domenica 11 novembre 2018

Dei viaggi in Sleeperette lungo la valle del Po, alla moda di Mario Soldati, ma senza la salama da sugo


È un lunedì mattina, a Torino. Uno qualsiasi. Uno dei tanti che ho vissuto per dieci anni. Non necessariamente nebbioso, no...anzi, forse c'è anche un bel sole, ma potrebbero anche grandinare chicchi grossi come uova di struzzo, che tanto non me n’accorgerei. Infatti in quelle condizioni farei fatica a ricordare anche il mio nome, se qualcuno me lo chiedesse. Figuriamoci se realizzo che tempo c'è. Sono appena uscito dalla stazione di Porta Nuova e innesto il pilota automatico avviandomi verso la mia meta. Rischiando più volte, attraversando le strade in stato di sonnambulismo, di essere spianato per l’eternità da qualche sabaudo in vena di guida sportiva, mi ritrovo dopo un po’ di fronte all’edicola all’angolo di Corso Dante. Pago il quotidiano e mi allontano immerso nelle mie nebbie, essendo inseguito, come sempre, dall’edicolante al grido di: “Ehi! Signore.. .si è dimenticato di prendere il giornale! “ (Quando dimenticavo di prendere il resto di diecimila lire, l’inseguimento non avveniva. Tanto meno con il resto di cinquantamila). Guadagno faticosamente, la porta d’ingresso della società. I sorveglianti dentro la guardiola, come al solito, prima del: “Buongiorno dottore!“ mettono istintivamente mano alla pistola. Non so dare loro torto. 

Infatti, la prima occhiata allo specchio del bagno al pianterreno mi restituisce l’immagine di uno zombie sgualcito, con gli occhi rossi e gonfi di sonno e la barba lunga. Corro (si fa per dire) al distributore del caffè con il pieno di gettoni. Mi sparo in gola due caffè forti e ristretti in rapida successione, con un uno-due micidiale (per la pressione.). Ascolto i rumori interni del mio corpo. Mi pare di sentire l’onda nera del caffè bollente che scorre sfrigolando nelle vene strizzando impietosa nervi e cervello. Comincio a connettere. Ora finalmente so, con buona approssimazione, chi sono, da dove vengo, dove sono e cosa sono venuto a fare. 

Malgrado ciò resterò per tutto il giorno una presenza spettrale che scivola lungo corridoi moquettati mentre colleghi pimpanti e ricaricati dal week-end ti sollecitano con mille questioni di lavoro che il tuo cervello si rifiuta di registrare. Un numero infinito di possibili figure da rincretinito mi attenderà al varco durante la giornata, fino al dramma finale: l'irrefrenabile abbiocco postprandiale che sopraggiungerà puntuale a cavallo tra le 14.30 e le 15.00 (e malgrado tutti i tentativi disperati per tenere aperte le palpebre…) nel bel mezzo di una riunione di lavoro e alla presenza dell’Amministratore Delegato. Tale sgradevole situazione, che alla fine farà di me una curiosa leggenda aziendale, trae origine da una ben precisa causa. Infatti, dal settembre del 1990, essendo entrato a far parte di Isvor Fiat, l'università interna del Gruppo che erogava formazione e consulenza in tutto il mondo, sono stato costretto a servirmi con cadenza settimanale dell’unico mezzo possibile per il mio andirivieni con Torino: il treno. E questo perché non era cosa salutare e tantomeno conveniente affrontare ogni settimana ottocentoquarantasei chilometri (scritto per esteso fa più impressione...) d’autostrada trafficata e nebbiosa. Né in automobile, né tantomeno in bicicletta come avrebbe voluto mia moglie, perché mi avrebbe fatto tanto bene. Così, facendo di necessità virtù e confidando ingenuamente nel fatto che un paese civile non potesse che disporre di servizi di trasporto pubblico degni di questo nome, ho cominciato la mia odissea ferroviaria pluriennale che cercherò ora di raccontare.


Nessuna illusione, il tuo treno è quello a destra...

Agli inizi ero costretto per l’orario di lavoro che si voleva rigorosamente uguale per tutti di ogni ordine e grado a presentarmi in ufficio tra le otto e le nove di mattina. Questo finché una sabauda illuminata (grazie, Daniela) non ha realizzato che provenivo da ben oltre Vercelli (che un sabaudo Novara la guarda con sospetto perché potrebbe essere già Lombardia), dunque potevo avere un orario personalizzato senza creare competizione tra i colleghi ed essere costretto a viaggiare la domenica notte. Quindi, nell'attesa di avere finalmente quel benefit, dopo aver chiamato un taxi appena alla Domenica Sportiva trasmettevano il servizio sull’ippica, partivo da Mestre, dopo aver dato un bacetto a mia moglie e al bambino, un quarto dopo mezzanotte, in mezzo a nugoli di poveracci pendolari come me, con i borsoni carichi di provviste e biancheria per tutta la settimana e gli occhi gonfi di sonno. Sulla pensilina della stazione incontravo di solito un ometto che faceva il carpentiere in Svizzera e che avendo preso confidenza al momento di partire mi diceva invariabilmente: “ Sono sempre i migliori che se ne vanno ! “ e la battuta peggiorava il mio umore in quanto la consideravo di cattivo auspicio, anzi, decisamente jettatoria. Tanto che ormai prevedendo la gufata tenevo le mani in tasca per una fuggevole toccatina scaramantica. 

Il treno, lento come una tradotta della prima guerra mondiale, arrivava cigolando da Trieste già carico d’altra dolente umanità ed altra ne avrebbe raccolta lungo una serie interminabile di fermate (oltre venti, variamente distribuite su di un percorso di 423 chilometri da compiersi in circa sette ore, alla formidabile velocità di 60,02 Km/ora). “ Quel lungo treno che andava al confine...” cantavano mestamente gli alpini durante la prima guerra mondiale e a volte sembrava davvero di esserci a bordo. Ricordo che una gelida notte d’inverno, mentre saltellavamo lungo la pensilina per non congelarci i piedi, l’altoparlante della stazione gracchiò: “Si dà avviso ai signori passeggeri che, causa neve, il treno 648 da Trieste per Torino viaggia con 120 minuti di ritardo” perché i ritardi si annunciano sempre in minuti, così la gente non comprende subito che si tratta di due ore e s’incazza di meno. Subito dopo, evidentemente convinto di aver spento il microfono, l’annunciatore canticchiò: “ Deèvi morire...” e mai commento apparve più appropriato. Anzi, qualcuno propose che tale ritornello da stadio fosse assunto al rango d’inno ufficiale delle nostre ferrovie. Ma, per fortuna, ritardi di tal entità erano abbastanza rari. La media di solito si aggirava sui venti minuti. Che era pur sempre una gran schifezza di servizio, ma insomma... 

In ogni modo, in quegli anni avventurati, vinta la solita breve colluttazione per salire a bordo prendevo necessariamente posto sull’unico (!) vagone di prima classe disponibile: una Sleeperette. Qualora uno si chiedesse perché all’epoca non pigliassi posto nel vagone cuccette, lo tranquillizzo subito. Non sono uno sprovveduto a tal punto. Era solo perché all’epoca le nostre Ferrovie non prevedevano un vagone cuccette su di un treno che viaggiava dalle dieci di sera alle sette del mattino. Anzi, il vagone cuccette inizialmente c’era, ma poi l’avevano tolto per metterlo sul treno precedente che però partiva alle cinque del pomeriggio dunque al massimo si sarebbe usato per un sonnellino. Avevo chiesto spiegazioni ma nessuno sapeva dirti il perché e ti guardavano sospettosi come se avessi voluto sapere troppe cose. Probabilmente era uno dei segreti dei cavalieri templari. 

“Va bene, ma che cos'è una Sleeperette ?” si chiederà l’ignaro lettore, cui la vita ha finora risparmiato simili crudeli esperienze. Occorre sapere allora che si tratta di uno speciale vagone ferroviario tipo pullman, con i sedili reclinabili, progettato, da quel che si capisce, da qualche nemico dell’umanità. Infatti, a prima vista, lo scopo apparente della Sleeperette sembrerebbe quello di consentirti di effettuare un comodo viaggio notturno, immerso piacevolmente nel sonno. Niente di più sbagliato. Questo che segue è il racconto come si viaggia realmente in una Sleeperette.


La Sleeperette, l'incubo delle mie notti di viaggio.

Già il primo impatto all’ingresso nel vagone lascia sgomenti: l’aria è soffocante e il tanfo di piedi e ascelle sudate che si è formato nelle due ore di viaggio lungo la tratta da Trieste prende alla gola come i gas austriaci sul Carso. Nell’oscurità, rischiarata solo dalle luci esterne della stazione, cerchi di individuare rapidamente un sedile libero che raggiungerai inciampando e sbattendo su teste reclinate, gambe e borse, avendo solo qualche calzino bianco (c'è sempre un viaggiatore che fortunatamente li indossa...) come punto di riferimento. Raggiunto il tuo posto guarderai perplesso lo schienale del sedile che ti precede nella fila e ti chiederai il perché della sua curiosa (e minacciosa) forma a cuneo pronunciato, dei suoi spigoli e zigrinature e del piccolo scanso ricavato nella sua parte superiore. Ma non ci sarà bisogno di risposta. Lo capirai, infatti, da solo non appena avrai trovato il pulsante (durissimo e accuratamente nascosto) di ribaltamento del sedile. Perché, nello stesso istante in cui ti sentirai catapultare all’indietro con violenza, sentirai anche alle tue spalle un urlo atroce, seguito da uno scroscio d'acqua e scoprirai che il cuneo del tuo sedile ha straziato le carni e le tibie del poveraccio sul sedile dietro, intanto che dal piccolo scanso portaoggetti la sua mezza bottiglia di minerale gli era scaraventata in pieno petto. Infatti, a sedile davanti reclinato, il cuneo consente unicamente di sedersi incastrandosi con le gambe divaricate in posa ginecologica nell'esiguo spazio lasciato libero e dopo contorsioni da fachiro indiano. E questo senza alcuna plausibile ragione che non sia il puro sadismo.

La particolare e innaturale postura cui era costretto il corpo del viaggiatore appariva studiata appositamente per provocare un accartocciamento generale delle membra (i cui effetti anchilosanti si sarebbero protratti per diverse ore) e un progressivo informicolamento di tutta la parte inferiore del corpo, con perdita della sensibilità dai piedi fino al basso ventre e relative ansie per la virilità. 
In ogni caso, non appena il treno si sarà mosso, pur con il cuore attraversato dal timore di avere a tua volta le gambe maciullate da un improvviso reclinamento del sedile davanti (il reclinamento dei sedili è, tra l’altro, sostanzialmente irreversibile, perciò nelle tue fantasie t’immagini già i pompieri al lavoro con la fiamma ossidrica per liberarti...), cercherai di prendere sonno. Ma ti accorgerai ben presto che i tuoi sessanta compagni di viaggio rappresentano un campionario eccellente di tutte le tendenze alla moda nel russare. In pratica, dal pop alla new age e fino all’heavy metal, compreso il rapper che parla nel sonno. Con la disperazione nel cuore, ma cercando cocciutamente di assopirti, anziché contare stupide pecore, proverai quindi a catalogare tutti i tipi di russamento presenti: a trombetta, a sega elettrica, allegro con brio, sussultorio, petillànt, a sibilo con ruggito finale etc. Ciascuna di tali emissioni sonore sarà naturalmente tarata in intensità per essere in grado di passare lo sbarramento dei tappi in cera per le orecchie. Questo qualora pensassi di fare il furbo.


Si avvisano i signori passeggeri... (e vai con i 120 minuti di ritardo)

Inoltre, scoprirai che da una qualche parte del finestrino apparentemente chiuso promana uno spiffero ghiacciato inarrestabile che di lì a poco ti lascerà un leggero strato di brina sul loden messo a vana difesa a mo’ di coperta, garantendoti un commovente look da:“Vedetta alpina sulle Tofane, 1917”, oltre ad un robusto torcicollo. Non appena, nonostante l’ambiente ostile, ti sarai finalmente assopito, arriveranno i controllori. I quali hanno due stili d’approccio al controllo dei biglietti: o ti puntano una pila elettrica sugli occhi strattonandoti energicamente la spalla in stile: Distretto di Polizia di Chicago oppure si piazzano in forze ai due estremi del vagone, accendendo di colpo la luce in stile retata della Gestapo. Caratteristica dell’operazione è in ogni modo che, mentre di giorno, se va bene, vedi il controllore una o due volte, il controllo dei biglietti di notte avviene all’incirca ogni venti/trenta minuti. Tanto che all’arrivo il biglietto apparirà orrendamente bucherellato come una fetta d’Emmental.


Di notte li controllano e li perforano almeno venti volte

Nell’intervallo tra un controllo e l’altro, in ogni caso, passano i ladri di valigie. Perché, a quanto pare, in questo nostro avventurato paese persistono ancora reati preindustriali come il furto di valigia che, al pari dell’abigeato, del furto di galline e della vendita del Colosseo al turista americano, le persone civili credevano ormai confinati ai film degli anni '60 con Totò, Peppino de Filippo, Aldo Fabrizi e Memmo Carotenuto. E così, tra i tanti sgradevoli ricordi dei miei viaggi, conservo anche quello di una notte di dicembre quando mi risvegliai dal mio sonno agitato giusto in tempo per vedere - con un tuffo al cuore - che il portapacchi sopra la mia testa era sconsolatamente vuoto. Intuendo così che la mia borsa aveva preso il volo tra le stazioni di Brescia e Rovato e che con lei se n’erano partiti : 

1- n. 5 paia di camicie (un po’ lise) 
2- n. 5 paia di mutande 
3- n. 5 paia di calzini abbastanza assortiti (due calzini blu erano spaiati...) 
4- n. 1 contenitore contenente hamburger con cipolla stufata (mia cena del lunedì) 
5- n. 1 scatola biscotti del Mulino Bianco (con due punti regalo !) 
6- n. 1 bottiglia birra Dreher formato famiglia (vedi anche punto n. 4) 

Naturalmente il mio dolore più vivo nell’occasione riguardò la sparizione dell’hamburger con le cipolle, e per il resto mi rassegnai ben presto (e fu anzi una buona scusa per convincere mia moglie a rinnovare il parco camicie...). Però, dal momento che, a detta del Capotreno, la cosa succedeva quasi tutte le notti, mi chiedo ancora oggi quale pirla di ladro fosse così sprovveduto da pensare di trovare mirabolanti ricchezze sopra un treno di poveri pendolari. A meno che non esista da qualche parte un misterioso racket del calzino usato disposto a pagare cifre spropositate per un pedalino bucato.

Il furto della valigia fu in ogni caso la goccia che fece traboccare il vaso e decisi pertanto che, in ogni caso, non potevo più viaggiare in quel modo, correndo quei rischi. Anche perché ogni volta che lo incrociavo in ascensore il nostro Grande Capo Megagalattico, tanto per rinfrancarmi il morale, dopo avermi guardato con l'espressione di chi è sorpreso di rivederti, mi diceva: “A lei, prima o poi, l'accoltellano...” come se avessi viaggiato per mio diletto e non per la sua azienda. E la cosa, oltre a farmi girare le scatole, mi aveva messo una pulce nell’orecchio. Così, dopo un attento studio degli orari ferroviari, decisi che, sacrificando la cena a casa e i servizi sulle partite, potevo tentare di prendere un treno per Milano in partenza alle 20.30 della domenica ed in coincidenza con l’ultimo treno utile per Torino, che partiva dieci minuti dopo la mezzanotte per arrivare a destinazione poco prima delle due e concedendomi almeno cinque ore di sonno ristoratore nel mio letto sabaudo. Il rischio era che, se per caso avessi sforato la coincidenza, sarei dovuto restare fermo in stazione a Milano fino alle quattro e mezza del mattino, nell’attesa del treno successivo, che era quello solito con la Sleeperette. In ogni caso il rischio appariva ragionevole, in quanto vi era più di mezzora di margine. Che per delle ferrovie di un paese civile ed europeo (insisto...) avrebbe dovuto essere un lasso di tempo di tutta sicurezza. Ma come andò a finire quella notte, lo vedremo nella prossima puntata...

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