lunedì 21 dicembre 2020

Quelli che dopo aver visto il film: "Eutanasia di un amore" poi se lo girano pure loro


Qualche giorno dopo, ritrovata una certa tranquillità anche se qualcosa dentro di me mi faceva percepire una strana tensione che aleggiava nell’aria, appena finito di cenare lei iniziò improvvisamente a raccontarmi nel dettaglio i suoi tre mesi di esperienza inglese, come se dopo molto meditare avesse deciso di rompere gli indugi, forse spiazzata dal fatto che avevo deciso di non chiederle niente e, casomai ci fosse stata qualcosa che avrei dovuto sapere, di attendere che me ne parlasse lei. Però iniziò il racconto con una domanda rivolta a me che mi lasciò perplesso: “Allora, non sei curioso di sapere di Columba?” 
"No, francamente non m’importa nulla di colombe, piccioni e pennuti vari britannici, anche se questo tizio compariva spesso nelle tue poche lettere, ma visto che a quanto pare ci tieni a parlarmi di lui, ti ascolto, anche se ti ricordo che excusatio non petita…” 
Stai tranquillo, te ne parlo solo perché immaginavo che avresti fatto il geloso come stai facendo, ma ti garantisco che era un Columba di nome e di fatto. Un ragazzone timido, imbranato e contro ogni tentazione, che tra l’altro si lavava poco e vestiva trasandato. Era solo gentilissimo e un simpatico amico, anche se mi sono accorta subito che mi faceva la corte e mi stava sempre dietro. Ma non c’è stato nulla, puoi chiedere anche a Martina” 
Bene, ma, comunque, pensavo che in questi anni avessi capito che non sono affatto geloso e, anzi, ti dirò che una scappatella vacanziera estiva, di quelle leggere e senza troppo coinvolgimento sentimentale, tipo una botta e via, che finiscono appena si sale in aereo per rientrare a casa, l'avevo messa tra le possibilità e dunque te la potevi anche concedere perché l'avrei accettata, proprio come tu l’hai concessa a me senza fare drammi due anni fa quando suonavo sulle navi da crociera (non era vero, la scenata me l'aveva fatta eccome, quando un'anima bella del nostro complesso le aveva fatto sapere della ragazza canadese) e, dunque, non chiederò niente a Martina, se non per sapere se davvero questo Columba suonava la chitarra meglio di me, che di quello sì che sono geloso…” 
“Te lo posso già dire io… era più bravo. Fattene una ragione…” 

Allargai le braccia rassegnato mentre lei ridacchiava. “Proverò a farmela, anche se mi sarà difficile, ma piuttosto vorrei sapere perché non mi hai detto che avevate preso un appartamento in affitto per conto vostro e non stavate più nel college” 

La mia compagna sbiancò in volto, perché evidentemente non pensava che ne fossi al corrente e si prese qualche secondo per organizzare una risposta “A parte che non era un appartamento ma siamo andate semplicemente da una signora che affittava delle camere con uso cucina, non te l’ho raccontato perché Martina ed io non volevamo che i nostri genitori sapessero che avevamo abbandonato il college dopo il primo mese… ma tu com'è che lo sai?” 
“Te lo dico dopo... ma per quale motivo lo avete fatto e avete abbandonato il corso?”
 
Donatella si prese di nuovo una pausa di qualche istante prima di rispondere. “Perché la vita nel college era molto rigorosa e con orari da caserma, si mangiava male, le nostre stanze erano quelle dell’ostello degli studenti lasciate libere per la pausa estiva ed erano orrende e molto “vissute”, con un lavandino senza l’acqua calda e con il bagno nel corridoio e, soprattutto, il corso di lingua inglese, oltre ad essere di una noia mortale, era frequentato da decine di ragazzi spagnoli, greci e italiani, così che alla fine invece dell’inglese rischiavi di imparare il castigliano o di prendere l’accento romano. Quindi, come ti ho detto, Martina ed io l’abbiamo fatto giurandoci di mantenere il segreto per evitare che i nostri genitori ci richiamassero subito in patria perché volevamo goderci i tre mesi in Inghilterra per intero e fare l'esperienza di vivere da sole all'estero. Tutto qui...” 
“Io, al tuo posto, avrei aggiunto che volevate anche evitare che papà e mamma s’incazzassero come bisce dal momento che avevano pagato il corso un mucchio di soldi perché imparaste l'inglese e non per farvi fare a sbafo una vacanza di tre mesi, ma è un dettaglio. Invece, vediamo se indovini come mai lo so…”
“Te lo ha detto Jacopo, vero?” 
“Già… la tua amica Martina in quanto a mantenere i segreti è una vera tomba, dunque hai rischiato grosso a suggerirmi di chiederle di questo Columba...”
"Ma no, figurati...del resto l'unica tra noi che ha avuto una storiella di qualche giorno con un ragazzo inglese è stata lei..." 
"Bene! Vedo che anche la tua riservatezza è esemplare. Jacopo lo sa?"
"Ovviamente no... e guai a te se glielo dici"
"Tranquilla, non serve che glielo racconti io, perché chiacchierina com'è la tua amica, tra qualche giorno Jacopo lo leggerà da solo sul Gazzettino, o in cronaca o tra gli eventi sportivi, dipende da quante ne ha fatte di scappatelle..."

E che la sua amica fosse davvero ciarliera, soprattutto dopo qualche bicchiere di vino di troppo, ne ebbi la riprova poche sere dopo mentre eravamo a cena a casa di nostri amici comuni e quando una delle ragazze presenti, dopo esserci alzati da tavola per prendere posto in salotto, chiese a Donatella di raccontare del suo viaggio e lei s’intromise dicendole “Dai Donatella, racconta tutto… ma proprio tutto tutto, eh? Altrimenti guarda che se non hai coraggio, lo faccio io…” e mentre la destinataria dell’invito sembrava assai imbarazzata, Martina, malgrado l’occhiataccia di Jacopo perché si desse una calmata, si rivolse a me ridendo “Ma tu sei proprio sicuro che te l’abbia raccontata giusta, Carlo? Ti vedo troppo tranquillo…” e così alla fine l’imbarazzo diventò anche mio. Poi, in realtà, le cronache inglesi “segrete” da raccontare agli amici si rivelarono delle sciocchezze incredibili, tipo il muro di cinta del college scavalcato alle due di notte e con caduta rovinosa perché il portone era già chiuso e, sempre di notte, la vicenda dell’assorbente cambiato d’emergenza dentro una cabina del telefono con un poliziotto di passaggio che era venuto a controllare con la pila. Niente di cui preoccuparsi, insomma. Però, solo in quel momento. 


Venezia è molto romantica, non solo per gli amori, ma anche per i posti in cui lasciarsi


Infatti, mentre ritornavamo a casa, appena attraversato campo San Giacomo dell'Orio, che a quell’ora di notte era deserto, lei si fermò di colpo sorprendendomi con un: “Ti spiace se questa notte vado a dormire dai miei?” e quando io le risposi che per me andava bene, chiedendole però se durante la cena avessi detto qualcosa, senza accorgermene, che l’avesse offesa e di cui dovevo scusarmi, lei scoppiò a piangere improvvisamente nascondendosi il volto tra le mani.

Così, sapendo per esperienza che quel suo tipo di pianto significava: "Allarme rosso e tutti al posto di combattimento per discorso importante in arrivo" ci sedemmo sui gradini del ponte lì vicino e appena asciugate le lacrime venni a sapere che lei, durante i tre mesi di lontananza, tra una serata a tracannare birra al pub e una gita nella New Forest, aveva anche trovato modo di riflettere su di noi e così, al termine delle sue meditazioni, aveva deciso di tornare per qualche tempo a casa dei suoi genitori perché altrimenti né io né lei ci saremmo più laureati, visto che vivendo assieme c’erano sempre tante distrazioni e non si riusciva ad essere concentrati per studiare. Poi, esaurita la parte nobile ed edificante del discorso, affinché mi fosse chiaro che tutto era pensato per il nostro bene, iniziò la sua consueta recriminazione sul fatto che vivere assieme a Padova era un conto, ma farlo a Venezia era diverso perché si sentiva gli occhi di tutti addosso come se fosse una pubblica peccatrice e non parliamo poi di quel che dicevano di lei le amiche di sua madre. Quindi, alla fine, quanto accadeva era anche colpa mia che avevo dovuto abbandonare l’appartamento di Padova per trasferirmi a Ferrara dopo quella stupidata che avevo fatto (in realtà, l’avrei dovuto abbandonare in ogni caso perché il mio compagno di stanza qualche mese prima aveva messa incinta la sua ragazza e, dopo essersi sposato in tutta fretta, si era trasferito a Roma. Dunque, mia madre, che doveva gestire due figli e la nostra casa con la sua pensione di reversibilità, non era più in grado di pagarmi l’affitto intero, che era piuttosto alto) 

Infine, per non farci mancare niente, arrivò anche la considerazione risibile che per recarsi a Padova a seguire le lezioni da casa nostra era costretta a fare un viaggio lunghissimo e scomodo, dovendo cambiare ben due vaporetti per raggiungere Piazzale Roma, mentre stando dai suoi genitori le bastava fare il traghetto con la gondola a San Samuele, scendere a san Tomà e in dieci minuti a piedi era arrivata alla fermata della corriera della Siamic per Piazzale Boschetti. Siccome a quel punto mi era chiaro che il problema non era affatto la laurea da conseguire, ma il nostro rapporto nel suo complesso, le chiesi senza troppi preamboli se aveva senso proseguirlo ancora e quali fossero le sue intenzioni nei miei confronti. Così, avendo toccato come temevo il tasto giusto, iniziarono le consuete litanie del “ho bisogno di prendere una pausa di riflessione perché devo ritrovare me stessa… “ seguito dal classico “nel nostro rapporto diamo tutto per scontato e ci siamo appiattiti nella routine” e fino al “non lo so più cosa voglio da te, da me e da tutto…”. Probabilmente era in arrivo anche il "restiamo buoni amici" ma immagino le ci volesse ancora qualche considerazione vittimistica per giustificarlo. 

A quel punto, siccome in quel tempo si diceva che era meglio una fine terribile di un terrore senza fine, tagliai corto, le diedi un bacio sulla fronte per farla tacere e le dissi “Guarda, allora, visto che non sai cosa fare, decido io per te… la finiamo qui e basta. Ti va?” . 

E nello stesso momento in cui lo dicevo, mi sentii incredibilmente sollevato per quella decisione che probabilmente dentro di me aspettavo da tempo e sono certo lo fosse anche lei, perché annuì con un mezzo sorriso dicendo “Sì, certo, mi pare la cosa migliore…”. 
Così, dopo qualche secondo di sconcerto reciproco per realizzare che ci eravamo davvero lasciati dopo quattro anni e questa volta sul serio, Donatella ed io ci abbracciammo, ci girammo le spalle e ciascuno se ne andò per la sua strada. 




Nei giorni seguenti, mentre io ero in facoltà a Ferrara, lei venne a casa mia a prendere alcune sue cose e i vestiti e alla fine mi lasciò le sue chiavi sul tavolo della cucina. Mi lasciò anche Cristobal, il nostro pesce rosso vinto alle giostre, ma immagino fosse complicato portarselo a casa nella sua boccia di vetro. Dopo alcuni mesi lei si laureò e io andai alla sua festa di laurea, mentre qualche tempo dopo lei, con una scusa che non ricordo, non venne alla mia perché la feci a Ferrara e probabilmente non aveva voglia di mettersi in treno. Poi, l’anno seguente lei iniziò a fare supplenze in giro per il Veneto ed io a lavorare dal momento che la Banca Commerciale Italiana mi aveva incautamente assunto. 

Di lì a poco, tutti e due iniziammo nuovi amori e ci siamo persi di vista, anche se diversi anni fa, già cinquantenni, ci siamo incontrati casualmente a Venezia in Strada Nova e dopo esserci presi assieme uno spritz di rimpatriata raccontandoci divertiti quel che avevamo combinato negli anni seguenti, degli amori andati male (pochi lei, molti io), dei nostri matrimoni andati bene e dei nostri figli bellissimi, prima di salutarci e di riprendere la strada lei mi disse “Mi ha fatto piacere incontrati di nuovo, ma… tu poi hai capito perché noi ci siamo lasciati?” e le ho risposto; “Certo! Perché casa mia ti era scomoda per andare a Padova…” e siamo scoppiati tutti e due a ridere. Poi ci siamo salutati per tornare alle nostre vite e non ci siamo più rivisti, com’è giusto che sia

sabato 19 dicembre 2020

Dei ritorni a sorpresa e dell'incidente del cuscino


Donatella rientrò alla base la sera di quattro giorni dopo, senza alcun preavviso, come immaginavo sarebbe successo perché i suoi tempi di ritorno alla normalità dopo una litigata a brutto muso erano più o meno quelli. Rientravo da Ferrara dove ero andato a parlare con il relatore della mia tesi che, con rara cortesia baronale, dopo avermi dato appuntamento nel suo studio per le tre di pomeriggio mi aveva fatto ricevere dal suo assistente, che nemmeno sapeva il perché io fossi lì, verso le cinque e mezza e senza neppure chiedermi scusa. Alcuni mesi prima, infatti, mi ero iscritto a quella università perché ormai mi mancavano solo quei tre maledetti esami che non avevo potuto dare a Padova per la faccenda del mio “sequestro maldestro” e in azione solitaria del Preside di Facoltà, che, in un impeto di sdegno per tanta ingiustizia, avevo chiuso a chiave nel suo ufficio dicendogli rabbiosamente che non saremmo usciti di lì se non mi metteva la firma sul libretto per sostenere l'esame, cosa a cui avevo diritto visto che avevo frequentato tutte le lezioni pomeridiane del suo assistente, anche se a lui il mio nome non risultava sull'elenco dei partecipanti (chissà come l'avevano scritto). 

Sfortunatamente, essendo di natura molto distratto, non avevo notato che dietro alla sua scrivania c'era una seconda porta da cui lui, dopo aver suonato un campanello, fece entrare il bidello ordinandogli di accompagnare fuori immediatamente quello studente di cui si era già segnato il nome. Cosa questa che in seguito, evitate per un pelo la denuncia penale e altri provvedimenti disciplinari, mi aveva suggerito di lasciare la facoltà padovana considerato che uno degli esami mancanti era proprio il suo e probabilmente ancora oggi starei cercando di passarlo. 

Purtroppo, lasciando Padova, era finito anche il benefit dell'appartamento dove i primi due anni in cui stavamo assieme, Donatella ed io avevamo gradualmente iniziato a convivere, dapprima in gran segreto, perché in quegli anni la cosa avrebbe dato grande scandalo e la sua famiglia era molto conosciuta a Venezia. Ufficialmente in quell'appartamento io abitavo con Roberto, il figlio di un ammiraglio collega di corso di mio padre e la cui madre era molto amica della mia. Ma lui stava in casa con me a fare finta di studiare o a fare gare di flipper al bar di fronte dal lunedì al giovedì, poi se ne tornava dai suoi a Livorno o se ne andava dalla sua ragazza e così Donatella che frequentava Lettere al Liviano poteva raggiungermi (i suoi genitori, due belle persone a cui ho voluto bene venendo ricambiato, lo sapevano e finché la cosa non fosse diventata di pubblico dominio costringendoli ad intervenire, ce lo permettevano). Per fortuna, la madre di Donatella aveva un'amica proprietaria di non so quanti appartamenti a Venezia che, garantendole che appena laureati sua figlia ed io ci saremmo sposati, dopo qualche mese, pur con qualche riluttanza, ci aveva affittato ad un prezzo di grande favore un minuscolo appartamentino in zona Arsenale dove ora continuavamo a stare insieme e che è quello nella foto qui sotto, molto "minimalista"  nell'arredo per ovvie questioni di budget, anche se il tavolo con i cavalletti e l'impianto stereo li ho ancora in uso nel mio attuale studio, cinquant'anni dopo.


L'appartamento di due stanze con cucina e vista sui tetti della Bragora


Comunque, quella sera aprii la porta di casa con le mani ingombre dalle borse della spesa e lei si era nascosta in agguato dietro l’angolo del corridoio, così dopo aver rischiato l’infarto per la paura me la trovai abbracciata a baciarmi. Mentre l’abbracciavo, mi accorsi quanto fosse diventata bella soda, anzi, per dirla tutta, piuttosto pienotta. Durante il nostro tumultuoso incontro in stazione a Milano non avevo avuto modo di notarlo per intuibili motivi. 

Quando una gatta ti salta addosso per cavarti la pelle ad unghiate non è che stai a guardare di che colore abbia il mantello. Ora invece capivo che la scoperta del burro salato inglese da spalmare sul pane, della marmellata di arance e delle uova con il bacon aveva prodotto i suoi effetti. 
Ad occhio e croce, almeno un sette o otto chili di effetti. 

Immaginai subito che le sue prossime parole, dopo i convenevoli, sarebbero state: “Tu ed io dobbiamo metterci a dieta” che non si capisce perché per le donne la dieta debba essere un rito di coppia in cui bisogna coinvolgere anche chi non ne ha la minima intenzione. Capisco bene che se io addento un sontuoso panino sgocciolante di (tanto) tonno, pomodoro, maionese, cipolla di Tropea e insalata, mentre tu hai di fronte a te una svizzera rinsecchita alla piastra e scondita, con un mucchietto di carote a julienne e i tuoi bei cinquanta grammi di pane integrale a farle compagnia, la cosa non ti aiuti. 

Infatti, essendo di animo sensibile, il mio panino andrei a mangiarlo in cucina, così non vedresti neppure il bel bicchiere di vino bianco fresco con cui lo manderei giù. Però non capisco perché, a parte gli aspetti logistici nel cucinare cose differenti per alimentazioni diverse, io debba esserne coinvolto se non ne avverto l’esigenza. Questo perché le calorie di quel panino al tonno, poi io le brucerei con un paio di partite a calcio con gli amici, più efficaci che non andare per negozi di scarpe. 

La risposta al quesito era: “Per solidarietà” che poi diversi anni dopo sarebbe stata la stessa motivazione di mia moglie per svegliarmi brutalmente nel cuore nella notte quando doveva allattare al seno nostro figlio, anche se il mio ruolo era ovviamente molto marginale. 

Comunque, terminati gli abbracci e i baci con l'atteso: “Hai visto che sono tornata, nonostante il tuo vergognoso comportamento a Milano? ” e il mio “Ma tua madre, le ha poi ritrovate le parole?” mi accompagnò tenendomi per mano verso la tavola del salotto, ben apparecchiata, con al centro la zuppiera del servizio buono. Così, alzando il coperchio ebbi modo di scoprire la seconda sorpresa di quella serata, cucinata amorevolmente per me con le sue manine sante. Immaginai subito l’ avesse fatta su suggerimento di sua madre che era tanto se sapeva cucinare un uovo sodo (e non a caso durante le nostre uscite in barca a vela, suo padre mi aveva nominato anche cuoco di bordo). La zuppiera conteneva una minestrina con la stracciatella ormai tiepida perché l’aveva versata mezzora prima. Però in tavola c’era il formaggio grana grattugiato da lei in persona (che non si pensi che non sapesse cucinare). 


All'epoca dei fatti.


Ora, nelle mie borse della spesa c’erano le confezioni delle seppie in umido e del baccalà mantecato che avevo comperato alla rosticceria Gislon in Calle della Bissa, ma non ebbi il coraggio di confessarglielo e le abbandonai malinconicamente in cucina sperando in tempi migliori (magari un bello spuntino di mezzanotte in salotto mentre lei dorme ignara e davanti ad un’asta di tappeti in televisione o alla replica di Colpo Grosso). 

Mentre deglutivo la minestrina, che era decente anche se chiaramente fatta con il dado Star (però messo in acqua con sapienza al momento giusto) lei mi guardò sospettosa, poi mi chiese: “Amore, a proposito... ho visto che, tanto per cambiare, non avevi rifatto il letto e ci ho pensato io, ma sono diventata matta a cercare il mio cuscino. Sai dove è finito?” . 

Mi andò per traverso l'ultima cucchiaiata di brodo, perché mi ero scordato di rimetterlo a posto dall'armadio dove l'avevo scaraventato per rappresaglia tre mesi prima. Siccome con le mie donne sono sempre stato sincero, appena ebbi finito di tossire le rivelai il nascondiglio. Lei corse subito a vedere nell’armadio, strillò inorridita come mi aspettavo e quella notte mi toccò dormire senza cuscino (che ti fa bene alle cervicali), mentre lei poggiava la sua testolina sul mio e il suo era appeso fuori dalla finestra ad arieggiarsi da quel profumo di canfora. E questo piccolo incidente, fu, con il senno di poi, come la pallina di neve che inizia a rotolare lungo il pendio diventando poi una valanga (segue...).

sabato 12 dicembre 2020

Dell'arte di trasformare una tranquilla operazione di rientro in una catastrofe.


Trascorsero i giorni e le settimane di un paio di mesi interminabili. Non l'avevo più sentita, né per lettera, né per telefono e sapevo solo dai suoi che stava bene e mi salutava (ma che gentile!), però tutti i cerchietti con la spunta sul tabellone in camera da letto mi dicevano che stava avvicinandosi finalmente la data del rientro di Donatella, che, infatti, di lì a poco mi chiamò da Bournemouth.

Così, dopo una serie di giustificazioni tipo arrampicata sugli specchi riguardo la sua difficoltà di comunicare (mancava che mi raccontasse che aveva finito i soldi per i francobolli e avrei preferito che mi dicesse che non aveva avuto il tempo e nemmeno la voglia di farsi sentire) venni a sapere che aveva incontrato nel college una simpaticissima ragazza veneziana di nome Martina (le amicizie che faceva lei erano sempre "issime" in qualcosa), con la quale aveva fatto amicizia e che, visto che avrebbero preso lo stesso volo che arrivava a Linate alle nove di sera, mi avrebbe contattato un tale Jacopo, che era il ragazzo di questa tizia, perché ci mettessimo d’accordo e andassimo assieme a Milano a prenderle per scortarle a casa e, immagino, portare i bagagli. Casomai non lo avessi capito, era una precettazione. Dunque, che non mi passasse neppure per l’anticamera del cervello di non essere in aeroporto per il loro arrivo. 

Quando questo ragazzo mi telefonò decidemmo di comune accordo di prendere un bell’Intercity che ci avrebbe portato a destinazione per le otto di sera, con tutto il tempo di prendere un panino  al volo in stazione centrale e un taxi per andare a Linate, dove poi, tra atterraggio, sbarco, ritiro bagagli e dogana difficilmente le nostre donne sarebbero comparse davanti a noi prima delle dieci. Così, il giorno stabilito incontrai questo Jacopo davanti alla biglietteria della stazione. Non faticai a riconoscerlo. 

Era proprio come me l’aveva descritto impietosamente Donatella avendolo visto in foto quando le avevo chiesto come avrei fatto a riconoscerlo: un tipo abbastanza scialbo, alto, con gli occhiali e un accenno di calvizie precoce, però a me sembrava una persona gradevole, educata e aveva un sorriso simpatico.



Appena preso posto nello scompartimento scoprimmo presto di avere un punto in comune su cui essere solidali: la tirannia delle nostre donne. Lui era seccatissimo, visto che lavorava in Comune, di aver dovuto prendere un giorno di permesso per andare a fare il portabagagli a Milano, città dove esistevano di certo centinaia di taxi in grado di accompagnare in sicurezza due fanciulle dall’aeroporto di Linate sino alla stazione centrale e d’imbarcarle sul treno per Venezia, dove noi potevamo amorevolmente attenderle anche a notte fonda, ma senza terremotare le nostre vite. Atterrare a Milano, contrariamente a come sembravano pensare quelle due, non era come farlo in Patagonia o nella giungla tropicale. C’erano ampi margini di sopravvivenza e il mio compagno di viaggio sosteneva che a parti invertite loro non avrebbero mosso le chiappe (testuale) per noi. La sua posizione rispecchiava fedelmente il mio pensiero e il giovanotto entrò subito nelle mie simpatie. 

Ci divertivamo molto a passare al setaccio dell'ironia anche tutti i racconti di college delle nostre donne. Jacopo mi aveva rivelato che ad un certo punto la sua Martina e Donatella (che stranamente non aveva avuto il coraggio di dirmelo) avevano pensato di uscire dalla scomodità spartana del college e di affittare un appartamentino tutto per loro. Di conseguenza, considerando i prezzi correnti degli affitti a Bournemouth, che è una cittadina balneare molto rinomata, avevano progettato di trovarsi un lavoro per mantenerselo. Che non si pensasse che erano mantenute dai loro padri 
Così erano andate in diverse agenzie di collocamento dove le avevano sempre buttate fuori brutalmente per un motivo talmente ovvio che solo a loro poteva non venire in mente. 
Infatti, le due principessine sul pisello, oltre a parlare male l'inglese, si presentavano a cercare lavoro tutte elegantine, con le loro belle borsette di Fendi, le camicette di Cacharel e il foulard di Hermes al collo in mezzo a donne delle pulizie, cameriere e lavascale. La mia immaginazione fervida mi rimandò subito la scena di Donatella, con il filo di perle al collo, seduta tutta compunta in sala d'attesa tra due grasse lavandaie piene di birra, tatuate e con i capelli tinti d’arancione e scoppiai a ridere fino alle lacrime e Jacopo con me, tanto che quando venne il controllore a vedere i biglietti ci disse qualcosa mentre ce li restituiva, ma non ci badammo affatto, che tanto doveva essere una cazzata. 

Verso le sei di sera il treno, come previsto, effettuò una lunga sosta tecnica di quasi venti minuti alla stazione di Verona, per poi ripartire cigolando in perfetto orario. Noi continuavamo a discutere briosamente e a raccontarci tutte le cavolate delle nostre dame, ridendo come matti delle loro fisime. 
Questa Martina, poi, da come me la descriveva Jacopo, sembrava fatta con lo stesso stampino di Donatella, forse anche più delicatina e imbranata nelle cose elementari di tutti i giorni e la cosa mi metteva ulteriore ilarità. Una veneziana che ti chiamava disperata in ufficio perché si era persa tra le calli, era una novità assoluta e non vedevo l’ora di conoscerla. Così, di risata in risata, ad un certo punto guardai fuori dal finestrino scorgendo strane sagome scure tra le prime ombre della sera che calava e subito mi venne spontanea una domanda: “Scusa Jacopo, che tu sappia, si vedono dei monti sulla linea per andare a Milano?”. 
Lui ci pensò su un attimo e mi fece cenno di stare tranquillo “Ma sì... certo. Dovremmo essere a Brescia tra poco e mi ricordo che qualche altura sullo sfondo si vede, Sono le Prealpi bresciane. Anzi, magari è la Val Trompia”. 
Dici quella di Tognazzi che scalpellava un “troncio” enorme per realizzare un singolo stuzzicadente?” 
No… quella lì era la Val Clavicola” 
Vabbè, ma anche la val Trompia come nome sembra perfetta per montanari che scolpiscono i tronci, non trovi?” 
Così ci rimettemmo a scherzare per un’altra ventina di minuti sul tema dei “tronci” e pure con battute goliardiche sui ragazzi bresciani che probabilmente andavano a "trompiare" nella Val Trompia, finché il treno fece sosta in una cittadina e un altoparlante incominciò a gracchiare: “Stazione di Rovereto... Stazione di Rovereto”. 




Eravamo saliti sulla parte del convoglio che a Verona veniva staccata e agganciata al treno per Monaco di Baviera e probabilmente il capotreno ci aveva detto di cambiare scompartimento e non una cazzata da non prendere in considerazione. Dunque, invece che a Milano eravamo diretti al Brennero. 

Scendemmo di corsa, trafelati e angosciati. Sentimento che aumentò a dismisura appena scoprimmo che il primo treno per tornare a Verona era tra un’ora e quaranta minuti e che una coincidenza per Milano c’era solo alle dieci e mezza con arrivo a destinazione a mezzanotte e venti, salvo ritardo. Gridammo all'unisono: “Cazzoooo! Quelle due ci mangiano vivi…” ricevendo le occhiate indignate di un gruppetto di signore che assieme a due suore aspettavano il locale per Trento sulla nostra stessa pensilina . 

Escludendo di espatriare in Germania per sfuggire alle nostre responsabilità e non avendo alternative,  appena tornati a Verona prendemmo il treno per Milano e, una volta scesi nella Stazione Centrale semideserta, scorgemmo qualche binario più in là due derelitte sedute sulle valigie in attesa del treno per Venezia delle quattro di mattina, perché per aspettarci invano a Linate avevano perso quello delle undici. Mentre ci avvicinavamo di corsa, sentii distintamente questa Martina dire a Donatella: "Eccoli i due coglioni!" ma, considerando la situazione che si era creata, ci poteva stare.

Fu una scenata epica e irriferibile durante la quale Martina lasciò Jacopo su due piedi e Donatella, dopo una lunga filippica sul tema della mia idiozia conclamata, non mi rivolse più parola durante tutto il tempo del viaggio di ritorno e una volta a Venezia, se ne andò a stare dai suoi genitori, dicendomi che non sapeva se e quando sarebbe tornata. Soprattutto “se”. Provai a telefonarle a casa la mattina seguente per fare la pace, ma rispose sua madre per dire che Donatella non aveva alcuna intenzione di parlare con me. Subito dopo aggiunse gelida di suo: “Comunque, sappi che anch'io non ho parole per quello che hai fatto a mia figlia”. Poi riagganciò svelta senza che potessi replicare. E francamente, per onestà intellettuale, devo ammettere che non aveva tutti i torti.

martedì 8 dicembre 2020

Di noi che sognavamo di andare in India sulle orme dei Beatles e delle nostre ragazze che invece se ne andavano per davvero in Inghilterra


Chi ha bazzicato da ventenne gli anni settanta probabilmente ricorderà che frammisti al magma ribollente delle lotte politiche, dei cortei per il Vietnam e delle occupazioni, dei nuovi stili di vita, della questione femminile che avanzava, di Woodstock, del profumo del patchouli e delle prime canne, assieme ai pantaloni a zampa di elefante per lui e alle gonne da zingara lunghe e a fiori per lei c'erano due punti fermi: noi ragazzi volevamo andare in India e loro, le nostre ragazze, volevano andare in Inghilterra. 

Sfortunatamente, in quel periodo i nostri sogni di viaggio in India sulle orme dei Beatles, del suono del sitar, del curry, del pollo tandoori e dei santoni alla Sai Baba rimasero solo esercizi teorici e velleitari. Erano bolle di sapone lievi e dai mille colori (come se fossero uscite da Lucy in the sky with diamonds) che scoppiavano di fronte alla prima difficoltà. Il guaio era invece che le nostre ragazze, quando volevano andare in Inghilterra, visto che il viaggio era molto più comodo consistendo in un’oretta di volo, beh... loro ci andavano davvero. 

Noi sognavamo innocentemente, quindi, ma le nostre ragazze al solito erano molto più concrete. 

La sera dopo la mancata partenza per il nostro viaggio, accuratamente pianificato dopo un mese di riunioni all'osteria da Codroma, con il tavolo ingombro di carte geografiche, bicchieri di vino e cicchetti, per l’improvviso voltafaccia dei compagni d’avventura automuniti che improvvisamente avevano preferito optare per un viaggio a Capo Nord, chiamai Donatella, la mia ragazza dell'epoca già nota a queste cronache, per sapere se aveva voglia di prendere un gelato (e magari darmi anche un po' di conforto spirituale e possibilmente anche non). Lei fu molto laconica e mi rispose che accettava di uscire, ma che la dovevo andare a prendere a casa (in quei giorni, visto che io avrei dovuto partire, stava dai suoi), richiesta che m’insospettì alquanto, visto che era inconsueta e quindi doveva celare qualche insidia. Infatti, appena aprì la porta di casa notai che aveva stampato sul viso quel sorrisetto teso di quando aveva qualcosa di importante da dirmi anche se il primo approccio fu la presa in giro che aspettavo. 
Buonasera, amore mio… ma da dove spunti? Secondo il piano di viaggio, non dovresti essere già a Bucarest a quest’ora? Che ci fai qui da me? In Romania hanno finito i gelati o avete già finito i soldi?” 

Senza raccogliere la provocazione, le spiegai tutto l’accaduto, il tradimento degli amici che avevano optato per l'autostrada comoda fino a Capo Nord e gli ostelli confortevoli (e, temo, le case di tolleranza dei paesi nordici) preferendoli incredibilmente al brivido del passaggio per le mulattiere scoscese del Khyber Pass e all’avventura delle notti nei sacchi a pelo, stretti accanto al fuoco in qualche prateria del Punjab, tra tigri e cobra e, di conseguenza, la conseguente mia sdegnata rinuncia. Così, alla fine lei disse: “Beh… mi dispiace per te che ci tenevi tanto al tuo viaggio in India... però, non mi guardare male, ma avrei preferito che invece di mandarli a quel paese fossi andato a Capo Nord con i tuoi amici, così almeno non ti annoiavi e non saresti rimasto da solo” 
La guardai sorpreso. “Perché da solo? Ci sei tu, no?” 
No… non ci sarò. Siccome tu mi avevi detto che saresti stato in viaggio per almeno un mese, ne ho approfittato per iscrivermi ad un corso d’inglese a Bournemouth che desideravo tanto fare e così parto lunedì.” 
Ah… quindi starai in Inghilterra per un mese anche tu?”. 
No, sono tre mesi.. il corso a cui mi sono iscritta è trimestrale.”.
Il colpo era durissimo e cercai una mossa della disperazione. 
"Ovviamente, visto che non parto più, non puoi rinviare la partenza vero? Neanche se ti dico che potremmo andare in Istria per una settimana noi due da soli?
"Ovviamente no... anche perché si è mosso mio padre per questo e lo sai che quando si muove lui è come quando si muove la regina a scacchi e tu hai solo pezzi leggeri: non c'è partita. Ma non fare quella faccetta delusa, prendila dal lato giusto. In fondo ora, senza di me, potrai andare a vedere le partite del Venezia con i tuoi amici anche in trasferta..."

La guardai sorpreso per quella proposta che rivelava la sua grassa ignoranza sportiva. 
"Ma quali partite? Il campionato è finito da un mese e riprende a fine agosto..." 
"Vabbè, e che sarà mai? Se non gioca il Venezia, non è che crolla il mondo. In fondo puoi andare in spiaggia, fare le ore piccole in campo a parlare di politica, girare la laguna in barca e puoi anche fare le partitelle di calcio con i tuoi amici, non sei contento?" 
"Ovviamente no..." 
"Altrimenti puoi sempre preparare un paio di esami per la sessione autunnale, che non ti farebbe male. Preferisci questo?
"Ovviamente no." 
Quella sera non presi più il gelato perché mi era passata la voglia e lei, che forse un po' si sentiva in colpa, aprì una bottiglia del prezioso Glenfiddich di suo padre per riempirmene un bel bicchiere e ridare un po' di colorito al mio viso improvvisamente esangue. 

Riflettendo meglio nei giorni successivi considerai che, al di là del modo con cui mi veniva imposto, il fatto in sé non era del tutto negativo perché, malgrado fosse un sacrificio stare senza la mia compagna per tre mesi, poteva essere utile ad entrambe per ritrovare gli stimoli perduti, visto che da qualche tempo il nostro rapporto si stava trasformando in  routine e la cosa non prometteva bene. 
Così, venti giorni dopo ero con i suoi genitori a salutarla in aeroporto. Prima che passasse il cancello del volo l’abbracciai e le dissi scherzando: “Fai la brava...”. 
Lei rispose “Perché dovrei?” poi sorrise maliziosa e mi fece il segno delle corna agitandomele davanti agli occhi. 
Mi misi a ridere, la baciai, poi le bisbigliai a mezza voce: “Guarda che so benissimo che sei una zoccoletta, non c’è bisogno che me lo ricordi. Ma non farlo sapere agli inglesi”. 
Lei rise a sua volta, forse perché sapeva che avevo ragione, poi mi girai e vidi sua madre bianca in volto. Aveva sentito e non aveva riso affatto. 

In seguito, non avendo proprio l’umore giusto, con una scusa rifiutai il passaggio di ritorno dei suoi genitori e rientrai a Piazzale Roma con l’autobus. Decisi di andare a piedi fino all’Arsenale per farmi sbollire i cattivi pensieri, anche se il cielo, per una strana sintonia con il mio umore, si era incupito di colpo e aveva cominciato a piovigginare. 

Non avendo voglia di incontrare gente e volendo stare solo con le mie riflessioni, lasciai la confusione di Strada Nuova e me ne andai per le “sconte”, come i veri veneziani. Strada facendo per calli e ponti ripensavo alla profezia di mia madre su chi assaggia il dolce vino del tradimento che poi ne vorrà bere ancora e così l’angoscia che potesse succedere davvero durante il soggiorno inglese di Donatella mi fece sentire un improvviso senso di gelo nello stomaco. Provai a prendere un caffè, per vedere se mi passava, ma non fu una buona idea, perché quel senso di oppressione aumentava passo dopo passo, tanto che ad un certo punto mi venne una nausea fortissima. Sentii i sudori freddi, vidi tutto diventare blu ed ebbi appena il tempo di appoggiarmi alla balaustra della fondamenta per riprendere fiato e far passare quel malessere. 

Dovevo essere talmente messo male che una signora anziana che aveva visto la scena mi avvicinò premurosa per sapere come stessi e poi, anche se tentavo di farle capire che non era il caso e che stavo meglio, volle a tutti i costi portarmi in un bar a prendere una camomilla per aggiustare lo stomaco. 
Alla fine, anche se era una perfetta sconosciuta, poiché un nobiluomo muore ma non tace, le raccontai tutto e lei mi rassicurò con una serie di luoghi comuni sull’amore che almeno mi rasserenarono. Le offrii volentieri una tazza di cioccolata. 

Da quando avevo visto Donatella imbarcarsi al Marco Polo erano passate almeno tre ore e mezza. Così, come aprii la porta di casa vidi la lucina della segreteria telefonica che lampeggiava. Era lei che aveva già chiamato da Luton per dirmi che il volo era andato benissimo ed era arrivato in perfetto orario e a me fece impressione sapere che aveva fatto prima lei ad andare a Londra di me che dovevo tornare a casa. 

La sera, dopo aver comperato dalla tabaccaia giù dal Ponte di San Martino, che teneva anche robe di cartoleria, un bel cartoncino bristol, un righello e dei pennarelli, creai un tabellone molto grazioso graficamente dove riportavo in allegri cerchietti colorati tutti i 92 giorni che mi separavano dal ritorno di Donatella. Poi lo appesi con lo scotch in camera da letto nello spazio tra le due finestre e smarcai soddisfatto il primo giorno. Me ne mancavano novantuno, è vero, ma intanto il primo era già alle spalle. 

I primi giorni, in ogni caso, si rivelarono molto meno duri di quanto temessi, anche se all’inizio m’intristiva apparecchiare la tavola solo per me e soprattutto sentire il suo cuscino freddo accanto al mio. Non avevo alcuna voglia di fare la spesa e neppure di cucinare e dunque aprivo la scatoletta di tonno o mi portavo a casa qualche tramezzino. Per fortuna, realizzai presto che se con la mia compagna lontana ci stavo male, però almeno non avevo più orari e regole. Potevo stare a discutere con gli amici fino a tardi e potevo anche invitarli a casa mia per il bicchierino della staffa senza chiedere il permesso a nessuno. Dunque, dopo due anni di proibizionismo, iniziai di nuovo a rifornire il carrello dei liquori. Ero libero di mangiare quel che volevo e quando lo volevo, come un panino con la mortadella alle undici di sera, da buttar giù con un bicchiere raso di Merlot. L’ideale per qualche vecchio film giallo in televisione. 

Di seguito avevo riscoperto la bellezza di sgranocchiare grissini a letto leggendo un bel libro sino a notte fonda, senza nessuna che protestasse per le briciole o per la luce accesa. Inoltre, dopo aver gettato il suo cuscino in armadio tra le palline di canfora, come rappresaglia per il trattamento riservato alle mie pipe, avevo realizzato di poter finalmente dormire di traverso e scalciare via le lenzuola senza che qualcuna si lamentasse di aver freddo. Potevo anche fumare le miscele più pestifere senza aprire le finestre, suonare la chitarra acustica con l'armonica e cantare a squarciagola le canzoni di Neil Young senza nessuna che trovasse da ridire, a parte la signora Zambon del piano di sotto che batteva il tempo con la scopa sul soffitto. 

Insomma, questa era la vita che rientrava alla base. 

Siccome poi i vecchi compagni di scuola e gli amici servono sempre, dopo una convocazione telefonica per una spaghettata “alla brutta” a casa mia, si era messo subito in moto il meccanismo della solidarietà maschile e così mi avevano invitato a qualche partitella di calcio in amicizia (e nella scatola degli scarpini bullonati avevo finalmente ritrovato una delle pipe mancanti, la costosissima Charatan). 




Dopo una settimana finalmente arrivò la prima lettera di Donatella da Bournemouth. Due pagine fitte, con tanto di carta intestata dell’Università e francobollo della Regina Elisabetta sulla busta a righe rosse e blu dell’Air Mail. Constatato che, per fortuna, la lettera iniziava con un vistoso “Amore mio adorato” prima di iniziare a leggerla mi versai due dita di Laphroaig e mi sedetti comodo sul divano per assaporarla meglio. A parte tutta una serie di sue tipiche lamentazioni che m’interessavano poco sul cibo orrido, le stanze spartane, i bagni in comune e la poca acqua calda il testo conteneva descrizioni d’ambiente scontate e informazioni varie su docenti, studenti e i pub più in voga. Tutta roba archiviabile nel faldone: "Interessa una beata cippa". 

Un testo modesto e francamente deludente nello stile e nei contenuti, a riprova che la prossima laurea in lettere non le garantiva affatto di scrivere in modo interessante per il lettore. Per fortuna la lettera si chiudeva con un: “Mi manchi! Mi manchi! Mi manchiiiii!!!” sicuramente molto infantile, ma che mi mise di buonumore e pensai di essere un ragazzo fortunato. 

La settimana seguente arrivò una cartolina da Stratford on Avon dove però i “Mi manchi!” erano diventati uno solo, così come i punti esclamativi. Immaginai che fosse per risparmiare sulla tariffa postale.

Un mese dopo giunse una nuova lettera che ne era priva del tutto e mi parlava per una striminzita paginetta e mezza di gite nella New Forest, di tali Gus e Columba, due amiconi simpaticissimi (per me dal nome idiota, ma pazienza) che suonavano la chitarra da dio (perché, io no?) davanti al fuoco dei falò. Mi dichiarava di aver compreso finalmente quanto fosse piccola e provinciale Venezia (ma va in mona...) e sottolineava quanto al contrario li fosse tutto bello, ordinato, preciso e pulito, con particolare e insistito riferimento alle cabine telefoniche laccate di rosso, che dovevano averla impressionata decisamente. Un compitino tirato via in stile: “Racconta le tue vacanze” e che sembrava fatto apposta per irritarmi, anche per via di quel “baci” messo in calce alla lettera che dava la stessa emozione di un rogito notarile. Ormai in preda alle malinconie avevo anche provato a telefonarle, ma il numero che mi aveva dato sua madre risultava essere quello di un fax. 

Dopo varie ricerche, grazie all'operatore del servizio chiamate internazionali della SIP avevo trovato il numero giusto ma il centralinista del college, in onore della perfida Albione, mi aveva tenuto in linea per un quarto d'ora prima di dirmi che non sapeva chi fosse la persona che cercavo. Siccome non aveva capito una mazza del suo cognome, gli avevo fatto lo spelling ed era partito un nuovo quarto d'ora di ricerche interrotto solo da qualche “Just a moment...” e concluso alla fine mettendomi in linea con una tizia sconosciuta che sì, sapeva chi fosse Donatella, ma non era in stanza e non la si poteva rintracciare perché era andata nuovamente in gita nella New Forest con quel tizio di nome Columba e altri amici e dopo un rapido “So sorry!” mi riagganciò sbrigativamente sul muso. Mancava solo il: “Ritenta, sarai più fortunato”. Anzi, il “Try again, you will be luckier”. Ma come andò a finire e le vicende tragicomiche del suo ritorno, magari vi racconto tutto la prossima volta...