Donatella rientrò alla base la sera di quattro giorni dopo, senza alcun preavviso, come immaginavo sarebbe successo perché i suoi tempi di ritorno alla normalità dopo una litigata a brutto muso erano più o meno quelli. Rientravo da Ferrara dove ero andato a parlare con il relatore della mia tesi che, con rara cortesia baronale, dopo avermi dato appuntamento nel suo studio per le tre di pomeriggio mi aveva fatto ricevere dal suo assistente, che nemmeno sapeva il perché io fossi lì, verso le cinque e mezza e senza neppure chiedermi scusa. Alcuni mesi prima, infatti, mi ero iscritto a quella università perché ormai mi mancavano solo quei tre maledetti esami che non avevo potuto dare a Padova per la faccenda del mio “sequestro maldestro” e in azione solitaria del Preside di Facoltà, che, in un impeto di sdegno per tanta ingiustizia, avevo chiuso a chiave nel suo ufficio dicendogli rabbiosamente che non saremmo usciti di lì se non mi metteva la firma sul libretto per sostenere l'esame, cosa a cui avevo diritto visto che avevo frequentato tutte le lezioni pomeridiane del suo assistente, anche se a lui il mio nome non risultava sull'elenco dei partecipanti (chissà come l'avevano scritto).
Sfortunatamente, essendo di natura molto distratto, non avevo notato che dietro alla sua scrivania c'era una seconda porta da cui lui, dopo aver suonato un campanello, fece entrare il bidello ordinandogli di accompagnare fuori immediatamente quello studente di cui si era già segnato il nome. Cosa questa che in seguito, evitate per un pelo la denuncia penale e altri provvedimenti disciplinari, mi aveva suggerito di lasciare la facoltà padovana considerato che uno degli esami mancanti era proprio il suo e probabilmente ancora oggi starei cercando di passarlo.
Purtroppo, lasciando Padova, era finito anche il benefit dell'appartamento dove i primi due anni in cui stavamo assieme, Donatella ed io avevamo gradualmente iniziato a convivere, dapprima in gran segreto, perché in quegli anni la cosa avrebbe dato grande scandalo e la sua famiglia era molto conosciuta a Venezia. Ufficialmente in quell'appartamento io abitavo con Roberto, il figlio di un ammiraglio collega di corso di mio padre e la cui madre era molto amica della mia. Ma lui stava in casa con me a fare finta di studiare o a fare gare di flipper al bar di fronte dal lunedì al giovedì, poi se ne tornava dai suoi a Livorno o se ne andava dalla sua ragazza e così Donatella che frequentava Lettere al Liviano poteva raggiungermi (i suoi genitori, due belle persone a cui ho voluto bene venendo ricambiato, lo sapevano e finché la cosa non fosse diventata di pubblico dominio costringendoli ad intervenire, ce lo permettevano). Per fortuna, la madre di Donatella aveva un'amica proprietaria di non so quanti appartamenti a Venezia che, garantendole che appena laureati sua figlia ed io ci saremmo sposati, dopo qualche mese, pur con qualche riluttanza, ci aveva affittato ad un prezzo di grande favore un minuscolo appartamentino in zona Arsenale dove ora continuavamo a stare insieme e che è quello nella foto qui sotto, molto "minimalista" nell'arredo per ovvie questioni di budget, anche se il tavolo con i cavalletti e l'impianto stereo li ho ancora in uso nel mio attuale studio, cinquant'anni dopo.
L'appartamento di due stanze con cucina e vista sui tetti della Bragora |
Comunque, quella sera aprii la porta di casa con le mani ingombre dalle borse della spesa e lei si era nascosta in agguato dietro l’angolo del corridoio, così dopo aver rischiato l’infarto per la paura me la trovai abbracciata a baciarmi. Mentre l’abbracciavo, mi accorsi quanto fosse diventata bella soda, anzi, per dirla tutta, piuttosto pienotta. Durante il nostro tumultuoso incontro in stazione a Milano non avevo avuto modo di notarlo per intuibili motivi.
Quando una gatta ti salta addosso per cavarti la pelle ad unghiate non è che stai a guardare di che colore abbia il mantello. Ora invece capivo che la scoperta del burro salato inglese da spalmare sul pane, della marmellata di arance e delle uova con il bacon aveva prodotto i suoi effetti.
Ad occhio e croce, almeno un sette o otto chili di effetti.
Immaginai subito che le sue prossime parole, dopo i convenevoli, sarebbero state: “Tu ed io dobbiamo metterci a dieta” che non si capisce perché per le donne la dieta debba essere un rito di coppia in cui bisogna coinvolgere anche chi non ne ha la minima intenzione. Capisco bene che se io addento un sontuoso panino sgocciolante di (tanto) tonno, pomodoro, maionese, cipolla di Tropea e insalata, mentre tu hai di fronte a te una svizzera rinsecchita alla piastra e scondita, con un mucchietto di carote a julienne e i tuoi bei cinquanta grammi di pane integrale a farle compagnia, la cosa non ti aiuti.
Infatti, essendo di animo sensibile, il mio panino andrei a mangiarlo in cucina, così non vedresti neppure il bel bicchiere di vino bianco fresco con cui lo manderei giù. Però non capisco perché, a parte gli aspetti logistici nel cucinare cose differenti per alimentazioni diverse, io debba esserne coinvolto se non ne avverto l’esigenza. Questo perché le calorie di quel panino al tonno, poi io le brucerei con un paio di partite a calcio con gli amici, più efficaci che non andare per negozi di scarpe.
La risposta al quesito era: “Per solidarietà” che poi diversi anni dopo sarebbe stata la stessa motivazione di mia moglie per svegliarmi brutalmente nel cuore nella notte quando doveva allattare al seno nostro figlio, anche se il mio ruolo era ovviamente molto marginale.
Comunque, terminati gli abbracci e i baci con l'atteso: “Hai visto che sono tornata, nonostante il tuo vergognoso comportamento a Milano? ” e il mio “Ma tua madre, le ha poi ritrovate le parole?” mi accompagnò tenendomi per mano verso la tavola del salotto, ben apparecchiata, con al centro la zuppiera del servizio buono. Così, alzando il coperchio ebbi modo di scoprire la seconda sorpresa di quella serata, cucinata amorevolmente per me con le sue manine sante. Immaginai subito l’ avesse fatta su suggerimento di sua madre che era tanto se sapeva cucinare un uovo sodo (e non a caso durante le nostre uscite in barca a vela, suo padre mi aveva nominato anche cuoco di bordo). La zuppiera conteneva una minestrina con la stracciatella ormai tiepida perché l’aveva versata mezzora prima. Però in tavola c’era il formaggio grana grattugiato da lei in persona (che non si pensi che non sapesse cucinare).
All'epoca dei fatti. |
Ora, nelle mie borse della spesa c’erano le confezioni delle seppie in umido e del baccalà mantecato che avevo comperato alla rosticceria Gislon in Calle della Bissa, ma non ebbi il coraggio di confessarglielo e le abbandonai malinconicamente in cucina sperando in tempi migliori (magari un bello spuntino di mezzanotte in salotto mentre lei dorme ignara e davanti ad un’asta di tappeti in televisione o alla replica di Colpo Grosso).
Mentre deglutivo la minestrina, che era decente anche se chiaramente fatta con il dado Star (però messo in acqua con sapienza al momento giusto) lei mi guardò sospettosa, poi mi chiese: “Amore, a proposito... ho visto che, tanto per cambiare, non avevi rifatto il letto e ci ho pensato io, ma sono diventata matta a cercare il mio cuscino. Sai dove è finito?” .
Mi andò per traverso l'ultima cucchiaiata di brodo, perché mi ero scordato di rimetterlo a posto dall'armadio dove l'avevo scaraventato per rappresaglia tre mesi prima. Siccome con le mie donne sono sempre stato sincero, appena ebbi finito di tossire le rivelai il nascondiglio. Lei corse subito a vedere nell’armadio, strillò inorridita come mi aspettavo e quella notte mi toccò dormire senza cuscino (che ti fa bene alle cervicali), mentre lei poggiava la sua testolina sul mio e il suo era appeso fuori dalla finestra ad arieggiarsi da quel profumo di canfora. E questo piccolo incidente, fu, con il senno di poi, come la pallina di neve che inizia a rotolare lungo il pendio diventando poi una valanga (segue...).
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