che fa questo idiota? Mi strozza?"
    Ciao

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  7. "varda che reneveghe..."... trovo che i dialetti han dentro una dolcezza ed una rusticità che la lingua nazionale non ha affatto.
    avrei qualche decina di commenti al tuo kmetrico post, che è un racconto fatto e finito!.. ma non vorrei invadere. mi limito al titolo ...

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  8. @nellabrezza: hai perfettamente ragione. In Italia, dal Nord al Sud ci sono dialetti di una musicalità e di una capacità espressiva che la lingua nazionale neppure se li sogna. Il dialetto veneziano (non quello veneto, che è abbastanza diverso e in alcune provincie è piuttosto grezzo e di campagna)che è la raffinata lingua di Carlo Goldoni e Giacinto Gallina è uno di questi. Ti faccio un esempio: L'entrata della mia scuola media era in "Rio terà del barba frutariòl" che letta così sembra una fiabesca filastrocca per bambini. La traduzione italiana sarebbe "Canale interrato dello zio fruttivendolo" . Non c'è partita...
    Ah! Guarda che se ti vuoi dilungare nel commento non invadi affatto, anzi...
    Ciao

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  9. ah l'ho pure reinventato, nel titolo, reiterando la nevicata...

    beh...eri un bambino piuttosto serio eh?!..

    troppo simpatica la toponomastica a venezia !
    io la trovo sempre molto suggestiva, mi fa quasi sognare, quando mi capita di andare a zonzo, senza sapere esattamente dove andare, ma lasciandomi portare dall'istinto "verso" dove dovrei arrivare, là nella tua città!

    ma anch'io sono sicura che un 25/30 anni fa facesse molto più freddo di questi inverni - escluso questo...

    non ho mai fatto caso se la neve abbia un profumo, penso di sì però...e quelle meringozze candide mi stanno facendo sognare..eh sì il silenzio di quando nevica è troppo bello. io sono uscita di notte per assaporarlo in pieno, non potevo resistere a stare in casa...

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    1. @nellabrezza: Non ti lasciare fuorviare dalle apparenze. Anche ora passo per una persona seria, ma chiedi a mia moglie che ne pensa...
      I ninzioleti (piccoli lenzuoli, sono i riquadri bianchi dove vengono scritti i nomi delle calli e dei campi veneziani) spesso sono bellissimi e ciascuno nasconde una storia legata ad un mestiere, ad una vicenda più o meno drammatica o a qualche aspetto curioso della vita cittadina, dal "ponte delle tette" chiamato così per le cortigiane che esponevano la mercanzia alla finestre, al "casin dei nobili" che era una sala da gioco d'azzardo per la nobiltà, dalla "Frezzeria" dove venivano fuse le frecce, alla "calle Fiubera" (le fibbie delle scarpe) e fino al macabro "campiello dei morti" dietro a santo Stefano, che è rialzato perché sotto ci sono le ossa di 20.000 dei veneziani morti per la peste del 1574 che uccise oltre la metà degli abitanti. Insomma, oltre che vederla passeggiando tra le calli senza meta come fai tu e come amo fare io(che è la cosa migliore, tanto non ci ci perde mai..) Venezia è bella anche da leggere.
      P.s.: hai presente l'odore sottile delle abetaie in montagna nei giorni ventosi o dopo la pioggia? Il profumo della neve è molto simile.
      Ciao

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  10. In effetti la faccia del bretone è piuttosto espressiva ;-D

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    1. @Maude Chardin: hai assolutamente ragione, e dovresti vederla quando qualcuno di noi coniuga in qualsiasi modo il verbo uscire o prepara la tavola.

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  11. Il tuo modo di raccontare e ricordare si legge sempre tutto d'un fiato, ci si diverte e contemporaneamente si scorre con la mente ai propri ricordi quasi avessimo perso quello sguardo attento ai paricolari di un certo modo di sentire provato da bambini o da ragazzi. Con la lettura dei tuoi racconti si viene indotti a fermarci un attimo, a rilassarci e perderci un pochino nella contemplazione accorgendoci di non avere mai prestato troppa attenzione alla nostra terra, a non aver mai dato uno sguardo attento al nostro passato. Così la neve ci ancora dentro noi stessi, così i tuoi racconti ci portano lontano e le tue foto ci fanno un po' sognare, specie quegli occhioni del bimbo che eri.

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    1. @alessandra: grazie Ale, sei sempre molto gentile nell'apprezzare le cose che scrivo, ma lasciami dire che anche tu, quando hai voglia (e dovresti farlo di più) di raccontare la vita semplice di una volta della gente delle valli dell'alto vicentino e le storie più antiche della tua famiglia ci regali vicende e dipingi scenari che portano la mente lontana. Dovresti davvero provare a raccogliere i tuoi ricordi in un libro. In quanto ai miei occhioni da bambino... beh devi sapere che poi da ragazzo ci ho marciato parecchio (forse non erano così ingenui...). Ciao

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  12. Sono approdata qui...non so nemmeno come ma il blog è veramente bello, spiritoso, intrigante...prometto di leggere piano piano i vari post per questo mi sono permessa di iscrivermi come lettrice fedele.Grazie.
    Mìgola

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    1. @Migola: grazie a te per i complimenti e... ma che bello avere una new entry tra i miei amici! Benvenuta nel gruppo (benvenuta a bordo, dopo la Costa Concordia non si usa più).
      Ciao, a presto.
      Carlo

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  13. Non posso che unirmi al coro entusiasta per la tua narrazione!
    E condividere con nostalgia il ricordo della forzata sobrietà di quegli anni: a te il cappottto di papà, a me i vestiti di mia sorella. Ce ne sono voluti di anni per avere il primo vestito mio!
    Però c'era anche la smania di crescere per poterne indossare qualcuno particolarmente desiderabile, come l'abitino di picchè bianco con i fiorellini ricamati,"da cerimonia"...redcats

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    1. @redcats; tutto vero... ma però a voi bambine erano risparmiati l'orrore della cravattina finta con l'elastico e i lividi bluastri sul gargarozzo per tutte le volte che a scuola i compagni di classe te la tiravano. Inoltre, niente pantaloni all'inglese con i calzettoni lunghi della Standa fino in terza media e nemmeno le bretelle del nonno per tenere su le braghe. Fortunelle...
      P.s.: con l'abitino a fiorellini dovevi essere graziosissima.
      Ciao

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  14. Che bei ricordi! davvero d'altri tempi, anche se sono passati "solo" poco più di 50 anni...
    I rossi d'uovo sbattuti (che oggigiorno farebbero inorridire i nutrizionisti!), il giornale a rinforzo della canottiera (altro che le maglie "tecniche" della Dechatlon!), e la stufa...che meraviglia quella stufa in maiolica, sembra quasi di percepirne l'imponenza e il calore :-)

    E il tuo primo cappottino era di un bellissimo colore!
    La tua mamma e la tua zia che discutono sul da farsi sembra quasi di sentirle... :-)
    E' davvero un racconto che evoca immagini e suoni.

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    1. @ellevibi: Già...è bello scoprire quante persone condividono i tuoi stessi ricordi o per averli vissuti direttamente o tramite i racconti dei loro genitori. Ci si sente parte di una grande comunità di amici accomunati dagli stessi valori e stili di vita e questo mi piace moltissimo.
      Ciao
      P.s.: i rossi d'uovo sbattuti con lo zucchero me li preparo ancora oggi, ma poi ci unisco il caffè appena fatto, che è la fine del mondo...

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