venerdì 3 maggio 2019

Dei ragazzi degli anni '60 che sognavano di andare in India, delle ragazze che volevano l'Inghilterra e alla fine si andava in una pensioncina a Firenze.


Chi ha bazzicato da ventenne la fine degli anni sessanta probabilmente ricorderà che frammisti al magma ribollente delle lotte politiche, dei cortei per il Vietnam e delle occupazioni, dei nuovi stili di vita, della questione femminile che avanzava, di Woodstock, del profumo del patchouli e delle prime canne, assieme ai pantaloni a zampa di elefante per lui e alle gonne da zingara lunghe e a fiori per lei c'erano due punti fermi: noi ragazzi volevamo andare in India e loro, le nostre ragazze, volevano andare in Inghilterra. Lo so perché in quegli anni grondanti voglia di cambiamento, di viaggi e di avventure, con alcuni amici, dei libri, carte geografiche alla mano e lo spirito di un novello Marco Polo ne avevo pianificato uno in automobile che avrebbe dovuto durare oltre un mese, con attraversamento di Jugoslavia, Romania, Bulgaria, Turchia, Iran e Afghanistan con passaggio del Khyber pass, attraversamento del Pakistan e arrivo in India (forse). L'idea era nata una sera in campo Santo Stefano, tra il solito giro di perditempo seduti dopo la mezzanotte ai tavolini del bar Paolin, ovviamente chiuso. Di solito, fumando Gauloises come dei belli e dannati alla Alain Delon, si parlava/bisticciava fino a notte fonda di politica, donne, amori, cinema e di tutto lo scibile umano, ma quella sera qualcuno raccontò di gente del Marco Polo che in India c'era andata e di quanto fosse stato epico il loro viaggio via terra e questo bastò per scatenare lo spirito competitivo. In fondo, se gliel’aveva fatta gente del Marco Polo, noi ex del Liceo Foscarini ci saremmo andati in carrozza. In breve tempo, raccogliendo amici dell'università e di varia provenienza, riuscii a trovare un buon numero di sostenitori del progetto. 

Alla prima riunione, attorno ad un tavolaccio dell'osteria da Codroma, ci ritrovammo in nove, tutti entusiasti e con tre vetture disponibili (un Maggiolone, che doveva fungere da ammiraglia, una Fiat 127 e una Simca 1000). Dopo il giuramento collettivo di portare a compimento il viaggio della nostra vita qualunque ne fosse il costo, brindammo ripetutamente per essere veramente convinti. Nelle riunioni successive, disponendo il gruppo di due futuri ingegneri, pianificammo con cura ogni cosa, comprese le soste nelle città, i rifornimenti di acqua, cibo e benzina, le possibili strade alternative e perfino quando partire per evitare la stagione dei monsoni. Naturalmente, man mano che si avvicinava il giorno della partenza cominciarono le defezioni per i più futili motivi, tipo: i miei non vogliono più, la ragazza dice che se parto mi lascia, non ho i soldi, devo dare l'esame di diritto amministrativo e non voglio rovinarmi la macchina che papà mi ha appena regalato per la laurea. La scusa migliore fu: non vengo più perché c'è da dormire all'aperto in sacco a pelo ed io ho paura dei serpenti. Alla fine, ci ritrovammo in cinque, con la 127 e la Simca ma, soprattutto, con due traditori che all'ultima riunione del giorno prima della partenza se ne uscirono con un' inattesa mozione d'ordine dal titolo: "Ma perché invece di romperci le balle tra deserti, guadi e passi di montagna per andare in India non ce ne andiamo belli e tranquilli a Capo Nord, che è quasi tutta autostrada?". 


Appena ventenne, attraversato laicamente dal dubbio, come al solito.

I cospiratori ebbero facilmente la meglio, anche perché le auto erano le loro e poi promettevano diverse soste "di piacere" lungo il percorso in paesi sessualmente liberi. Diciamo che di fronte agli eros center tedeschi, il Taj Mahal, il Gange e il Brahmaputra non erano molto competitivi. Così, alla fine di un voto drammatico, mi ritrovai in minoranza e tanto contrariato per quel voltafaccia da salutarli e abbandonare sdegnato la squadra, che peraltro non andò lontano perché al secondo giorno di viaggio furono respinti bruscamente alla frontiera della Germania Est in quanto nessuno di loro si era ricordato che serviva il visto per l'ingresso sul passaporto. 

Sfortunatamente, in quel periodo i nostri sogni di viaggio in India sulle orme dei Beatles, del suono del sitar, del curry, del pollo tandoori e dei santoni alla Sai Baba rimasero solo esercizi teorici e velleitari. Erano bolle di sapone lievi e dai mille colori (come se fossero uscite da Lucy in the sky with diamonds) che scoppiavano di fronte alla prima difficoltà. Il guaio era invece che le nostre ragazze, quando volevano andare in Inghilterra, beh... loro ci andavano davvero e anche per dei mesi, tornando oltre che con qualche chiletto in più per via della scoperta del burro salato, anche con con i classici innamoramenti estivi da college. Ma questa è una triste storia d’amore di cui ho già narrato e che comunque alla fine ebbe anche un suo perché in quanto diede il via ad un lungo, ma in fondo eccitante, biennio di turbamenti sentimentali del tipo “Ci siamo rimessi assieme” e di “ No, è meglio che ci lasciamo” e di “Ma che bello! stiamo di nuovo insieme” seguito dalla variante pragmatica: "Lo facciamo, ma però non stiamo insieme" fino al ”Lo vedi che tra noi non funziona? È meglio che ci lasciamo” che si sono trascinati quasi sino alla fine dell’università, quando poi ci siamo rotti reciprocamente le scatole e ci siamo trovati dei nuovi amori meno tormentati. 

Piuttosto, parlando di primi viaggi a loro modo memorabili, quello che ricordo ancora oggi con emozione, anche se per me non era il primo, è stato quello che ho fatto all'inizio della nostra storia d’amore, quando tutto era ancora zucchero e miele, con la mia ragazza di allora, a Firenze, dove per la prima volta abbiamo potuto dormire assieme (cosa scandalosa per l’epoca) in un alberghetto a una stella dove non facevano caso se fossimo una coppia sposata o meno (M'importa fava, disse il portiere dopo un'occhiata distratta ai nostri documenti, basta che avete i "pimpi" per pagare), in Borgo Ognissanti, a due passi dal Lungarno Vespucci. Quel viaggio, ancora così vivo nel ricordo, e’ stato anche un piccolo capolavoro di astuzia, perché né io né lei avremmo mai avuto dalle nostre famiglie il permesso di farlo assieme in quegli anni (parlo del 1969). Quindi, per raggiungere il nostro scopo, si fece così: lei aveva ottenuto la complicità di una sua cugina più grande che studiava a Firenze e che, apparentemente, l’aveva invitata per un soggiorno di una settimana nell'appartamento che condivideva con un'altra studentessa. Che però era già andata via da mesi e, in realtà, all'insaputa della famiglia, questa ragazza ora viveva con uno studente americano e quindi necessitava a sua volta di… molta discrezione e, ovviamente, l’ospitalità sarebbe stata solo di facciata. Il giorno dopo la partenza della mia bella per Firenze, per eliminare ogni sospetto da sua madre che così avrebbe visto di persona che io ero rimasto a Venezia e non ero partito con sua figlia come temeva, mi recai a casa sua con la scusa di riprendere alcuni dischi che le avevo prestato e con l’occasione mi informai di come stesse andando il soggiorno fiorentino della mia beneamata e le raccomandai di salutarla tanto da parte mia quando l’avesse sentita. Un’ora dopo questa vergognosa quanto abile messa in scena ero già seduto a bordo del rapido per Firenze con lei che di lì a poche ore sarebbe corsa ad abbracciarmi in stazione a Santa Maria Novella. 


L'elegante ingresso proprio sotto al lampione del nostro nido d'amore fiorentino

Quei primi giorni di viaggio assieme furono per tutti e due un’esperienza di vita memorabile. Anche se era autunno inoltrato, iniziava a fare freschetto e ogni tanto piovigginava pure (che però era una buona scusa per rimanere in camera), Firenze, senza il turismo invadente e all'epoca ancora autentica nei suoi umori, seppe essere complice come la Venezia dei miei ricordi. Così scoprimmo tante cose straordinarie, dal Museo Stibbert, alla salita lungo i 463 gradini del campanile di Giotto con le gambe che poi facevano male e dalle passeggiate notturne sui lungarni sino, più prosaicamente, alla bontà del panino con il lampredotto. Scoprimmo anche i risvegli con il “ma quanto hai russato?” e il conseguente “...e tu pensi di no?”, e pure che lei aveva sempre i piedi gelati e scalciava durante il sonno e che io quando mi lavavo i denti spargevo dentifricio dappertutto, ma soprattutto che sua cugina, nello sceglierci la stanza, aveva preso troppo alla lettera la richiesta di essere “parsimoniosa”, perché è vero che il prezzo era davvero da studenti, la stanza era spartana negli arredi ma pulita ed in fondo, trovandosi l’alberghetto al terzo piano di un palazzo (si saliva con un vecchio e cigolante ascensore dalla deliziosa cancellata liberty e che costava l’inserimento di una monetina da dieci lire a viaggio) ci concedeva pure, dall'unica finestra disponibile, la visione di qualche tetto, di un campanile non identificato e delle colline, che era molto romantico. 


Il dramma del costoso giro turistico in carrozzella con cavallo non stitico  

Però la porta non si chiudeva bene e di notte ci costringeva a barricarci tenendoci contro una sedia con una valigia sopra ma, soprattutto, non avevamo il bagno in camera. C’era solo il lavandino, senza acqua calda, con un saponetta già usata da terzi (dunque gettata con raccapriccio) per le abluzioni e quindi per il resto occorreva recarsi nella toilette in corridoio, dalle dimensioni di uno stanzino minuscolo, con solo la tazza. E qui si scopriva che la lampadina del bugigattolo era fulminata e che, se per caso ti scappava di notte, dovevi mirare verso il centro di quella sagoma biancastra che intravedevi alla luce fioca di un piccolo lucernaio, verificando prima che il coperchio della tavoletta non fosse abbassato, altrimenti la mattina dopo saresti stato svegliato dalla donna delle pulizie che in corridoio strepitava contro la Maremma maiala e bucaioli vari. Durante il soggiorno ci fu solo un momento di tensione quando lei s'impuntò, ovviamente avendola vinta, per fare un giro del centro storico con la carrozzella che ci costò quanto due giorni in albergo. La mia considerazione che se proprio voleva provare il brivido della passeggiata in carrozza avrebbe potuto farlo anche al Lido, lungo il Gran Viale a minor prezzo e che francamente mi sentivo a disagio nelle vesti del turista gonzo americano da spennare, non ebbe alcun risultato e comunque nell'occasione quel maledetto cavallo non ci risparmiò niente in termini di deiezioni e relativi odori e lo considerai un castigo divino. 

Al termine della settimana assieme a Firenze, io presi un treno che partiva al mattino, mentre il suo partiva a metà pomeriggio e appena sceso a Venezia telefonai ai suoi genitori, che ci sarebbero di sicuro andati, per chiedere se potevo venire con loro quella sera a prenderla in stazione. Gran bella mossa, vero? Diciamo pure che se von Clausewitz si chiamava Carlo, in fondo non era casuale.

2 commenti: