lunedì 9 luglio 2018

Dei suonatori lungocriniti in rotta per il Mar Nero e delle lettere a Pinocchio


A differenza di mia moglie, talmente gelosa della sua privacy che nostro figlio ha scoperto solo poche settimane fa che sua madre aveva dei parenti a Londra, a me piace moltissimo raccontare la mia vita, tanto che ricordo benissimo la mattina in cui uscendo dal mio appartamentino padovano dei tempi dell'università assieme ad una ragazza conosciuta solo il giorno prima in facoltà (il bello del '68 non consisteva solo nel fare i cortei) l'avevo portata al bar sotto casa a fare colazione e lei, mentre sorseggiava il cappuccino, dopo uno sguardo intenso mi aveva detto "Beh... dopo questa notte credo sia il caso di conoscerci meglio, no? Dai, raccontami un po' di te..." e io le risposi "Si, certo... molto volentieri, ma hai qualche impegno per cena?". Naturalmente non la rividi più (come forse era nelle mie aspettative), ma in effetti il piacere di raccontare mi è rimasto anche perché, arrivato ormai alla soglia dei settant'anni, se non l'avesse già fatto Pablo Neruda per intitolare le sue memorie, potrei dire anch'io (si parva licet componere magnis) "Confesso che ho vissuto". Così, visto che siamo ormai in piena estate e che tra poco, dopo il centenario della fine della prima guerra mondiale, ricorre (ahimè!) il cinquantenario del mio imbarco per suonare assieme ad altri quattro amici come complesso rock di classe turistica a bordo dell' Ausonia in crociera lungo il Mediterraneo, anche se non sono più inedite, vi racconto alcune storie buffe di quei viaggi. 

Dovete infatti sapere (lo so, lo sapete già, ma devo pure trovare un incipit) che a parte l'assiduo impegno negli studi di giurisprudenza nel mio minuscolo appartamento padovano subito trasformato in alcova e centro permanente di dissolutezze e cazzeggiamenti vari, in quel primo anno di università mi dedicavo con grande trasporto al mio complesso rock, nato ancora ai tempi del liceo.


Noi che volevamo suonare i Led Zeppelin e ci chiedevano le canzoni dei Dik Dik

Prima di compiere l'errore dell'appartamento, l'altro grande sbaglio di mia madre era stato quello di regalarmi tra mille raccomandazioni perché non trascurassi lo studio (ma figuriamoci) una chitarra acustica in offerta stracciata da Barera, in Merceria. La chitarra in questione era di un orrido colore giallastro (che la rendeva invendibile a prezzo normale) e con una tastiera dura come un manico di scopa che a momenti ti pagavano loro purché la portassi via. Ma essendo un giovane di grande ingegno, sostituii subito le corde ruvide che scorticavano le dita con quelle lisce da chitarra elettrica per poterle “tirare su” e appena finito il doloroso apprendistato sul giro di do e il barrè dopo qualche mese la permutai con la mia prima chitarra elettrica, un’eccellente Zerosette Castelfidardo alla quale in seguito associaì una Fender Esquire a una piastra (che conservo ancora) e infine, la mitica Stratocaster di Jimi Hendrix, purtroppo rivenduta solo dopo due settimane a causa del ricatto sentimentale della mia beneamata (o io o lei) e di una scelta rivelatasi poi sbagliata. Quindi, con altri quattro amici e compagni di classe tra i quali Emanuele che avevo persuaso subdolamente a fare il bassista (che per rimorchiare era la cosa più sfigata e dunque mica lo potevo fare io) fondai un complessino ad imitazione di un effimero gruppetto di Liverpool che allora andava tanto di moda ma di certo sarebbe svanito dopo il primo disco: The Beatles.


Lungocrinito, sguardo fecondatore e chitarrista rock. Pronto per l'imbarco

Gli inizi non furono brillanti, tanto che mia madre richiesta di un giudizio sul mio fragoroso accompagnamento di “She loves you” rispose gelidamente: “Davi l’impressione di un’armatura medioevale che rotola per una scalinata”. Questo, integrato da altri giudizi corrosivi sulla mia capacità di cantante, m'indusse presto a trasformarmi in chitarra solista. In ogni caso, del tutto corazzato contro i giudizi negativi che attribuivo comunque ad incompetenza, per un più completo adeguamento al ruolo mi lasciai anche crescere i capelli quasi sino alle spalle ed assunsi l’aspetto educatamente trasandato che poi caratterizzò anche l’imminente stagione dell’impegno politico. A causa del nuovo look affrontai stoicamente anche il martirio quotidiano del “Quando li tagli?” al quale mia madre, che per distinguermi da mio fratello con le sue amiche mi chiamava: “Il figlio lungocrinito”, si dedicava con impegno. 

Passavamo interi pomeriggi a provare in uno scantinato nei pressi della Misericordia, con gran sollazzo dei vicini e frequente arrivo dei vigili ed io, che nel frattempo mi occupavo di tutto fuorché di far progredire i miei esami di Giurisprudenza fermi a quell'unico trenta in sociologia, che allora lo avrebbero dato anche al fattorino che portava le pizze, brigavo assai per ottenere una qualche scrittura seria che ci consentisse, finalmente, di abbandonare il circuito precario delle salette parrocchiali e delle festine private. Giunti alle soglie dell’estate del 1969, con un’abile strategia raccontai a mia madre che avevamo avuto una scrittura per una tournèe di alcune settimane nelle peggiori balere tra Jesolo e Lignano. Non era vero, ma servì egregiamente allo scopo perché lei, in piena crisi d’ansia, purché il suo bambino lungocrinito non finisse in certi postacci, ci trovò, grazie a sue amicizie del giro del bridge, una strepitosa scrittura per suonare sulle navi da crociera dell'Adriatica di Navigazione.


L'Ausonia in rotta per il Mediterraneo orientale con noi a bordo
che stiamo già collegando impianto voci, amplificatori e chitarre

Come si può immaginare, Donatella, la mia ragazza dell'epoca, nonostante le assicurazioni (poco credibili anche a me stesso) che avrei fatto il bravo ragazzo monogamo e fedele non la prese affatto bene e iniziò a tramare alle mie spalle, trovando ben presto appoggio in mia madre pentitissima che, non potendo rimangiarsi quanto promesso, con una tipica astuzia materna provò a sabotare la cosa inducendo la mamma di Emanuele a negare il permesso al nostro bassista. 

Per loro sfortuna all'epoca leggevo con passione "L'arte della guerra" di Sun Tzu e dunque disponevo di raffinate strategie per contrattaccare. Tra queste, l'argomento forte era che avevamo firmato un contratto con penale incorporata ed era efficacissimo per tenere a bada quelle due e anche la madre di Emanuele, nota per il suo braccino corto e quindi spaventatissima dalla prospettiva di dover pagare dei soldi e così alla fine ci imbarcammo sulla motonave Ausonia dove, tra una crociera estiva ed una invernale (sull'Esperia) attraverso il Mediterraneo, tra Grecia, Turchia e Mar Nero, quella che doveva essere solo una scrittura di poche settimane si trasformò in un periodo ben più lungo assai poco costruttivo dal punto di vista del mio impegno universitario (zero esami), ma sicuramente spettacolare per numero di esperienze e, siccome non siamo mica fatti di legno, tanto più a vent'anni con gli ormoni che girano come i cavalli del Palio di Siena, anche di conquiste. “Il cielo è vasto e l’Imperatore lontano” diceva un poeta cinese del medioevo per giustificare la dolce vita e i traffici illeciti nella remota isola di Haj-nan, e tale era il mio pensiero, pur se, tra tanta spensieratezza, capitava anche qualche episodio sfortunato.



In piscina a fare il figo con le ragazze canadesi

Infatti, vedendomi così lungocrinito, il Commissario di bordo mi aveva spedito subito dal barbiere per via del decoro da mantenere a bordo. Malgrado la tosatura  la mia prima preda, già al secondo giorno di navigazione e appena giunti in porto a Brindisi, fu una traccagnotta americana afflitta, oltre che da cellulite precoce, anche da un vistoso strabismo (e subito gentilmente ribattezzata dai miei compagni: Polifemo) che, dopo una pomiciata notturna di routine sulle comode sdraio del ponte di passeggiata, già dal giorno seguente, in rotta verso il canale di Corinto, fu disinvoltamente rimpiazzata da una rossa lentigginosa, sempre americana e tutt'altro che malvagia. 

Per alcuni giorni la traccagnotta scomparve di scena come inghiottita dal mare ed io non me ne diedi particolare pena, anzi, nemmeno la ricordavo. Tuttavia, una sera, mentre stavamo suonando “Homburg”, un pezzo dei Procul Harum di grande atmosfera, si spalancò di colpo la porta del ponte di passeggiata. Assieme ad una ventata di aria gelida e profumata del mare mi ricomparve improvvisamente davanti Polifemo grondante indignazione da tutti i pori e, come si intuiva dal suo incedere incerto, anche qualcosa di fortemente alcolico. Colto l'attimo che precede la burrasca cercai di cavarmela con un sorriso accattivante e un cordiale: “Hi sweetness! How are you?”, ma ci voleva ben altro. Polifemo, che ormai era lanciata sul piano della violenza fisica, dopo un insulto irriferibile in slang mi affibbiò due vigorosi ceffoni sul muso. Quindi girò i tacchi soddisfatta e si diresse al bar, per l’ennesimo gin fizz. Ci fu un attimo di sconcerto in sala, ma siccome è regola aurea tra gli uomini di spettacolo che "The show must go on", continuammo a suonare imperterriti, anche se io avevo la mascella indolenzita e le guance rosse come il fuoco e Lele suonava la batteria con una mano sola perché con l’altra si teneva la pancia dal ridere. A mio onore resta il fatto che, pur traballando vistosamente (Polifemo aveva due bracciotti sodi, da Popeye ingozzato di spinaci) nel doloroso frangente non avevo emesso neppure una stecca! Scoprii in seguito che, tra le oltre 250 fanciulle disponibili a bordo in classe turistica, per sostituire Polifemo ero andato a scegliere proprio la sua compagna di cabina. Quando si dice la mala sorte...


Ciao mamma, sono a Odessa. Qui ci sono i comunisti veri, ma non preoccuparti...

Dal punto di vista musicale eravamo ormai diventati veramente bravini e l’armonia del gruppo era buona, tranne quando c'era da mettere mano al nostro repertorio che per forza di cose doveva essere vastissimo e comprensivo di tutti i generi, giacché si suonava allo stesso pubblico per quindici sere consecutive con altrettanti pomeriggi di piano bar dove era richiesta musica soft di sottofondo che veniva eseguita dal nostro pianista, da Emanuele al basso, da Lele alla batteria con le spazzole mentre i due chitarristi erano esentati e liberi di corteggiare le gentili ospiti ai tavoli. 

C'erano, infatti, alcune canzoni che il nostro fantastico pianista, forte della sua raffinata formazione classica non si degnava di eseguire neppure per scherzo. Sua madre insegnava clavicembalo al Conservatorio e lui, con la sua naturale modestia, amava dire di sé che era stato messo al pianoforte all’età di tre anni, come Mozart. Pertanto, occorreva lottare duramente per convincerlo a suonare i brani nazional-popolari per gente di bocca buona. Tra le tante canzoni ripudiate c'era anche il popolarissimo “Casatschok”, il ballo della steppa del piccolo cosacco, che francamente era una robetta ignobile e buona per le balere romagnole. Dunque, capivo il suo disagio. Ma siccome si navigava su e giù per il Mar Nero e andava bene per i giochi dell’animatore, ci potevi scommettere che te lo chiedevano almeno una volta a sera. Così lui, estroso come tutti i cavalli di razza, boicottava regolarmente il pezzo mettendosi a fare il fenomeno, suonando di schiena e lanciando coriandoli e stelle filanti alle signore, possibilmente nelle scollature. Grazie a ciò avevamo tutti gli attacchi della pianola fuori tempo e sembravamo due orchestre distinte. Fino a quando le nostre invocazioni affinché un castigo divino si abbattesse su quell'essere malvagio, furono esaudite.


A Rodi con Violet (ma la mia ragazza non lo doveva sapere)

Una sera, infatti, durante una breve pausa un bambino accompagnato dalla mamma mi venne a chiedere se sapevamo suonare la melensa “Lettera a Pinocchio” cantata da Johnny Dorelli. Ci fu un giro di occhiate complici tra me e gli altri aspiranti vendicatori e l’accordo per punire Mozart scattò istantaneamente. Accarezzai la testolina al pargoletto e indicandogli il nostro ignaro pianista classico che stava guardando altrove gli dissi: “Noi non la sappiamo suonare, tesoro, ma so che il signore al pianoforte, che è tanto bravo e gentile, la conosce benissimo. Chiedila a lui e vedrai che la suonerà molto volentieri per te e la mamma, tutte le volte che vorrai!”. La mamma portò subito il piccino a parlare con il pianista che dapprima cercò di negare, ma siccome noi continuavamo a ribadire in coro “Guardi che la sa … dice di no perché è timido, ma se lei insiste vedrà che poi gliela suona” per tutto il resto della crociera il nostro Mozart dovette suonare il “Casatshòck” e anche “Lettera a Pinocchio” senza più fiatare. Un altro testone di granito, musicalmente parlando, era Emanuele. Come bassista era tecnicamente bravissimo, freddo e preciso come un chirurgo svizzero, ma aveva una flessibilità mentale pari ad una barra di tungsteno al nickel. Di conseguenza aborriva il concetto stesso d’improvvisazione che vedeva come un angoscioso salto nel buio, tanto che quando Mozart eseguiva dei brani jazz al piano, lui veniva esentato. Trovava, infatti, le sue sicurezze nella pianificazione più meticolosa delle attività esistenziali ed ogni variazione imprevista di programma lo turbava profondamente sprofondandolo nel più cupo sconforto. Un giorno che gli avevo preso in prestito il dentifricio rimase seduto in mutande sul letto a guardarmi inerte per cinque minuti perché la sua programmazione prevedeva che il lavaggio dei denti avvenisse prima e non dopo essersi vestito. 

Una mattina a colazione, tra un caffè e una brioche, avevamo deciso di cambiare tonalità a “Gimme some lovin’” perché Vincenzo sosteneva di strangolarsi sempre nel cantarla e del resto bastava guardare come diventava cianotico e con le vene del collo ingrossate per credergli. Però, con grave mancanza, non solo di tatto, c'eravamo dimenticati di avvertire Emanuele, che, deposta la tazza del cappuccino, si era rapidamente rinchiuso in bagno giacché la sua pianificazione giornaliera prevedeva l’evacuazione subito dopo la prima colazione. Così lui la suonò nella vecchia tonalità per tutto il tempo, incurante delle nostre occhiate disperate. 

Emanuele ci regalò, peraltro, anche momenti di grande imbarazzo la sera in cui quella vera calamità dell’animatore di bordo invitò il pubblico della sala a partecipare al gioco dei mestieri, con ricchi premi e cotillon. Si trattava di un giochino insulso, come del resto tutti quelli proposti ogni sera e che prevedeva di indovinare dopo una serie di domande il mestiere di due passeggeri scelti a caso tra il pubblico. Cose che avrebbero annoiato già ai tempi delle scuole elementari. Una dei due sorteggiati di quella sera era una vistosissima signora bionda ossigenata, truccata pesante e carica di bigiotteria come la Madonna di Pompei. Al momento della fatale domanda dell’animatore: “Secondo voi, che mestiere fa questa bella signora?” dimenticandosi di avere il microfono aperto Emanuele suggerì: “La zoccola” e l’insinuazione rimbombò a 120 watt d’uscita per tutta la sala (anche con l’effetto eco ed il riverbero) provocando un fragoroso scoppio di risate tra il pubblico, le proteste del marito della signora e le nostre scuse più contrite. Oltre ad un cazziatone del Commissario di bordo. La mattina seguente, commentando l’episodio mentre facevamo colazione, quello scellerato ebbe il coraggio di lamentarsi che, avendo indovinato, avrebbero in ogni caso dovuto dargli il premio.

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