Chi ha bazzicato da ventenne gli anni settanta probabilmente ricorderà che frammisti al magma ribollente delle lotte politiche, dei cortei per il Vietnam e delle occupazioni, dei nuovi stili di vita, della questione femminile che avanzava, di Woodstock, del profumo del patchouli e delle prime canne, assieme ai pantaloni a zampa di elefante per lui e alle gonne da zingara lunghe e a fiori per lei c'erano due punti fermi: noi ragazzi volevamo andare in India e loro, le nostre ragazze, volevano andare in Inghilterra.
Sfortunatamente, in quel periodo i nostri sogni di viaggio in India sulle orme dei Beatles, del suono del sitar, del curry, del pollo tandoori e dei santoni alla Sai Baba rimasero solo esercizi teorici e velleitari. Erano bolle di sapone lievi e dai mille colori (come se fossero uscite da Lucy in the sky with diamonds) che scoppiavano di fronte alla prima difficoltà. Il guaio era invece che le nostre ragazze, quando volevano andare in Inghilterra, visto che il viaggio era molto più comodo consistendo in un’oretta di volo, beh... loro ci andavano davvero.
Noi sognavamo innocentemente, quindi, ma le nostre ragazze al solito erano molto più concrete.
La sera dopo la mancata partenza per il nostro viaggio, accuratamente pianificato dopo un mese di riunioni all'osteria da Codroma, con il tavolo ingombro di carte geografiche, bicchieri di vino e cicchetti, per l’improvviso voltafaccia dei compagni d’avventura automuniti che improvvisamente avevano preferito optare per un viaggio a Capo Nord, chiamai Donatella, la mia ragazza dell'epoca già nota a queste cronache, per sapere se aveva voglia di prendere un gelato (e magari darmi anche un po' di conforto spirituale e possibilmente anche non). Lei fu molto laconica e mi rispose che accettava di uscire, ma che la dovevo andare a prendere a casa (in quei giorni, visto che io avrei dovuto partire, stava dai suoi), richiesta che m’insospettì alquanto, visto che era inconsueta e quindi doveva celare qualche insidia. Infatti, appena aprì la porta di casa notai che aveva stampato sul viso quel sorrisetto teso di quando aveva qualcosa di importante da dirmi anche se il primo approccio fu la presa in giro che aspettavo.
“Buonasera, amore mio… ma da dove spunti? Secondo il piano di viaggio, non dovresti essere già a Bucarest a quest’ora? Che ci fai qui da me? In Romania hanno finito i gelati o avete già finito i soldi?”
Senza raccogliere la provocazione, le spiegai tutto l’accaduto, il tradimento degli amici che avevano optato per l'autostrada comoda fino a Capo Nord e gli ostelli confortevoli (e, temo, le case di tolleranza dei paesi nordici) preferendoli incredibilmente al brivido del passaggio per le mulattiere scoscese del Khyber Pass e all’avventura delle notti nei sacchi a pelo, stretti accanto al fuoco in qualche prateria del Punjab, tra tigri e cobra e, di conseguenza, la conseguente mia sdegnata rinuncia. Così, alla fine lei disse: “Beh… mi dispiace per te che ci tenevi tanto al tuo viaggio in India... però, non mi guardare male, ma avrei preferito che invece di mandarli a quel paese fossi andato a Capo Nord con i tuoi amici, così almeno non ti annoiavi e non saresti rimasto da solo”
La guardai sorpreso. “Perché da solo? Ci sei tu, no?”
“No… non ci sarò. Siccome tu mi avevi detto che saresti stato in viaggio per almeno un mese, ne ho approfittato per iscrivermi ad un corso d’inglese a Bournemouth che desideravo tanto fare e così parto lunedì.”
“Ah… quindi starai in Inghilterra per un mese anche tu?”.
“No, sono tre mesi.. il corso a cui mi sono iscritta è trimestrale.”.
Il colpo era durissimo e cercai una mossa della disperazione.
"Ovviamente, visto che non parto più, non puoi rinviare la partenza vero? Neanche se ti dico che potremmo andare in Istria per una settimana noi due da soli?"
"Ovviamente no... anche perché si è mosso mio padre per questo e lo sai che quando si muove lui è come quando si muove la regina a scacchi e tu hai solo pezzi leggeri: non c'è partita. Ma non fare quella faccetta delusa, prendila dal lato giusto. In fondo ora, senza di me, potrai andare a vedere le partite del Venezia con i tuoi amici anche in trasferta..."
La guardai sorpreso per quella proposta che rivelava la sua grassa ignoranza sportiva.
"Ma quali partite? Il campionato è finito da un mese e riprende a fine agosto..."
"Vabbè, e che sarà mai? Se non gioca il Venezia, non è che crolla il mondo. In fondo puoi andare in spiaggia, fare le ore piccole in campo a parlare di politica, girare la laguna in barca e puoi anche fare le partitelle di calcio con i tuoi amici, non sei contento?"
"Ovviamente no..."
"Altrimenti puoi sempre preparare un paio di esami per la sessione autunnale, che non ti farebbe male. Preferisci questo?"
"Ovviamente no."
Quella sera non presi più il gelato perché mi era passata la voglia e lei, che forse un po' si sentiva in colpa, aprì una bottiglia del prezioso Glenfiddich di suo padre per riempirmene un bel bicchiere e ridare un po' di colorito al mio viso improvvisamente esangue.
Riflettendo meglio nei giorni successivi considerai che, al di là del modo con cui mi veniva imposto, il fatto in sé non era del tutto negativo perché, malgrado fosse un sacrificio stare senza la mia compagna per tre mesi, poteva essere utile ad entrambe per ritrovare gli stimoli perduti, visto che da qualche tempo il nostro rapporto si stava trasformando in routine e la cosa non prometteva bene.
Così, venti giorni dopo ero con i suoi genitori a salutarla in aeroporto. Prima che passasse il cancello del volo l’abbracciai e le dissi scherzando: “Fai la brava...”.
Lei rispose “Perché dovrei?” poi sorrise maliziosa e mi fece il segno delle corna agitandomele davanti agli occhi.
Mi misi a ridere, la baciai, poi le bisbigliai a mezza voce: “Guarda che so benissimo che sei una zoccoletta, non c’è bisogno che me lo ricordi. Ma non farlo sapere agli inglesi”.
Lei rise a sua volta, forse perché sapeva che avevo ragione, poi mi girai e vidi sua madre bianca in volto. Aveva sentito e non aveva riso affatto.
In seguito, non avendo proprio l’umore giusto, con una scusa rifiutai il passaggio di ritorno dei suoi genitori e rientrai a Piazzale Roma con l’autobus. Decisi di andare a piedi fino all’Arsenale per farmi sbollire i cattivi pensieri, anche se il cielo, per una strana sintonia con il mio umore, si era incupito di colpo e aveva cominciato a piovigginare.
Non avendo voglia di incontrare gente e volendo stare solo con le mie riflessioni, lasciai la confusione di Strada Nuova e me ne andai per le “sconte”, come i veri veneziani. Strada facendo per calli e ponti ripensavo alla profezia di mia madre su chi assaggia il dolce vino del tradimento che poi ne vorrà bere ancora e così l’angoscia che potesse succedere davvero durante il soggiorno inglese di Donatella mi fece sentire un improvviso senso di gelo nello stomaco. Provai a prendere un caffè, per vedere se mi passava, ma non fu una buona idea, perché quel senso di oppressione aumentava passo dopo passo, tanto che ad un certo punto mi venne una nausea fortissima. Sentii i sudori freddi, vidi tutto diventare blu ed ebbi appena il tempo di appoggiarmi alla balaustra della fondamenta per riprendere fiato e far passare quel malessere.
Dovevo essere talmente messo male che una signora anziana che aveva visto la scena mi avvicinò premurosa per sapere come stessi e poi, anche se tentavo di farle capire che non era il caso e che stavo meglio, volle a tutti i costi portarmi in un bar a prendere una camomilla per aggiustare lo stomaco.
Alla fine, anche se era una perfetta sconosciuta, poiché un nobiluomo muore ma non tace, le raccontai tutto e lei mi rassicurò con una serie di luoghi comuni sull’amore che almeno mi rasserenarono. Le offrii volentieri una tazza di cioccolata.
Da quando avevo visto Donatella imbarcarsi al Marco Polo erano passate almeno tre ore e mezza. Così, come aprii la porta di casa vidi la lucina della segreteria telefonica che lampeggiava. Era lei che aveva già chiamato da Luton per dirmi che il volo era andato benissimo ed era arrivato in perfetto orario e a me fece impressione sapere che aveva fatto prima lei ad andare a Londra di me che dovevo tornare a casa.
La sera, dopo aver comperato dalla tabaccaia giù dal Ponte di San Martino, che teneva anche robe di cartoleria, un bel cartoncino bristol, un righello e dei pennarelli, creai un tabellone molto grazioso graficamente dove riportavo in allegri cerchietti colorati tutti i 92 giorni che mi separavano dal ritorno di Donatella. Poi lo appesi con lo scotch in camera da letto nello spazio tra le due finestre e smarcai soddisfatto il primo giorno. Me ne mancavano novantuno, è vero, ma intanto il primo era già alle spalle.
I primi giorni, in ogni caso, si rivelarono molto meno duri di quanto temessi, anche se all’inizio m’intristiva apparecchiare la tavola solo per me e soprattutto sentire il suo cuscino freddo accanto al mio. Non avevo alcuna voglia di fare la spesa e neppure di cucinare e dunque aprivo la scatoletta di tonno o mi portavo a casa qualche tramezzino. Per fortuna, realizzai presto che se con la mia compagna lontana ci stavo male, però almeno non avevo più orari e regole. Potevo stare a discutere con gli amici fino a tardi e potevo anche invitarli a casa mia per il bicchierino della staffa senza chiedere il permesso a nessuno. Dunque, dopo due anni di proibizionismo, iniziai di nuovo a rifornire il carrello dei liquori. Ero libero di mangiare quel che volevo e quando lo volevo, come un panino con la mortadella alle undici di sera, da buttar giù con un bicchiere raso di Merlot. L’ideale per qualche vecchio film giallo in televisione.
Di seguito avevo riscoperto la bellezza di sgranocchiare grissini a letto leggendo un bel libro sino a notte fonda, senza nessuna che protestasse per le briciole o per la luce accesa. Inoltre, dopo aver gettato il suo cuscino in armadio tra le palline di canfora, come rappresaglia per il trattamento riservato alle mie pipe, avevo realizzato di poter finalmente dormire di traverso e scalciare via le lenzuola senza che qualcuna si lamentasse di aver freddo. Potevo anche fumare le miscele più pestifere senza aprire le finestre, suonare la chitarra acustica con l'armonica e cantare a squarciagola le canzoni di Neil Young senza nessuna che trovasse da ridire, a parte la signora Zambon del piano di sotto che batteva il tempo con la scopa sul soffitto.
Insomma, questa era la vita che rientrava alla base.
Siccome poi i vecchi compagni di scuola e gli amici servono sempre, dopo una convocazione telefonica per una spaghettata “alla brutta” a casa mia, si era messo subito in moto il meccanismo della solidarietà maschile e così mi avevano invitato a qualche partitella di calcio in amicizia (e nella scatola degli scarpini bullonati avevo finalmente ritrovato una delle pipe mancanti, la costosissima Charatan).
Dopo una settimana finalmente arrivò la prima lettera di Donatella da Bournemouth. Due pagine fitte, con tanto di carta intestata dell’Università e francobollo della Regina Elisabetta sulla busta a righe rosse e blu dell’Air Mail. Constatato che, per fortuna, la lettera iniziava con un vistoso “Amore mio adorato” prima di iniziare a leggerla mi versai due dita di Laphroaig e mi sedetti comodo sul divano per assaporarla meglio. A parte tutta una serie di sue tipiche lamentazioni che m’interessavano poco sul cibo orrido, le stanze spartane, i bagni in comune e la poca acqua calda il testo conteneva descrizioni d’ambiente scontate e informazioni varie su docenti, studenti e i pub più in voga. Tutta roba archiviabile nel faldone: "Interessa una beata cippa".
Un testo modesto e francamente deludente nello stile e nei contenuti, a riprova che la prossima laurea in lettere non le garantiva affatto di scrivere in modo interessante per il lettore. Per fortuna la lettera si chiudeva con un: “Mi manchi! Mi manchi! Mi manchiiiii!!!” sicuramente molto infantile, ma che mi mise di buonumore e pensai di essere un ragazzo fortunato.
La settimana seguente arrivò una cartolina da Stratford on Avon dove però i “Mi manchi!” erano diventati uno solo, così come i punti esclamativi. Immaginai che fosse per risparmiare sulla tariffa postale.
Un mese dopo giunse una nuova lettera che ne era priva del tutto e mi parlava per una striminzita paginetta e mezza di gite nella New Forest, di tali Gus e Columba, due amiconi simpaticissimi (per me dal nome idiota, ma pazienza) che suonavano la chitarra da dio (perché, io no?) davanti al fuoco dei falò. Mi dichiarava di aver compreso finalmente quanto fosse piccola e provinciale Venezia (ma va in mona...) e sottolineava quanto al contrario li fosse tutto bello, ordinato, preciso e pulito, con particolare e insistito riferimento alle cabine telefoniche laccate di rosso, che dovevano averla impressionata decisamente. Un compitino tirato via in stile: “Racconta le tue vacanze” e che sembrava fatto apposta per irritarmi, anche per via di quel “baci” messo in calce alla lettera che dava la stessa emozione di un rogito notarile. Ormai in preda alle malinconie avevo anche provato a telefonarle, ma il numero che mi aveva dato sua madre risultava essere quello di un fax.
Dopo varie ricerche, grazie all'operatore del servizio chiamate internazionali della SIP avevo trovato il numero giusto ma il centralinista del college, in onore della perfida Albione, mi aveva tenuto in linea per un quarto d'ora prima di dirmi che non sapeva chi fosse la persona che cercavo. Siccome non aveva capito una mazza del suo cognome, gli avevo fatto lo spelling ed era partito un nuovo quarto d'ora di ricerche interrotto solo da qualche “Just a moment...” e concluso alla fine mettendomi in linea con una tizia sconosciuta che sì, sapeva chi fosse Donatella, ma non era in stanza e non la si poteva rintracciare perché era andata nuovamente in gita nella New Forest con quel tizio di nome Columba e altri amici e dopo un rapido “So sorry!” mi riagganciò sbrigativamente sul muso. Mancava solo il: “Ritenta, sarai più fortunato”. Anzi, il “Try again, you will be luckier”. Ma come andò a finire e le vicende tragicomiche del suo ritorno, magari vi racconto tutto la prossima volta...
Molto interessante.
RispondiEliminaAttendo la prossima puntata.
Ero a Londra nel luglio 1971 con mio cugino e mi ricordo di una certa Donatella che incontrammo una sera...
Grazie, carissimo, mi fa piacere rivederti su questo mio blog e sono contento che il mio racconto giovanile ti sia piaciuto. Però ti devo deludere: Donatella è ovviamente uno pseudonimo (Venezia, fin dai tempi di Carlo Goldoni è una città piccolina e pettegola...) perché la mia ragazza di allora non si chiamava così. So sorry, per restare in clima inglese :)
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