martedì 14 febbraio 2017

Zibaldone ferrarese


Una mia cara amica di blog e di Facebook oltre alla passione per la montagna e per il narrare divertita e anche bene, perché conosce perfettamente l'arte dello scrivere, il mondo dei propri affetti e le piccole vicende di tutti i giorni (che poi sono il sale della vita) condivide con me anche l’amore per Ferrara. Tutti e due et pour bonne cause. Lei, infatti, ha sposato felicemente uno "scettico" ferrarese mentre io, invece…. beh, faccio prima a raccontarvelo. 

Intanto dovete sapere che grazie alla bella idea di rinchiudermi a chiave nel suo studio con l’allora preside della facoltà di Giurisprudenza di Padova annunciandogli che non saremmo usciti di lì finché non mi avesse apposto sul libretto la firma necessaria per sostenere il suo esame che mi negava per ripicca (l’avevo contestato in assemblea per le sue continue assenze) ma, soprattutto, grazie alla sbadataggine di non accorgermi che nello studio c’era una seconda porta da cui il professore uscì subito a chiamare i bidelli per farmi allontanare, sono stato costretto a sostenere gli ultimi quattro esami e a discutere la tesi all'Università di Ferrara, dove, peraltro, prendendo spunto dal colore dei libretti universitari padovani, all'epoca si diceva che c’erano più libretti rossi che nella Cina di Mao. E con Ferrara fu subito amore a prima vista. 

Mi piaceva la sua gente, così solida e concreta ma sempre gentile, sorridente e pronta alla battuta bonaria (non come i bolognesi, che sembrano a loro volta tanto cordiali e gentili, ma è solo per farti raccogliere la melina, che sarebbe la versione agreste della saponetta, e annichilirti subito dopo con una battuta ironica), tanto che dopo pochi giorni in facoltà conoscevo tutti e avevo rapporti cordiali perfino con qualche docente, con il quale si poteva chiacchierare amabilmente dopo la lezione e prendere un caffè o una birretta assieme  (lo spritz no perché a quei tempi sull'altra riva del Po te lo preparavano con lo shaker e lo pagavi come un cocktail).

Gironzolando per le viuzze di Ferrara (1971)

Ma soprattutto di Ferrara mi affascinavano l’eleganza discreta di quelle sue case basse senza troppi orpelli se non il colore caldo del mattone che nelle giornate di sole sembrava prendere la luce dell’oro antico e la bellezza quasi sfacciata della Cattedrale contrapposta alla massa possente del Castello Estense che però non aveva l’aria guerresca e cupa dei castelli al nord. Poi, appena abbandonato il traffico di Corso della Giovecca, c’erano solo i silenzi delle stradine interne a farti compagnia e il fruscio discreto delle centinaia biciclette che le percorrevano, il profumo di pane che usciva dai forni (il pane a Ferrara ha un profumo tutto suo, che sa delle cose buone di una volta…) le piccole librerie antiquarie e i vecchi negozietti di carabattole della Ferrara ebraica descritta da Giorgio Bassani e poi la bellezza della vecchia cinta delle mura, con le passeggiate lungo i cammini di ronda e i bastioni.


Ferrara e le sue le biciclette onnipresenti (1972)

A queste scoperte si aggiunsero presto anche quelle enogastronomiche, con l’apparizione salvifica non tanto della salama da sugo (il cui sapore per me è troppo intenso anche se mitigato dal purè di carote) quanto dei cappelli da prete, della coppa di testa e delle bondiole, che acquistavo in una salumeria all'inizio di via Garibaldi, dove tenevano appeso al soffitto ogni ben di Dio e ogni volta che vi entravo andavo in estasi solo per i profumi e se davvero il paradiso esisteva, me lo raffiguravo così. Subito arrivò a ruota anche l’amicizia con quella stupenda persona che è stato Moreno Pellegrini, uomo generoso che allora accoglieva noi studenti nella sua antichissima enoteca “Al brindisi” (la storica Taverna al Chiucchiolino citata dall'Ariosto) a cui si accedeva da un piccolo vicolo scuro a fianco della Cattedrale e oltre a sfamarci con i suoi “pinzini” e i “fulminatopi” (fragranti sfogliatine salate al formaggio) aveva sempre qualche buon consiglio da darci, ascoltava paziente le nostre storie di esami non dati e donne fuggiasche commentando alla fine: "Te sei proprio un patacca..." e ci deliziava con gli assaggi di vini pregiati che stappava senza farsi troppi problemi, soprattutto quando lasciava la moglie a servire al banco e si univa a noi per qualche partita a carte. Lui era anche un appassionatissimo intenditore e collezionista di whisky (la sua cantina, che ci mostrava con orgoglio, aveva bottiglie strepitose che costavano una fortuna) e solo grazie a lui ho potuto scoprire i whisky “affumicati” dell’ isola di Islay e gliene sono immensamente grato. Possiedo ancora oggi alcuni libri che raccontano dei suoi vagabondaggi tra le distillerie scozzesi con tanto di dedica e ne vado orgoglioso.


I libri con dedica di Moreno Pellegrini, dell'enoteca  "Al brindisi"
Una stupenda persona che sono onorato di aver conosciuto.

Poi c’era il negozio di “sfogline” a metà di via Mayr che lavorava la pasta fresca e, se glieli ordinavi, nel giro di una passeggiata in centro ti preparava un vassoio di tortelli di zucca strepitosi, che per anni ho dovuto portare a Venezia per soddisfare le richieste di mamme, zie e poi dell’elfa. Tutta gente che se passavi da Ferrara e non glieli portavi, poi si offendeva (l’elfa soprattutto). Infine, c’era “Prinella”, una modestissima trattoria, scoperta grazie alle rivelazioni di un bidello della facoltà. Si prendeva il 9 fino al capolinea di Quacchio e poi ci si incamminava costeggiando gli argini di un canale per qualche chilometro, dapprima lungo una strada asfaltata, poi per uno sterrato. Da “Prinella” si mangiava praticamente solo anguilla, in umido o ai ferri. Nella piccola sala da pranzo, a cui si accedeva da uno scorrevole a tenda nel bar girando attorno ad un paio di monumentali flipper, c'erano, si e no, otto tavoli con regolamentare tovaglia di carta sopra quella a quadrettoni da osteria. Il tutto era sovrastato da una enorme foto incorniciata di una formazione della SPAL del 1966 dove giocavano ancora Fabio Capello, Osvaldo Bagnoli e l'argentino Oscar Massei, che aveva militato anche nell'Inter. Il marito e la figlia servivano a tavola e la madre con la nonna si davano da fare con ottimi risultati in cucina. Quando la nonna (che doveva essere la "Process owner", come si dice in aziendalese, delle buone ricette di una volta) aveva i bioritmi giusti a volte, oltre all'anguilla, si trovavano anche un risotto di cipolle e Trebbiano che era la fine del mondo e delle tagliatelle caserecce condite con uno di quei ragù che “lasciano pulito il piatto” (anche perché non sarà di bon ton, ma la scarpetta con il pane è inevitabile). Durante gli anni seguenti ci sono andato molte volte e un giorno ho suggerito al titolare di provare a cucinare l’anguilla “all’ara”, come i vetrai di Murano che, per non allontanarsi dal posto di lavoro, la ponevano tagliata in pezzi sul mattone rovente dei forni a cuocere nel suo grasso completamente ricoperta da foglie di alloro. Detto e fatto e ritornando alla trattoria qualche tempo dopo ho trovato sul menù con legittimo orgoglio anche “l’Anguilla alla veneziana” .


Il lungo argine che portava a mangiare le anguille da Prinella

Comunque, la storia del mio amore per Ferrara è più complessa e trae origine dalle otto di sera di un venerdì pomeriggio di ottobre, quando l’elfa ed io rientrando in macchina da Firenze, appena passata Bologna troviamo il solito bel muro di nebbia autunnale ad accoglierci. Facciamo qualche altro chilometro con ansia crescente e strizzando gli occhi per seguire le luci di quelli che ci stavano davanti e che diventavano sempre più fioche nonostante i fendinebbia, poi vediamo all’improvviso dei segnali luminosi lampeggianti e delle fiaccole agitarsi in quella coltre lattiginosa con delle sagome scure ferme davanti a delle auto . E’ la polizia stradale che ci fa segno di fermarci e ci dice che dobbiamo uscire subito a Ferrara Nord perché più avanti, dalle parti di Occhiobello, l’autostrada è bloccata per via di un grosso tamponamento tra una dozzina di camion e auto. A quel punto eseguiamo e ci mettiamo in marcia per rientrare in autostrada a Rovigo, ma ovviamente tra la nebbia, il buio e una zona industriale senza troppe indicazioni inizio a perdermi e ad innervosirmi e anche l’elfa comincia a inquietarsi, tanto che all’ennesima strada che si perde nel nulla della campagna mi dice “Senti… siamo stanchi tutti e due e così andiamo solo a cercare guai. Quindi dormiamo qui a Ferrara nel primo albergo che troviamo e torniamo a casa domani mattina con il chiaro.” 
La guardai sconsolato.“Si, ottima idea…ma il problema è di riuscire a trovarla Ferrara...

Dopo aver girovagato per oltre mezzora con l'elfa sempre più inquieta e già sul: "Beh.. ma se non conosci Ferrara, fai guidare me..." per merito del mio angelo custode passandoci davanti riconosco finalmente la sagoma della stazione e subito mi viene in mente che imboccando il lungo rettilineo di viale Cavour sarei finito diritto in corso della Giovecca e lì, a due passi dal castello, c’era l’albergo Europa dove “scendeva” spesso mia madre che, memore dei nostri (molto) lontani fasti di famiglia della buona borghesia, negli alberghi non ci andava come tutti i comuni mortali, ma ci “scendeva”, immagino da qualche carrozza immaginaria.


L'espressione da: com'è che conoscevi già quest'albergo? Contamela giusta...

Arrivati finalmente in albergo che erano le nove passate, la gentilissima signora che ci accoglie alla reception ci dice che se volevamo cenare il ristorante era ancora aperto e accettiamo volentieri. Le lascio i documenti e ci accompagna a tavola. Dopo un po’ fa ritorno tutta sorridente e mi dice allegra porgendomi la mano: “Ma con quel cognome lì lei non poteva mica pensare di sfuggirmi. Lo sa? Ma che piacere rivederla dopo tanti anni… io sono l’Elisa, si ricorda di me?” . Francamente non me ne ricordavo, ma decido di non deluderla e reggo il gioco, così finalmente rammento che lei era la giovane figlia dei proprietari che, ospitando l’albergo una ricca colonia di studenti tra cui molti veneziani, spesso e volentieri ne ospitava anche le feste di laurea (tra cui la mia) e quelle di compleanno a cui lei era invitata per definizione anche perché era nostra coetanea e pure carina (e in più portava delle amiche). Terminati tutti i convenevoli e gli amarcord sulle conoscenze comuni mi attraversò di colpo il cervello una strana idea, che sembrava suggerita da una voce arrivata da chissà dove: “Senta… se è libera, potremmo avere la stanza numero tre? Mia madre vi ha dormito diverse volte e si raccomandava che la vedessi perché diceva che era bellissima. Così mi è rimasta la curiosità”.


In posa turistica sulle scale del Municipio di Ferrara

La signora Elisa mi guardò stupita non tanto per la richiesta quanto per la rivelazione.“Come è possibile? Sua madre ha dormito nella stanza di Giuseppe Verdi? Ma quanto tempo fa?” 
Saranno almeno vent'anni… perché?” 
Beh… allora me lo spiego perché la stanza all'epoca era ancora disponibile. Non è una stanza normale, ma sarebbe la suite dove sono passati nel tempo tanti personaggi celebri, però da qualche tempo la facciamo solo visitare ai clienti che ce lo chiedono come se fosse un piccolo museo perché gli arredi sono ancora quelli originali e vorremmo evitare che… “ 
Fece una pausa e prima che le dicessi che se la cosa era un problema sarebbe andata benissimo qualsiasi altra stanza, mi disse. “Va bene… se ci ha dormito la madre ci può dormire anche il figlio, no? Vi chiuderò solo la porta del salottino perché tanto quello non vi serve. Il tempo che cenate e ve la faccio preparare.”. Così, appena alzati da tavola ci condusse a prendere possesso della nostra camera che era comunicante con un salotto graziosissimo arredato con poltroncine, trumeau e tappezzerie dell’epoca, con il soffitto affrescato e tanto di pianoforte usato dal maestro quando era ospite dell'albergo oltre ad avere vari ritratti alle pareti tra i quali uno di Napoleone e Giuseppina, che sembrava fosse stato donato dall'imperatore in persona per riconoscenza dopo un soggiorno (a sbafo). 
Ma quella che ci colpì di più era la camera da letto, insolitamente spaziosa e dalle grandi finestre che si affacciavano proprio sul Corso della Giovecca, arredata con pochi e semplici mobili dell’‘800 che garantivano giusto l’essenziale. L’unico accessorio in dotazione era un piccolo treppiede che, oltre ad un asciugamano in lino con le frange, sorreggeva una brocca e una bacinella smaltate, di quelle che a quel tempo si usavano per le abluzioni). 

Tutto quell'arredo però aveva l’aria di casa perché era identico a quel che mia nonna materna si era portata ai primi del '900 dalle sue campagne del Monferrato. Compreso il grande letto in noce e l’armadio ad un’anta con la specchiera che facevano bella mostra di sé sopra una palladiana di splendide piastrelle in cotto a due sfumature diverse e che profumava di cera. Guardai la stanza affascinato, come al cospetto di un luogo magico in cui mi sembrava di esserci stato da sempre e dopo aver incrociato lo sguardo intenso dell’elfa capii che provava la mia stessa sensazione. Prima di andare a dormire ci regalammo una romantica passeggiata notturna nel silenzio di Ferrara avvolta dalla nebbia e il seguito lo potete immaginare.


Quella che s'impadronisce del tuo pigiama e della tua marmellata e che
tra poco, appena posato il caffelatte, ti rivelerà che avremo un bambino...

La scena seguente si svolge circa un mese dopo questi fatti e siamo in una piovosa mattina di novembre nella cucina della mia minuscola casetta veneziana di calle del Pestrin con vista su tetti e comignoli fradici di pioggia. Stavo trangugiando il caffelatte nel solito disperato e vano tentativo di svegliarmi e di rispondere alle domande: “chi sono, da dove vengo, chi è questa ragazza con il mio pigiama addosso che mi osserva ridacchiando forse perché è la criminale che appena alzata ha spalancato tutte le finestre per farmi prendere la polmonite e, soprattutto, perché sto bevendo questo intruglio inzuppandoci savoiardi infiappiti quando potrei prendere un bel caffè con la brioche calda di forno al bar in calle?”. In quell'istante incrociai lo sguardo dell’elfa (l‘avevo finalmente riconosciuta) che mi fronteggiava apparentemente ostile con le braccia conserte.

Siccome lei potrebbe dare lezioni a Von Clausevitz sull’efficacia dell’attacco preventivo, soprattutto quando si ha la coscienza sporca nei miei confronti, esordì subito con un “Guai a te se ti lamenti dei biscotti scaduti, che in questa casa si buttano sempre via tante cose ancora buonissime…” 
Si, ma erano aperti da due settimane, magari hanno anche fatto le camole…” 
No ho controllato… non ce n’erano” 
Forse perché i savoiardi erano talmente infiappiti che saranno volate a suicidarsi nel caffè, che, tra l'altro, sa di metallo e sembra fatto con le carrube. E’ scaduto anche lui?” 
No, è solo il caffè di ieri riscaldato, così forse capisci che la devi smettere di usare la caffettiera per quattro quando in questa casa siamo in due (breve pausa ad effetto)…anzi, in tre.


Born in the USL, ma forse concepito proprio a Ferrara

Quest’ultima frase dell’elfa mi sorprese perché arrivando dallo scientifico e avendo fatto economia aziendale, qualche dimestichezza con il far di conto la doveva avere. Ma non feci tempo a farle notare l’errore di calcolo poiché la stessa noncuranza con cui mi avrebbe detto che c'era da comperare il pane, Morena mi disse: "Comunque, non so se ti può interessare... (altra pausa sapiente per dosare l’effetto)... ma credo d’essere incinta! "

Mi cascò il biscotto nella scodella (cosa che odio) e rimasi seduto a guardarla a bocca aperta finché lei riprese con la sua aria da sfottere: "Oh! Guarda che se vuoi puoi anche darmi un bacio, ma solo se ti sembra opportuno... ". Glielo diedi, ma non è questo il punto: quasi certamente sarà successo in un altro momento, visto che in quel periodo ci eravamo messi d’impegno per avere il bimbo che volevamo, però mi diverte ancora pensare che il nostro giovanotto possa essere stato messo in cantiere proprio in quella notte nebbiosa, nella stanza numero tre dell’Albergo Europa e nello stesso letto in noce dove aveva dormito Giuseppe Verdi e forse anche Napoleone con Giuseppina. Mica è da tutti, no?

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