sabato 12 dicembre 2020

Dell'arte di trasformare una tranquilla operazione di rientro in una catastrofe.


Trascorsero i giorni e le settimane di un paio di mesi interminabili. Non l'avevo più sentita, né per lettera, né per telefono e sapevo solo dai suoi che stava bene e mi salutava (ma che gentile!), però tutti i cerchietti con la spunta sul tabellone in camera da letto mi dicevano che stava avvicinandosi finalmente la data del rientro di Donatella, che, infatti, di lì a poco mi chiamò da Bournemouth.

Così, dopo una serie di giustificazioni tipo arrampicata sugli specchi riguardo la sua difficoltà di comunicare (mancava che mi raccontasse che aveva finito i soldi per i francobolli e avrei preferito che mi dicesse che non aveva avuto il tempo e nemmeno la voglia di farsi sentire) venni a sapere che aveva incontrato nel college una simpaticissima ragazza veneziana di nome Martina (le amicizie che faceva lei erano sempre "issime" in qualcosa), con la quale aveva fatto amicizia e che, visto che avrebbero preso lo stesso volo che arrivava a Linate alle nove di sera, mi avrebbe contattato un tale Jacopo, che era il ragazzo di questa tizia, perché ci mettessimo d’accordo e andassimo assieme a Milano a prenderle per scortarle a casa e, immagino, portare i bagagli. Casomai non lo avessi capito, era una precettazione. Dunque, che non mi passasse neppure per l’anticamera del cervello di non essere in aeroporto per il loro arrivo. 

Quando questo ragazzo mi telefonò decidemmo di comune accordo di prendere un bell’Intercity che ci avrebbe portato a destinazione per le otto di sera, con tutto il tempo di prendere un panino  al volo in stazione centrale e un taxi per andare a Linate, dove poi, tra atterraggio, sbarco, ritiro bagagli e dogana difficilmente le nostre donne sarebbero comparse davanti a noi prima delle dieci. Così, il giorno stabilito incontrai questo Jacopo davanti alla biglietteria della stazione. Non faticai a riconoscerlo. 

Era proprio come me l’aveva descritto impietosamente Donatella avendolo visto in foto quando le avevo chiesto come avrei fatto a riconoscerlo: un tipo abbastanza scialbo, alto, con gli occhiali e un accenno di calvizie precoce, però a me sembrava una persona gradevole, educata e aveva un sorriso simpatico.



Appena preso posto nello scompartimento scoprimmo presto di avere un punto in comune su cui essere solidali: la tirannia delle nostre donne. Lui era seccatissimo, visto che lavorava in Comune, di aver dovuto prendere un giorno di permesso per andare a fare il portabagagli a Milano, città dove esistevano di certo centinaia di taxi in grado di accompagnare in sicurezza due fanciulle dall’aeroporto di Linate sino alla stazione centrale e d’imbarcarle sul treno per Venezia, dove noi potevamo amorevolmente attenderle anche a notte fonda, ma senza terremotare le nostre vite. Atterrare a Milano, contrariamente a come sembravano pensare quelle due, non era come farlo in Patagonia o nella giungla tropicale. C’erano ampi margini di sopravvivenza e il mio compagno di viaggio sosteneva che a parti invertite loro non avrebbero mosso le chiappe (testuale) per noi. La sua posizione rispecchiava fedelmente il mio pensiero e il giovanotto entrò subito nelle mie simpatie. 

Ci divertivamo molto a passare al setaccio dell'ironia anche tutti i racconti di college delle nostre donne. Jacopo mi aveva rivelato che ad un certo punto la sua Martina e Donatella (che stranamente non aveva avuto il coraggio di dirmelo) avevano pensato di uscire dalla scomodità spartana del college e di affittare un appartamentino tutto per loro. Di conseguenza, considerando i prezzi correnti degli affitti a Bournemouth, che è una cittadina balneare molto rinomata, avevano progettato di trovarsi un lavoro per mantenerselo. Che non si pensasse che erano mantenute dai loro padri 
Così erano andate in diverse agenzie di collocamento dove le avevano sempre buttate fuori brutalmente per un motivo talmente ovvio che solo a loro poteva non venire in mente. 
Infatti, le due principessine sul pisello, oltre a parlare male l'inglese, si presentavano a cercare lavoro tutte elegantine, con le loro belle borsette di Fendi, le camicette di Cacharel e il foulard di Hermes al collo in mezzo a donne delle pulizie, cameriere e lavascale. La mia immaginazione fervida mi rimandò subito la scena di Donatella, con il filo di perle al collo, seduta tutta compunta in sala d'attesa tra due grasse lavandaie piene di birra, tatuate e con i capelli tinti d’arancione e scoppiai a ridere fino alle lacrime e Jacopo con me, tanto che quando venne il controllore a vedere i biglietti ci disse qualcosa mentre ce li restituiva, ma non ci badammo affatto, che tanto doveva essere una cazzata. 

Verso le sei di sera il treno, come previsto, effettuò una lunga sosta tecnica di quasi venti minuti alla stazione di Verona, per poi ripartire cigolando in perfetto orario. Noi continuavamo a discutere briosamente e a raccontarci tutte le cavolate delle nostre dame, ridendo come matti delle loro fisime. 
Questa Martina, poi, da come me la descriveva Jacopo, sembrava fatta con lo stesso stampino di Donatella, forse anche più delicatina e imbranata nelle cose elementari di tutti i giorni e la cosa mi metteva ulteriore ilarità. Una veneziana che ti chiamava disperata in ufficio perché si era persa tra le calli, era una novità assoluta e non vedevo l’ora di conoscerla. Così, di risata in risata, ad un certo punto guardai fuori dal finestrino scorgendo strane sagome scure tra le prime ombre della sera che calava e subito mi venne spontanea una domanda: “Scusa Jacopo, che tu sappia, si vedono dei monti sulla linea per andare a Milano?”. 
Lui ci pensò su un attimo e mi fece cenno di stare tranquillo “Ma sì... certo. Dovremmo essere a Brescia tra poco e mi ricordo che qualche altura sullo sfondo si vede, Sono le Prealpi bresciane. Anzi, magari è la Val Trompia”. 
Dici quella di Tognazzi che scalpellava un “troncio” enorme per realizzare un singolo stuzzicadente?” 
No… quella lì era la Val Clavicola” 
Vabbè, ma anche la val Trompia come nome sembra perfetta per montanari che scolpiscono i tronci, non trovi?” 
Così ci rimettemmo a scherzare per un’altra ventina di minuti sul tema dei “tronci” e pure con battute goliardiche sui ragazzi bresciani che probabilmente andavano a "trompiare" nella Val Trompia, finché il treno fece sosta in una cittadina e un altoparlante incominciò a gracchiare: “Stazione di Rovereto... Stazione di Rovereto”. 




Eravamo saliti sulla parte del convoglio che a Verona veniva staccata e agganciata al treno per Monaco di Baviera e probabilmente il capotreno ci aveva detto di cambiare scompartimento e non una cazzata da non prendere in considerazione. Dunque, invece che a Milano eravamo diretti al Brennero. 

Scendemmo di corsa, trafelati e angosciati. Sentimento che aumentò a dismisura appena scoprimmo che il primo treno per tornare a Verona era tra un’ora e quaranta minuti e che una coincidenza per Milano c’era solo alle dieci e mezza con arrivo a destinazione a mezzanotte e venti, salvo ritardo. Gridammo all'unisono: “Cazzoooo! Quelle due ci mangiano vivi…” ricevendo le occhiate indignate di un gruppetto di signore che assieme a due suore aspettavano il locale per Trento sulla nostra stessa pensilina . 

Escludendo di espatriare in Germania per sfuggire alle nostre responsabilità e non avendo alternative,  appena tornati a Verona prendemmo il treno per Milano e, una volta scesi nella Stazione Centrale semideserta, scorgemmo qualche binario più in là due derelitte sedute sulle valigie in attesa del treno per Venezia delle quattro di mattina, perché per aspettarci invano a Linate avevano perso quello delle undici. Mentre ci avvicinavamo di corsa, sentii distintamente questa Martina dire a Donatella: "Eccoli i due coglioni!" ma, considerando la situazione che si era creata, ci poteva stare.

Fu una scenata epica e irriferibile durante la quale Martina lasciò Jacopo su due piedi e Donatella, dopo una lunga filippica sul tema della mia idiozia conclamata, non mi rivolse più parola durante tutto il tempo del viaggio di ritorno e una volta a Venezia, se ne andò a stare dai suoi genitori, dicendomi che non sapeva se e quando sarebbe tornata. Soprattutto “se”. Provai a telefonarle a casa la mattina seguente per fare la pace, ma rispose sua madre per dire che Donatella non aveva alcuna intenzione di parlare con me. Subito dopo aggiunse gelida di suo: “Comunque, sappi che anch'io non ho parole per quello che hai fatto a mia figlia”. Poi riagganciò svelta senza che potessi replicare. E francamente, per onestà intellettuale, devo ammettere che non aveva tutti i torti.

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