lunedì 21 dicembre 2020

Quelli che dopo aver visto il film: "Eutanasia di un amore" poi se lo girano pure loro


Qualche giorno dopo, ritrovata una certa tranquillità anche se qualcosa dentro di me mi faceva percepire una strana tensione che aleggiava nell’aria, appena finito di cenare lei iniziò improvvisamente a raccontarmi nel dettaglio i suoi tre mesi di esperienza inglese, come se dopo molto meditare avesse deciso di rompere gli indugi, forse spiazzata dal fatto che avevo deciso di non chiederle niente e, casomai ci fosse stata qualcosa che avrei dovuto sapere, di attendere che me ne parlasse lei. Però iniziò il racconto con una domanda rivolta a me che mi lasciò perplesso: “Allora, non sei curioso di sapere di Columba?” 
"No, francamente non m’importa nulla di colombe, piccioni e pennuti vari britannici, anche se questo tizio compariva spesso nelle tue poche lettere, ma visto che a quanto pare ci tieni a parlarmi di lui, ti ascolto, anche se ti ricordo che excusatio non petita…” 
Stai tranquillo, te ne parlo solo perché immaginavo che avresti fatto il geloso come stai facendo, ma ti garantisco che era un Columba di nome e di fatto. Un ragazzone timido, imbranato e contro ogni tentazione, che tra l’altro si lavava poco e vestiva trasandato. Era solo gentilissimo e un simpatico amico, anche se mi sono accorta subito che mi faceva la corte e mi stava sempre dietro. Ma non c’è stato nulla, puoi chiedere anche a Martina” 
Bene, ma, comunque, pensavo che in questi anni avessi capito che non sono affatto geloso e, anzi, ti dirò che una scappatella vacanziera estiva, di quelle leggere e senza troppo coinvolgimento sentimentale, tipo una botta e via, che finiscono appena si sale in aereo per rientrare a casa, l'avevo messa tra le possibilità e dunque te la potevi anche concedere perché l'avrei accettata, proprio come tu l’hai concessa a me senza fare drammi due anni fa quando suonavo sulle navi da crociera (non era vero, la scenata me l'aveva fatta eccome, quando un'anima bella del nostro complesso le aveva fatto sapere della ragazza canadese) e, dunque, non chiederò niente a Martina, se non per sapere se davvero questo Columba suonava la chitarra meglio di me, che di quello sì che sono geloso…” 
“Te lo posso già dire io… era più bravo. Fattene una ragione…” 

Allargai le braccia rassegnato mentre lei ridacchiava. “Proverò a farmela, anche se mi sarà difficile, ma piuttosto vorrei sapere perché non mi hai detto che avevate preso un appartamento in affitto per conto vostro e non stavate più nel college” 

La mia compagna sbiancò in volto, perché evidentemente non pensava che ne fossi al corrente e si prese qualche secondo per organizzare una risposta “A parte che non era un appartamento ma siamo andate semplicemente da una signora che affittava delle camere con uso cucina, non te l’ho raccontato perché Martina ed io non volevamo che i nostri genitori sapessero che avevamo abbandonato il college dopo il primo mese… ma tu com'è che lo sai?” 
“Te lo dico dopo... ma per quale motivo lo avete fatto e avete abbandonato il corso?”
 
Donatella si prese di nuovo una pausa di qualche istante prima di rispondere. “Perché la vita nel college era molto rigorosa e con orari da caserma, si mangiava male, le nostre stanze erano quelle dell’ostello degli studenti lasciate libere per la pausa estiva ed erano orrende e molto “vissute”, con un lavandino senza l’acqua calda e con il bagno nel corridoio e, soprattutto, il corso di lingua inglese, oltre ad essere di una noia mortale, era frequentato da decine di ragazzi spagnoli, greci e italiani, così che alla fine invece dell’inglese rischiavi di imparare il castigliano o di prendere l’accento romano. Quindi, come ti ho detto, Martina ed io l’abbiamo fatto giurandoci di mantenere il segreto per evitare che i nostri genitori ci richiamassero subito in patria perché volevamo goderci i tre mesi in Inghilterra per intero e fare l'esperienza di vivere da sole all'estero. Tutto qui...” 
“Io, al tuo posto, avrei aggiunto che volevate anche evitare che papà e mamma s’incazzassero come bisce dal momento che avevano pagato il corso un mucchio di soldi perché imparaste l'inglese e non per farvi fare a sbafo una vacanza di tre mesi, ma è un dettaglio. Invece, vediamo se indovini come mai lo so…”
“Te lo ha detto Jacopo, vero?” 
“Già… la tua amica Martina in quanto a mantenere i segreti è una vera tomba, dunque hai rischiato grosso a suggerirmi di chiederle di questo Columba...”
"Ma no, figurati...del resto l'unica tra noi che ha avuto una storiella di qualche giorno con un ragazzo inglese è stata lei..." 
"Bene! Vedo che anche la tua riservatezza è esemplare. Jacopo lo sa?"
"Ovviamente no... e guai a te se glielo dici"
"Tranquilla, non serve che glielo racconti io, perché chiacchierina com'è la tua amica, tra qualche giorno Jacopo lo leggerà da solo sul Gazzettino, o in cronaca o tra gli eventi sportivi, dipende da quante ne ha fatte di scappatelle..."

E che la sua amica fosse davvero ciarliera, soprattutto dopo qualche bicchiere di vino di troppo, ne ebbi la riprova poche sere dopo mentre eravamo a cena a casa di nostri amici comuni e quando una delle ragazze presenti, dopo esserci alzati da tavola per prendere posto in salotto, chiese a Donatella di raccontare del suo viaggio e lei s’intromise dicendole “Dai Donatella, racconta tutto… ma proprio tutto tutto, eh? Altrimenti guarda che se non hai coraggio, lo faccio io…” e mentre la destinataria dell’invito sembrava assai imbarazzata, Martina, malgrado l’occhiataccia di Jacopo perché si desse una calmata, si rivolse a me ridendo “Ma tu sei proprio sicuro che te l’abbia raccontata giusta, Carlo? Ti vedo troppo tranquillo…” e così alla fine l’imbarazzo diventò anche mio. Poi, in realtà, le cronache inglesi “segrete” da raccontare agli amici si rivelarono delle sciocchezze incredibili, tipo il muro di cinta del college scavalcato alle due di notte e con caduta rovinosa perché il portone era già chiuso e, sempre di notte, la vicenda dell’assorbente cambiato d’emergenza dentro una cabina del telefono con un poliziotto di passaggio che era venuto a controllare con la pila. Niente di cui preoccuparsi, insomma. Però, solo in quel momento. 


Venezia è molto romantica, non solo per gli amori, ma anche per i posti in cui lasciarsi


Infatti, mentre ritornavamo a casa, appena attraversato campo San Giacomo dell'Orio, che a quell’ora di notte era deserto, lei si fermò di colpo sorprendendomi con un: “Ti spiace se questa notte vado a dormire dai miei?” e quando io le risposi che per me andava bene, chiedendole però se durante la cena avessi detto qualcosa, senza accorgermene, che l’avesse offesa e di cui dovevo scusarmi, lei scoppiò a piangere improvvisamente nascondendosi il volto tra le mani.

Così, sapendo per esperienza che quel suo tipo di pianto significava: "Allarme rosso e tutti al posto di combattimento per discorso importante in arrivo" ci sedemmo sui gradini del ponte lì vicino e appena asciugate le lacrime venni a sapere che lei, durante i tre mesi di lontananza, tra una serata a tracannare birra al pub e una gita nella New Forest, aveva anche trovato modo di riflettere su di noi e così, al termine delle sue meditazioni, aveva deciso di tornare per qualche tempo a casa dei suoi genitori perché altrimenti né io né lei ci saremmo più laureati, visto che vivendo assieme c’erano sempre tante distrazioni e non si riusciva ad essere concentrati per studiare. Poi, esaurita la parte nobile ed edificante del discorso, affinché mi fosse chiaro che tutto era pensato per il nostro bene, iniziò la sua consueta recriminazione sul fatto che vivere assieme a Padova era un conto, ma farlo a Venezia era diverso perché si sentiva gli occhi di tutti addosso come se fosse una pubblica peccatrice e non parliamo poi di quel che dicevano di lei le amiche di sua madre. Quindi, alla fine, quanto accadeva era anche colpa mia che avevo dovuto abbandonare l’appartamento di Padova per trasferirmi a Ferrara dopo quella stupidata che avevo fatto (in realtà, l’avrei dovuto abbandonare in ogni caso perché il mio compagno di stanza qualche mese prima aveva messa incinta la sua ragazza e, dopo essersi sposato in tutta fretta, si era trasferito a Roma. Dunque, mia madre, che doveva gestire due figli e la nostra casa con la sua pensione di reversibilità, non era più in grado di pagarmi l’affitto intero, che era piuttosto alto) 

Infine, per non farci mancare niente, arrivò anche la considerazione risibile che per recarsi a Padova a seguire le lezioni da casa nostra era costretta a fare un viaggio lunghissimo e scomodo, dovendo cambiare ben due vaporetti per raggiungere Piazzale Roma, mentre stando dai suoi genitori le bastava fare il traghetto con la gondola a San Samuele, scendere a san Tomà e in dieci minuti a piedi era arrivata alla fermata della corriera della Siamic per Piazzale Boschetti. Siccome a quel punto mi era chiaro che il problema non era affatto la laurea da conseguire, ma il nostro rapporto nel suo complesso, le chiesi senza troppi preamboli se aveva senso proseguirlo ancora e quali fossero le sue intenzioni nei miei confronti. Così, avendo toccato come temevo il tasto giusto, iniziarono le consuete litanie del “ho bisogno di prendere una pausa di riflessione perché devo ritrovare me stessa… “ seguito dal classico “nel nostro rapporto diamo tutto per scontato e ci siamo appiattiti nella routine” e fino al “non lo so più cosa voglio da te, da me e da tutto…”. Probabilmente era in arrivo anche il "restiamo buoni amici" ma immagino le ci volesse ancora qualche considerazione vittimistica per giustificarlo. 

A quel punto, siccome in quel tempo si diceva che era meglio una fine terribile di un terrore senza fine, tagliai corto, le diedi un bacio sulla fronte per farla tacere e le dissi “Guarda, allora, visto che non sai cosa fare, decido io per te… la finiamo qui e basta. Ti va?” . 

E nello stesso momento in cui lo dicevo, mi sentii incredibilmente sollevato per quella decisione che probabilmente dentro di me aspettavo da tempo e sono certo lo fosse anche lei, perché annuì con un mezzo sorriso dicendo “Sì, certo, mi pare la cosa migliore…”. 
Così, dopo qualche secondo di sconcerto reciproco per realizzare che ci eravamo davvero lasciati dopo quattro anni e questa volta sul serio, Donatella ed io ci abbracciammo, ci girammo le spalle e ciascuno se ne andò per la sua strada. 




Nei giorni seguenti, mentre io ero in facoltà a Ferrara, lei venne a casa mia a prendere alcune sue cose e i vestiti e alla fine mi lasciò le sue chiavi sul tavolo della cucina. Mi lasciò anche Cristobal, il nostro pesce rosso vinto alle giostre, ma immagino fosse complicato portarselo a casa nella sua boccia di vetro. Dopo alcuni mesi lei si laureò e io andai alla sua festa di laurea, mentre qualche tempo dopo lei, con una scusa che non ricordo, non venne alla mia perché la feci a Ferrara e probabilmente non aveva voglia di mettersi in treno. Poi, l’anno seguente lei iniziò a fare supplenze in giro per il Veneto ed io a lavorare dal momento che la Banca Commerciale Italiana mi aveva incautamente assunto. 

Di lì a poco, tutti e due iniziammo nuovi amori e ci siamo persi di vista, anche se diversi anni fa, già cinquantenni, ci siamo incontrati casualmente a Venezia in Strada Nova e dopo esserci presi assieme uno spritz di rimpatriata raccontandoci divertiti quel che avevamo combinato negli anni seguenti, degli amori andati male (pochi lei, molti io), dei nostri matrimoni andati bene e dei nostri figli bellissimi, prima di salutarci e di riprendere la strada lei mi disse “Mi ha fatto piacere incontrati di nuovo, ma… tu poi hai capito perché noi ci siamo lasciati?” e le ho risposto; “Certo! Perché casa mia ti era scomoda per andare a Padova…” e siamo scoppiati tutti e due a ridere. Poi ci siamo salutati per tornare alle nostre vite e non ci siamo più rivisti, com’è giusto che sia

sabato 19 dicembre 2020

Dei ritorni a sorpresa e dell'incidente del cuscino


Donatella rientrò alla base la sera di quattro giorni dopo, senza alcun preavviso, come immaginavo sarebbe successo perché i suoi tempi di ritorno alla normalità dopo una litigata a brutto muso erano più o meno quelli. Rientravo da Ferrara dove ero andato a parlare con il relatore della mia tesi che, con rara cortesia baronale, dopo avermi dato appuntamento nel suo studio per le tre di pomeriggio mi aveva fatto ricevere dal suo assistente, che nemmeno sapeva il perché io fossi lì, verso le cinque e mezza e senza neppure chiedermi scusa. Alcuni mesi prima, infatti, mi ero iscritto a quella università perché ormai mi mancavano solo quei tre maledetti esami che non avevo potuto dare a Padova per la faccenda del mio “sequestro maldestro” e in azione solitaria del Preside di Facoltà, che, in un impeto di sdegno per tanta ingiustizia, avevo chiuso a chiave nel suo ufficio dicendogli rabbiosamente che non saremmo usciti di lì se non mi metteva la firma sul libretto per sostenere l'esame, cosa a cui avevo diritto visto che avevo frequentato tutte le lezioni pomeridiane del suo assistente, anche se a lui il mio nome non risultava sull'elenco dei partecipanti (chissà come l'avevano scritto). 

Sfortunatamente, essendo di natura molto distratto, non avevo notato che dietro alla sua scrivania c'era una seconda porta da cui lui, dopo aver suonato un campanello, fece entrare il bidello ordinandogli di accompagnare fuori immediatamente quello studente di cui si era già segnato il nome. Cosa questa che in seguito, evitate per un pelo la denuncia penale e altri provvedimenti disciplinari, mi aveva suggerito di lasciare la facoltà padovana considerato che uno degli esami mancanti era proprio il suo e probabilmente ancora oggi starei cercando di passarlo. 

Purtroppo, lasciando Padova, era finito anche il benefit dell'appartamento dove i primi due anni in cui stavamo assieme, Donatella ed io avevamo gradualmente iniziato a convivere, dapprima in gran segreto, perché in quegli anni la cosa avrebbe dato grande scandalo e la sua famiglia era molto conosciuta a Venezia. Ufficialmente in quell'appartamento io abitavo con Roberto, il figlio di un ammiraglio collega di corso di mio padre e la cui madre era molto amica della mia. Ma lui stava in casa con me a fare finta di studiare o a fare gare di flipper al bar di fronte dal lunedì al giovedì, poi se ne tornava dai suoi a Livorno o se ne andava dalla sua ragazza e così Donatella che frequentava Lettere al Liviano poteva raggiungermi (i suoi genitori, due belle persone a cui ho voluto bene venendo ricambiato, lo sapevano e finché la cosa non fosse diventata di pubblico dominio costringendoli ad intervenire, ce lo permettevano). Per fortuna, la madre di Donatella aveva un'amica proprietaria di non so quanti appartamenti a Venezia che, garantendole che appena laureati sua figlia ed io ci saremmo sposati, dopo qualche mese, pur con qualche riluttanza, ci aveva affittato ad un prezzo di grande favore un minuscolo appartamentino in zona Arsenale dove ora continuavamo a stare insieme e che è quello nella foto qui sotto, molto "minimalista"  nell'arredo per ovvie questioni di budget, anche se il tavolo con i cavalletti e l'impianto stereo li ho ancora in uso nel mio attuale studio, cinquant'anni dopo.


L'appartamento di due stanze con cucina e vista sui tetti della Bragora


Comunque, quella sera aprii la porta di casa con le mani ingombre dalle borse della spesa e lei si era nascosta in agguato dietro l’angolo del corridoio, così dopo aver rischiato l’infarto per la paura me la trovai abbracciata a baciarmi. Mentre l’abbracciavo, mi accorsi quanto fosse diventata bella soda, anzi, per dirla tutta, piuttosto pienotta. Durante il nostro tumultuoso incontro in stazione a Milano non avevo avuto modo di notarlo per intuibili motivi. 

Quando una gatta ti salta addosso per cavarti la pelle ad unghiate non è che stai a guardare di che colore abbia il mantello. Ora invece capivo che la scoperta del burro salato inglese da spalmare sul pane, della marmellata di arance e delle uova con il bacon aveva prodotto i suoi effetti. 
Ad occhio e croce, almeno un sette o otto chili di effetti. 

Immaginai subito che le sue prossime parole, dopo i convenevoli, sarebbero state: “Tu ed io dobbiamo metterci a dieta” che non si capisce perché per le donne la dieta debba essere un rito di coppia in cui bisogna coinvolgere anche chi non ne ha la minima intenzione. Capisco bene che se io addento un sontuoso panino sgocciolante di (tanto) tonno, pomodoro, maionese, cipolla di Tropea e insalata, mentre tu hai di fronte a te una svizzera rinsecchita alla piastra e scondita, con un mucchietto di carote a julienne e i tuoi bei cinquanta grammi di pane integrale a farle compagnia, la cosa non ti aiuti. 

Infatti, essendo di animo sensibile, il mio panino andrei a mangiarlo in cucina, così non vedresti neppure il bel bicchiere di vino bianco fresco con cui lo manderei giù. Però non capisco perché, a parte gli aspetti logistici nel cucinare cose differenti per alimentazioni diverse, io debba esserne coinvolto se non ne avverto l’esigenza. Questo perché le calorie di quel panino al tonno, poi io le brucerei con un paio di partite a calcio con gli amici, più efficaci che non andare per negozi di scarpe. 

La risposta al quesito era: “Per solidarietà” che poi diversi anni dopo sarebbe stata la stessa motivazione di mia moglie per svegliarmi brutalmente nel cuore nella notte quando doveva allattare al seno nostro figlio, anche se il mio ruolo era ovviamente molto marginale. 

Comunque, terminati gli abbracci e i baci con l'atteso: “Hai visto che sono tornata, nonostante il tuo vergognoso comportamento a Milano? ” e il mio “Ma tua madre, le ha poi ritrovate le parole?” mi accompagnò tenendomi per mano verso la tavola del salotto, ben apparecchiata, con al centro la zuppiera del servizio buono. Così, alzando il coperchio ebbi modo di scoprire la seconda sorpresa di quella serata, cucinata amorevolmente per me con le sue manine sante. Immaginai subito l’ avesse fatta su suggerimento di sua madre che era tanto se sapeva cucinare un uovo sodo (e non a caso durante le nostre uscite in barca a vela, suo padre mi aveva nominato anche cuoco di bordo). La zuppiera conteneva una minestrina con la stracciatella ormai tiepida perché l’aveva versata mezzora prima. Però in tavola c’era il formaggio grana grattugiato da lei in persona (che non si pensi che non sapesse cucinare). 


All'epoca dei fatti.


Ora, nelle mie borse della spesa c’erano le confezioni delle seppie in umido e del baccalà mantecato che avevo comperato alla rosticceria Gislon in Calle della Bissa, ma non ebbi il coraggio di confessarglielo e le abbandonai malinconicamente in cucina sperando in tempi migliori (magari un bello spuntino di mezzanotte in salotto mentre lei dorme ignara e davanti ad un’asta di tappeti in televisione o alla replica di Colpo Grosso). 

Mentre deglutivo la minestrina, che era decente anche se chiaramente fatta con il dado Star (però messo in acqua con sapienza al momento giusto) lei mi guardò sospettosa, poi mi chiese: “Amore, a proposito... ho visto che, tanto per cambiare, non avevi rifatto il letto e ci ho pensato io, ma sono diventata matta a cercare il mio cuscino. Sai dove è finito?” . 

Mi andò per traverso l'ultima cucchiaiata di brodo, perché mi ero scordato di rimetterlo a posto dall'armadio dove l'avevo scaraventato per rappresaglia tre mesi prima. Siccome con le mie donne sono sempre stato sincero, appena ebbi finito di tossire le rivelai il nascondiglio. Lei corse subito a vedere nell’armadio, strillò inorridita come mi aspettavo e quella notte mi toccò dormire senza cuscino (che ti fa bene alle cervicali), mentre lei poggiava la sua testolina sul mio e il suo era appeso fuori dalla finestra ad arieggiarsi da quel profumo di canfora. E questo piccolo incidente, fu, con il senno di poi, come la pallina di neve che inizia a rotolare lungo il pendio diventando poi una valanga (segue...).

sabato 12 dicembre 2020

Dell'arte di trasformare una tranquilla operazione di rientro in una catastrofe.


Trascorsero i giorni e le settimane di un paio di mesi interminabili. Non l'avevo più sentita, né per lettera, né per telefono e sapevo solo dai suoi che stava bene e mi salutava (ma che gentile!), però tutti i cerchietti con la spunta sul tabellone in camera da letto mi dicevano che stava avvicinandosi finalmente la data del rientro di Donatella, che, infatti, di lì a poco mi chiamò da Bournemouth.

Così, dopo una serie di giustificazioni tipo arrampicata sugli specchi riguardo la sua difficoltà di comunicare (mancava che mi raccontasse che aveva finito i soldi per i francobolli e avrei preferito che mi dicesse che non aveva avuto il tempo e nemmeno la voglia di farsi sentire) venni a sapere che aveva incontrato nel college una simpaticissima ragazza veneziana di nome Martina (le amicizie che faceva lei erano sempre "issime" in qualcosa), con la quale aveva fatto amicizia e che, visto che avrebbero preso lo stesso volo che arrivava a Linate alle nove di sera, mi avrebbe contattato un tale Jacopo, che era il ragazzo di questa tizia, perché ci mettessimo d’accordo e andassimo assieme a Milano a prenderle per scortarle a casa e, immagino, portare i bagagli. Casomai non lo avessi capito, era una precettazione. Dunque, che non mi passasse neppure per l’anticamera del cervello di non essere in aeroporto per il loro arrivo. 

Quando questo ragazzo mi telefonò decidemmo di comune accordo di prendere un bell’Intercity che ci avrebbe portato a destinazione per le otto di sera, con tutto il tempo di prendere un panino  al volo in stazione centrale e un taxi per andare a Linate, dove poi, tra atterraggio, sbarco, ritiro bagagli e dogana difficilmente le nostre donne sarebbero comparse davanti a noi prima delle dieci. Così, il giorno stabilito incontrai questo Jacopo davanti alla biglietteria della stazione. Non faticai a riconoscerlo. 

Era proprio come me l’aveva descritto impietosamente Donatella avendolo visto in foto quando le avevo chiesto come avrei fatto a riconoscerlo: un tipo abbastanza scialbo, alto, con gli occhiali e un accenno di calvizie precoce, però a me sembrava una persona gradevole, educata e aveva un sorriso simpatico.



Appena preso posto nello scompartimento scoprimmo presto di avere un punto in comune su cui essere solidali: la tirannia delle nostre donne. Lui era seccatissimo, visto che lavorava in Comune, di aver dovuto prendere un giorno di permesso per andare a fare il portabagagli a Milano, città dove esistevano di certo centinaia di taxi in grado di accompagnare in sicurezza due fanciulle dall’aeroporto di Linate sino alla stazione centrale e d’imbarcarle sul treno per Venezia, dove noi potevamo amorevolmente attenderle anche a notte fonda, ma senza terremotare le nostre vite. Atterrare a Milano, contrariamente a come sembravano pensare quelle due, non era come farlo in Patagonia o nella giungla tropicale. C’erano ampi margini di sopravvivenza e il mio compagno di viaggio sosteneva che a parti invertite loro non avrebbero mosso le chiappe (testuale) per noi. La sua posizione rispecchiava fedelmente il mio pensiero e il giovanotto entrò subito nelle mie simpatie. 

Ci divertivamo molto a passare al setaccio dell'ironia anche tutti i racconti di college delle nostre donne. Jacopo mi aveva rivelato che ad un certo punto la sua Martina e Donatella (che stranamente non aveva avuto il coraggio di dirmelo) avevano pensato di uscire dalla scomodità spartana del college e di affittare un appartamentino tutto per loro. Di conseguenza, considerando i prezzi correnti degli affitti a Bournemouth, che è una cittadina balneare molto rinomata, avevano progettato di trovarsi un lavoro per mantenerselo. Che non si pensasse che erano mantenute dai loro padri 
Così erano andate in diverse agenzie di collocamento dove le avevano sempre buttate fuori brutalmente per un motivo talmente ovvio che solo a loro poteva non venire in mente. 
Infatti, le due principessine sul pisello, oltre a parlare male l'inglese, si presentavano a cercare lavoro tutte elegantine, con le loro belle borsette di Fendi, le camicette di Cacharel e il foulard di Hermes al collo in mezzo a donne delle pulizie, cameriere e lavascale. La mia immaginazione fervida mi rimandò subito la scena di Donatella, con il filo di perle al collo, seduta tutta compunta in sala d'attesa tra due grasse lavandaie piene di birra, tatuate e con i capelli tinti d’arancione e scoppiai a ridere fino alle lacrime e Jacopo con me, tanto che quando venne il controllore a vedere i biglietti ci disse qualcosa mentre ce li restituiva, ma non ci badammo affatto, che tanto doveva essere una cazzata. 

Verso le sei di sera il treno, come previsto, effettuò una lunga sosta tecnica di quasi venti minuti alla stazione di Verona, per poi ripartire cigolando in perfetto orario. Noi continuavamo a discutere briosamente e a raccontarci tutte le cavolate delle nostre dame, ridendo come matti delle loro fisime. 
Questa Martina, poi, da come me la descriveva Jacopo, sembrava fatta con lo stesso stampino di Donatella, forse anche più delicatina e imbranata nelle cose elementari di tutti i giorni e la cosa mi metteva ulteriore ilarità. Una veneziana che ti chiamava disperata in ufficio perché si era persa tra le calli, era una novità assoluta e non vedevo l’ora di conoscerla. Così, di risata in risata, ad un certo punto guardai fuori dal finestrino scorgendo strane sagome scure tra le prime ombre della sera che calava e subito mi venne spontanea una domanda: “Scusa Jacopo, che tu sappia, si vedono dei monti sulla linea per andare a Milano?”. 
Lui ci pensò su un attimo e mi fece cenno di stare tranquillo “Ma sì... certo. Dovremmo essere a Brescia tra poco e mi ricordo che qualche altura sullo sfondo si vede, Sono le Prealpi bresciane. Anzi, magari è la Val Trompia”. 
Dici quella di Tognazzi che scalpellava un “troncio” enorme per realizzare un singolo stuzzicadente?” 
No… quella lì era la Val Clavicola” 
Vabbè, ma anche la val Trompia come nome sembra perfetta per montanari che scolpiscono i tronci, non trovi?” 
Così ci rimettemmo a scherzare per un’altra ventina di minuti sul tema dei “tronci” e pure con battute goliardiche sui ragazzi bresciani che probabilmente andavano a "trompiare" nella Val Trompia, finché il treno fece sosta in una cittadina e un altoparlante incominciò a gracchiare: “Stazione di Rovereto... Stazione di Rovereto”. 




Eravamo saliti sulla parte del convoglio che a Verona veniva staccata e agganciata al treno per Monaco di Baviera e probabilmente il capotreno ci aveva detto di cambiare scompartimento e non una cazzata da non prendere in considerazione. Dunque, invece che a Milano eravamo diretti al Brennero. 

Scendemmo di corsa, trafelati e angosciati. Sentimento che aumentò a dismisura appena scoprimmo che il primo treno per tornare a Verona era tra un’ora e quaranta minuti e che una coincidenza per Milano c’era solo alle dieci e mezza con arrivo a destinazione a mezzanotte e venti, salvo ritardo. Gridammo all'unisono: “Cazzoooo! Quelle due ci mangiano vivi…” ricevendo le occhiate indignate di un gruppetto di signore che assieme a due suore aspettavano il locale per Trento sulla nostra stessa pensilina . 

Escludendo di espatriare in Germania per sfuggire alle nostre responsabilità e non avendo alternative,  appena tornati a Verona prendemmo il treno per Milano e, una volta scesi nella Stazione Centrale semideserta, scorgemmo qualche binario più in là due derelitte sedute sulle valigie in attesa del treno per Venezia delle quattro di mattina, perché per aspettarci invano a Linate avevano perso quello delle undici. Mentre ci avvicinavamo di corsa, sentii distintamente questa Martina dire a Donatella: "Eccoli i due coglioni!" ma, considerando la situazione che si era creata, ci poteva stare.

Fu una scenata epica e irriferibile durante la quale Martina lasciò Jacopo su due piedi e Donatella, dopo una lunga filippica sul tema della mia idiozia conclamata, non mi rivolse più parola durante tutto il tempo del viaggio di ritorno e una volta a Venezia, se ne andò a stare dai suoi genitori, dicendomi che non sapeva se e quando sarebbe tornata. Soprattutto “se”. Provai a telefonarle a casa la mattina seguente per fare la pace, ma rispose sua madre per dire che Donatella non aveva alcuna intenzione di parlare con me. Subito dopo aggiunse gelida di suo: “Comunque, sappi che anch'io non ho parole per quello che hai fatto a mia figlia”. Poi riagganciò svelta senza che potessi replicare. E francamente, per onestà intellettuale, devo ammettere che non aveva tutti i torti.

martedì 8 dicembre 2020

Di noi che sognavamo di andare in India sulle orme dei Beatles e delle nostre ragazze che invece se ne andavano per davvero in Inghilterra


Chi ha bazzicato da ventenne gli anni settanta probabilmente ricorderà che frammisti al magma ribollente delle lotte politiche, dei cortei per il Vietnam e delle occupazioni, dei nuovi stili di vita, della questione femminile che avanzava, di Woodstock, del profumo del patchouli e delle prime canne, assieme ai pantaloni a zampa di elefante per lui e alle gonne da zingara lunghe e a fiori per lei c'erano due punti fermi: noi ragazzi volevamo andare in India e loro, le nostre ragazze, volevano andare in Inghilterra. 

Sfortunatamente, in quel periodo i nostri sogni di viaggio in India sulle orme dei Beatles, del suono del sitar, del curry, del pollo tandoori e dei santoni alla Sai Baba rimasero solo esercizi teorici e velleitari. Erano bolle di sapone lievi e dai mille colori (come se fossero uscite da Lucy in the sky with diamonds) che scoppiavano di fronte alla prima difficoltà. Il guaio era invece che le nostre ragazze, quando volevano andare in Inghilterra, visto che il viaggio era molto più comodo consistendo in un’oretta di volo, beh... loro ci andavano davvero. 

Noi sognavamo innocentemente, quindi, ma le nostre ragazze al solito erano molto più concrete. 

La sera dopo la mancata partenza per il nostro viaggio, accuratamente pianificato dopo un mese di riunioni all'osteria da Codroma, con il tavolo ingombro di carte geografiche, bicchieri di vino e cicchetti, per l’improvviso voltafaccia dei compagni d’avventura automuniti che improvvisamente avevano preferito optare per un viaggio a Capo Nord, chiamai Donatella, la mia ragazza dell'epoca già nota a queste cronache, per sapere se aveva voglia di prendere un gelato (e magari darmi anche un po' di conforto spirituale e possibilmente anche non). Lei fu molto laconica e mi rispose che accettava di uscire, ma che la dovevo andare a prendere a casa (in quei giorni, visto che io avrei dovuto partire, stava dai suoi), richiesta che m’insospettì alquanto, visto che era inconsueta e quindi doveva celare qualche insidia. Infatti, appena aprì la porta di casa notai che aveva stampato sul viso quel sorrisetto teso di quando aveva qualcosa di importante da dirmi anche se il primo approccio fu la presa in giro che aspettavo. 
Buonasera, amore mio… ma da dove spunti? Secondo il piano di viaggio, non dovresti essere già a Bucarest a quest’ora? Che ci fai qui da me? In Romania hanno finito i gelati o avete già finito i soldi?” 

Senza raccogliere la provocazione, le spiegai tutto l’accaduto, il tradimento degli amici che avevano optato per l'autostrada comoda fino a Capo Nord e gli ostelli confortevoli (e, temo, le case di tolleranza dei paesi nordici) preferendoli incredibilmente al brivido del passaggio per le mulattiere scoscese del Khyber Pass e all’avventura delle notti nei sacchi a pelo, stretti accanto al fuoco in qualche prateria del Punjab, tra tigri e cobra e, di conseguenza, la conseguente mia sdegnata rinuncia. Così, alla fine lei disse: “Beh… mi dispiace per te che ci tenevi tanto al tuo viaggio in India... però, non mi guardare male, ma avrei preferito che invece di mandarli a quel paese fossi andato a Capo Nord con i tuoi amici, così almeno non ti annoiavi e non saresti rimasto da solo” 
La guardai sorpreso. “Perché da solo? Ci sei tu, no?” 
No… non ci sarò. Siccome tu mi avevi detto che saresti stato in viaggio per almeno un mese, ne ho approfittato per iscrivermi ad un corso d’inglese a Bournemouth che desideravo tanto fare e così parto lunedì.” 
Ah… quindi starai in Inghilterra per un mese anche tu?”. 
No, sono tre mesi.. il corso a cui mi sono iscritta è trimestrale.”.
Il colpo era durissimo e cercai una mossa della disperazione. 
"Ovviamente, visto che non parto più, non puoi rinviare la partenza vero? Neanche se ti dico che potremmo andare in Istria per una settimana noi due da soli?
"Ovviamente no... anche perché si è mosso mio padre per questo e lo sai che quando si muove lui è come quando si muove la regina a scacchi e tu hai solo pezzi leggeri: non c'è partita. Ma non fare quella faccetta delusa, prendila dal lato giusto. In fondo ora, senza di me, potrai andare a vedere le partite del Venezia con i tuoi amici anche in trasferta..."

La guardai sorpreso per quella proposta che rivelava la sua grassa ignoranza sportiva. 
"Ma quali partite? Il campionato è finito da un mese e riprende a fine agosto..." 
"Vabbè, e che sarà mai? Se non gioca il Venezia, non è che crolla il mondo. In fondo puoi andare in spiaggia, fare le ore piccole in campo a parlare di politica, girare la laguna in barca e puoi anche fare le partitelle di calcio con i tuoi amici, non sei contento?" 
"Ovviamente no..." 
"Altrimenti puoi sempre preparare un paio di esami per la sessione autunnale, che non ti farebbe male. Preferisci questo?
"Ovviamente no." 
Quella sera non presi più il gelato perché mi era passata la voglia e lei, che forse un po' si sentiva in colpa, aprì una bottiglia del prezioso Glenfiddich di suo padre per riempirmene un bel bicchiere e ridare un po' di colorito al mio viso improvvisamente esangue. 

Riflettendo meglio nei giorni successivi considerai che, al di là del modo con cui mi veniva imposto, il fatto in sé non era del tutto negativo perché, malgrado fosse un sacrificio stare senza la mia compagna per tre mesi, poteva essere utile ad entrambe per ritrovare gli stimoli perduti, visto che da qualche tempo il nostro rapporto si stava trasformando in  routine e la cosa non prometteva bene. 
Così, venti giorni dopo ero con i suoi genitori a salutarla in aeroporto. Prima che passasse il cancello del volo l’abbracciai e le dissi scherzando: “Fai la brava...”. 
Lei rispose “Perché dovrei?” poi sorrise maliziosa e mi fece il segno delle corna agitandomele davanti agli occhi. 
Mi misi a ridere, la baciai, poi le bisbigliai a mezza voce: “Guarda che so benissimo che sei una zoccoletta, non c’è bisogno che me lo ricordi. Ma non farlo sapere agli inglesi”. 
Lei rise a sua volta, forse perché sapeva che avevo ragione, poi mi girai e vidi sua madre bianca in volto. Aveva sentito e non aveva riso affatto. 

In seguito, non avendo proprio l’umore giusto, con una scusa rifiutai il passaggio di ritorno dei suoi genitori e rientrai a Piazzale Roma con l’autobus. Decisi di andare a piedi fino all’Arsenale per farmi sbollire i cattivi pensieri, anche se il cielo, per una strana sintonia con il mio umore, si era incupito di colpo e aveva cominciato a piovigginare. 

Non avendo voglia di incontrare gente e volendo stare solo con le mie riflessioni, lasciai la confusione di Strada Nuova e me ne andai per le “sconte”, come i veri veneziani. Strada facendo per calli e ponti ripensavo alla profezia di mia madre su chi assaggia il dolce vino del tradimento che poi ne vorrà bere ancora e così l’angoscia che potesse succedere davvero durante il soggiorno inglese di Donatella mi fece sentire un improvviso senso di gelo nello stomaco. Provai a prendere un caffè, per vedere se mi passava, ma non fu una buona idea, perché quel senso di oppressione aumentava passo dopo passo, tanto che ad un certo punto mi venne una nausea fortissima. Sentii i sudori freddi, vidi tutto diventare blu ed ebbi appena il tempo di appoggiarmi alla balaustra della fondamenta per riprendere fiato e far passare quel malessere. 

Dovevo essere talmente messo male che una signora anziana che aveva visto la scena mi avvicinò premurosa per sapere come stessi e poi, anche se tentavo di farle capire che non era il caso e che stavo meglio, volle a tutti i costi portarmi in un bar a prendere una camomilla per aggiustare lo stomaco. 
Alla fine, anche se era una perfetta sconosciuta, poiché un nobiluomo muore ma non tace, le raccontai tutto e lei mi rassicurò con una serie di luoghi comuni sull’amore che almeno mi rasserenarono. Le offrii volentieri una tazza di cioccolata. 

Da quando avevo visto Donatella imbarcarsi al Marco Polo erano passate almeno tre ore e mezza. Così, come aprii la porta di casa vidi la lucina della segreteria telefonica che lampeggiava. Era lei che aveva già chiamato da Luton per dirmi che il volo era andato benissimo ed era arrivato in perfetto orario e a me fece impressione sapere che aveva fatto prima lei ad andare a Londra di me che dovevo tornare a casa. 

La sera, dopo aver comperato dalla tabaccaia giù dal Ponte di San Martino, che teneva anche robe di cartoleria, un bel cartoncino bristol, un righello e dei pennarelli, creai un tabellone molto grazioso graficamente dove riportavo in allegri cerchietti colorati tutti i 92 giorni che mi separavano dal ritorno di Donatella. Poi lo appesi con lo scotch in camera da letto nello spazio tra le due finestre e smarcai soddisfatto il primo giorno. Me ne mancavano novantuno, è vero, ma intanto il primo era già alle spalle. 

I primi giorni, in ogni caso, si rivelarono molto meno duri di quanto temessi, anche se all’inizio m’intristiva apparecchiare la tavola solo per me e soprattutto sentire il suo cuscino freddo accanto al mio. Non avevo alcuna voglia di fare la spesa e neppure di cucinare e dunque aprivo la scatoletta di tonno o mi portavo a casa qualche tramezzino. Per fortuna, realizzai presto che se con la mia compagna lontana ci stavo male, però almeno non avevo più orari e regole. Potevo stare a discutere con gli amici fino a tardi e potevo anche invitarli a casa mia per il bicchierino della staffa senza chiedere il permesso a nessuno. Dunque, dopo due anni di proibizionismo, iniziai di nuovo a rifornire il carrello dei liquori. Ero libero di mangiare quel che volevo e quando lo volevo, come un panino con la mortadella alle undici di sera, da buttar giù con un bicchiere raso di Merlot. L’ideale per qualche vecchio film giallo in televisione. 

Di seguito avevo riscoperto la bellezza di sgranocchiare grissini a letto leggendo un bel libro sino a notte fonda, senza nessuna che protestasse per le briciole o per la luce accesa. Inoltre, dopo aver gettato il suo cuscino in armadio tra le palline di canfora, come rappresaglia per il trattamento riservato alle mie pipe, avevo realizzato di poter finalmente dormire di traverso e scalciare via le lenzuola senza che qualcuna si lamentasse di aver freddo. Potevo anche fumare le miscele più pestifere senza aprire le finestre, suonare la chitarra acustica con l'armonica e cantare a squarciagola le canzoni di Neil Young senza nessuna che trovasse da ridire, a parte la signora Zambon del piano di sotto che batteva il tempo con la scopa sul soffitto. 

Insomma, questa era la vita che rientrava alla base. 

Siccome poi i vecchi compagni di scuola e gli amici servono sempre, dopo una convocazione telefonica per una spaghettata “alla brutta” a casa mia, si era messo subito in moto il meccanismo della solidarietà maschile e così mi avevano invitato a qualche partitella di calcio in amicizia (e nella scatola degli scarpini bullonati avevo finalmente ritrovato una delle pipe mancanti, la costosissima Charatan). 




Dopo una settimana finalmente arrivò la prima lettera di Donatella da Bournemouth. Due pagine fitte, con tanto di carta intestata dell’Università e francobollo della Regina Elisabetta sulla busta a righe rosse e blu dell’Air Mail. Constatato che, per fortuna, la lettera iniziava con un vistoso “Amore mio adorato” prima di iniziare a leggerla mi versai due dita di Laphroaig e mi sedetti comodo sul divano per assaporarla meglio. A parte tutta una serie di sue tipiche lamentazioni che m’interessavano poco sul cibo orrido, le stanze spartane, i bagni in comune e la poca acqua calda il testo conteneva descrizioni d’ambiente scontate e informazioni varie su docenti, studenti e i pub più in voga. Tutta roba archiviabile nel faldone: "Interessa una beata cippa". 

Un testo modesto e francamente deludente nello stile e nei contenuti, a riprova che la prossima laurea in lettere non le garantiva affatto di scrivere in modo interessante per il lettore. Per fortuna la lettera si chiudeva con un: “Mi manchi! Mi manchi! Mi manchiiiii!!!” sicuramente molto infantile, ma che mi mise di buonumore e pensai di essere un ragazzo fortunato. 

La settimana seguente arrivò una cartolina da Stratford on Avon dove però i “Mi manchi!” erano diventati uno solo, così come i punti esclamativi. Immaginai che fosse per risparmiare sulla tariffa postale.

Un mese dopo giunse una nuova lettera che ne era priva del tutto e mi parlava per una striminzita paginetta e mezza di gite nella New Forest, di tali Gus e Columba, due amiconi simpaticissimi (per me dal nome idiota, ma pazienza) che suonavano la chitarra da dio (perché, io no?) davanti al fuoco dei falò. Mi dichiarava di aver compreso finalmente quanto fosse piccola e provinciale Venezia (ma va in mona...) e sottolineava quanto al contrario li fosse tutto bello, ordinato, preciso e pulito, con particolare e insistito riferimento alle cabine telefoniche laccate di rosso, che dovevano averla impressionata decisamente. Un compitino tirato via in stile: “Racconta le tue vacanze” e che sembrava fatto apposta per irritarmi, anche per via di quel “baci” messo in calce alla lettera che dava la stessa emozione di un rogito notarile. Ormai in preda alle malinconie avevo anche provato a telefonarle, ma il numero che mi aveva dato sua madre risultava essere quello di un fax. 

Dopo varie ricerche, grazie all'operatore del servizio chiamate internazionali della SIP avevo trovato il numero giusto ma il centralinista del college, in onore della perfida Albione, mi aveva tenuto in linea per un quarto d'ora prima di dirmi che non sapeva chi fosse la persona che cercavo. Siccome non aveva capito una mazza del suo cognome, gli avevo fatto lo spelling ed era partito un nuovo quarto d'ora di ricerche interrotto solo da qualche “Just a moment...” e concluso alla fine mettendomi in linea con una tizia sconosciuta che sì, sapeva chi fosse Donatella, ma non era in stanza e non la si poteva rintracciare perché era andata nuovamente in gita nella New Forest con quel tizio di nome Columba e altri amici e dopo un rapido “So sorry!” mi riagganciò sbrigativamente sul muso. Mancava solo il: “Ritenta, sarai più fortunato”. Anzi, il “Try again, you will be luckier”. Ma come andò a finire e le vicende tragicomiche del suo ritorno, magari vi racconto tutto la prossima volta...

domenica 11 ottobre 2020

Quelli che sono nati nel 1948 e le Topolino amaranto le hanno viste davvero


"Sulla Topolino amaranto si va che è un incanto nel’46 " cantava Paolo Conte in una sua bellissima canzone che ogni volta che la sento ha il potere di farmi naufragare nelle più vorticose malinconie. Perché io (ahimè!) sono nato nel 1948, nel letto di casa nostra (mia madre era andata a vedere al cinema Malibran un film con Totò e aveva riso tanto da rompere le acque) e grazie alla levatrice, una signora che abitava dall'altro lato della calle e che poi, per anni, ha continuato a farmi i complimenti per quanto ero diventato grande ogni volta che mi incontrava mentre andavo a scuola, mettendomi in imbarazzo. Dunque, le Topolino amaranto le ho viste di persona, assieme alle Lancia Aprilia, alle Fiat Giardinetta e a qualche Balilla residuale. Ma ho vissuto anche gli anni di De Gasperi, Gronchi, Scelba con le sue cariche di polizia, Fanfani, Nenni e Togliatti ma pure del bandito Giuliano. Con la vecchia Radiomarelli che troneggiava in cucina, con cui anni prima si ascoltava Radio Londra, ora sentivamo le notizie sulla guerra in Corea e qualche anno dopo, con il fiato sospeso, quelle sull'invasione dell'Ungheria e la crisi di Suez, con mio padre che un paio di volte era stato svegliato nel cuore della notte per uscire in mare con la Squadra navale perché c'era aria di guerra. Da bambino ho fatto a tempo a vedere film con Amedeo Nazzari, Alida Valli, Anna Magnani e Raf Vallone e ho sentito cantare Rabagliati, mentre Nunzio Filogamo presentava Sanremo con Nilla Pizzi, Achille Togliani e il Duo Fasano. Nello sport, grazie alla Settimana Incom che precedeva i film, ho potuto vedere in azione Coppi e Bartali, Primo Carnera "il gigante buono",  i duelli automobilistici tra Fangio e Stirling Moss,  mentre l'Inter aveva ancora in squadra Benito Lorenzi detto "Veleno" e il biondo svedese Naka Skoglund dal dribbling fantasioso, nel Milan giocava Schiaffino, nella Lazio c'era Selmosson detto "raggio di luna" e la Roma aveva l'uruguagio Ghiggia, che segnando il goal della vittoria nel finale aveva fatto piangere il Brasile intero ai mondiali, mentre la Juve schierava il danese Praest, Muccinelli e Boniperti. Dunque, di quegli anni dell’immediato dopoguerra che ho vissuto da bambino e di quel modo di vivere e anche dei suoi valori conservo ricordi ancora molto intensi e profondi. Che ora provo a raccontare, man mano che mi riaffiorano alla mente.

La nostra vita, all'inizio degli anni '50, era semplice e senza aspirazioni consumistiche. Eravamo tutti, insomma, dignitosamente poveri e impegnati  a rimettere in piedi la nostra cara e sgangherata Italietta, uscita a pezzi dalla guerra. Infatti, pur in mezzo a tante vicissitudini, le fabbriche al nord, sgomberate le macerie, stavano lentamente riavviando la produzione e di lì a poco la povera gente del sud avrebbe lasciato le sue terre per affrontare (come i loro padri agli inizi del secolo) la dura vita dell’emigrante. E con loro tanti veneti e friulani che attraversavano la frontiera diretti al nord con le valigie di cartone in cerca di un futuro che qui non vedevano anche se oggi, che siamo benestanti, con la villetta stile Dallas, il Suv in garage e i dobermann che ringhiano al cancello per difendere la proprietà, facciamo finta di essercene dimenticati.



Le merci che non fossero generi di prima necessità avevano ripreso gradualmente a tornare nei negozi, ma la gente aveva ancora come necessario punto di riferimento lo stile di vita spartano degli anni di guerra e, d'altronde, non è che ci fosse molto da spendere nel superfluo. Anzi, in verità non c'era di che spendere tout court. Vi era, infatti, una larga fascia di popolazione che viveva in condizioni di reddito che oggi definiremmo d’estrema povertà ed anche la borghesia, che pure stava un tantino meglio, si arrangiava secondo livelli di vita che oggi considereremmo inaccettabili. Noi, grazie allo stipendio da ufficiale di marina (comunque statale, quindi magro per definizione...) di papà stavamo abbastanza benino, ma non tanto da permetterci quei due pasti completi al giorno cui oggi ci sottoponiamo con esiti fatali per la linea. La sera, come cena, la mamma ci presentava, infatti, un bel caffelatte (con la miscela Leone...) con tanto pane raffermo da inzuppare e - subito dopo - buonanotte, bacino e tutti a nanna. L'arancia, fonte invernale di vitamine, era solo alternativa perché con il caffelatte non ci stava e poi c'era da fare i conti con il proverbio della nonna secondo il quale "L'arancia è d'oro al mattino, d'argento al pomeriggio e di piombo alla sera". 

Tra l'altro, quando abitavamo a Taranto, al mercato si trovavano in abbondanza solo le "arance vanigliate", una varietà dolciastra e stucchevole che non mi piaceva affatto anche perché era piena di semi. Quindi vi rinunciavo volentieri. Ancora meno piacevole il ricordo delle spine dei fichi d’india che, assieme alle cozze fresche, venivano venduti sulle tante bancarelle adiacenti la passeggiata a mare nei pressi del ponte girevole. E rammento anche un pomeriggio di sgomento quando, avendo bevuto di nascosto dai miei un po’ di vino puro (che mi era tassativamente proibito) mi ricordai di colpo del curioso proverbio paterno: “latte e vino veleno sopraffino” e, soprattutto, del fatto che poco prima avevo mangiato della mozzarella, che, fino a prova contraria, era prodotta con il latte. Pertanto, essendo solo in casa e non potendo quindi contare su alcun tipo di soccorso, con socratico distacco mi rassegnai alla morte, ormai certa, per grave avvelenamento da latte e vino e mi stesi sopra il letto dei miei che - come si può ben immaginare - al loro ritorno mi ritrovarono immerso in un sonno beato, accompagnato da vigorose russate. Di lì a poco, ad ogni modo, il vino, doverosamente annacquato, mi fu concesso e mio papà m’introdusse anche alla bontà del V.A.L.Z, una bibita dissetante di sua invenzione (Vino, Acqua, Limone e Zucchero...). 


la mia Cresima a Taranto (1956) con la signora sullo sfondo in evidente crisi mistica


Tra i miei ricordi tarantini c’è ancora il cinema Lux, dove vendevano i gelati Lola con il doppio stecchino per separarlo in due parti e le litigate con mio fratello che sosteneva che spezzassi sempre il gelato a mio favore (e forse era vero...). Al cine Lux, vidi anche uno dei primi film americani di fantascienza (il pianeta proibito, mi pare si chiamasse) con un robot parlante e ne rimasi a lungo affascinato, tanto che a Natale me ne venne regalato un modellino che fu a lungo il mio giocattolo preferito. A Natale poi, a noi austeri bimbi degli anni '50, arrivava quasi sempre un unico regalo (spesso frutto di sapienti bricolage...) e, alla Befana, il calzino appeso lo si trovava riempito di qualche sparuta caramellina e di molte arance e mandarini. L'unico tesoro in mio possesso, una scatola con una trentina di cow-boy e indiani di gesso, si squagliò miseramente la volta che la dimenticai in terrazza sotto un acquazzone. Il rovescio di pianto che ne seguì fu di pari intensità di quello atmosferico.

Negli anni successivi, in quel di Venezia, il mio gioco favorito, quando non si giocava a "campanon" disegnando con il gesso sui masegni della riva i riquadri in cui saltellare a gambe unite o con un solo piede (ma a me non piaceva perchè le bambine erano molto più brave e vincevano sempre) o si pescavano le anguelle in Riva degli Schiavoni con il sughero e il pezzettino puzzolente di schia, era composto da un tacco da scarpe in gomma con il fondo tempestato di puntine da disegno per farlo scorrere con meno attrito. Con gli altri bambini si giocava a colpire le figurine dei calciatori - messe a turno in palio - lanciando da distante i tacchi e facendoli scivolare sui masegni come fossero dischetti da hockey su ghiaccio. Chi colpiva il mucchietto si teneva le figurine e poteva arricchire la sua collezione. In un luttuoso mattino del gennaio 1955 persi in un sol colpo le tre rarissime figurine di Skoglund, Montuori e Julinho e quel trauma me lo ricordo ancora oggi. 


Il robot del film "il pianeta proibito" che divenne il mio giocattolo preferito

Nelle famiglie dell’epoca, comunque, non si buttava via niente. Mamme e nonne erano delle sapienti esperte d’ogni sorta di riciclaggio di materiali domestici. Bucce d’arancia, pane raffermo, mozziconi di sapone, giornali vecchi, fiammiferi usati... tutta roba che oggi finirebbe senza remissione in pattumiera e che allora era riportata a nuova vita con una fantasia illimitata. Non parliamo poi degli avanzi di cucina, dove si sfiorava il sadismo. Il pane vecchio che non finiva nel caffelatte o che non era tostato per la grattugia (e la relativa passata al setaccio...), era riproposto bollito con una cipolla e un filo d’olio e denominato pan bògio. La sua versione extra-lusso prevedeva anche l’incorporazione nella minestra fumante di un uovo crudo. Detto uovo crudo costituiva talvolta anche la mia colazione, tranne durante i soggiorni da mia nonna paterna a Rapallo quando, visto che ce lo producevamo con un piccolo frantoio in pietra giù in cantina, mi veniva proposto del pane abbrustolito inzuppato di olio e, a richiesta, leggermente strofinato con l'aglio. Di quell'uovo, ricordo ancora con apprensione gli sforzi sovrumani per succhiarne il contenuto attraverso i forellini che la nonna praticava in punta di forbice e l’improvviso sblòpp! con cui il tuorlo e l’albume viscido mi riempivano sgradevolmente la bocca. Nell'inevitabile polpettone del venerdì, momento di sintesi della settimana, finiva di tutto, tanto da essere conosciuto presso molte famiglie (e in seguito anche alla mensa FIAT) con il sinistro appellativo di Milite ignoto. La mia mamma produceva abilmente un finto sugo di carne che era composto da un soffritto di tutte le verdure e gli aromi che insaporiscono il ragù. Ma della carne, che si mangiava, si e no, una o due volte la settimana, neppure l’ombra. 

Rimanendo sempre in tema d’economie domestiche, per i nati della mia generazione il concetto del vestitino nuovo era pressoché sconosciuto. I cappotti, i colli e i polsini delle camicie venivano puntualmente rivoltati per raddoppiarne la durata e i vestiti passavano di padre in figlio. Da un vecchio cappotto con la martingala di mio padre n’era fuoriuscito il cappottino con la martingalina che accompagnò la mia infanzia accoppiandosi nei giorni di gran freddo con i resti di un collo di lince appartenuto a mia madre e che, in seguito, terminò la sua ventennale ed onorata carriera sul cappotto di mio fratello Franco. La mia nonna materna era perennemente in azione con la sua Singer a pedale e con il gessetto bianco per segnare le stoffe sopra le carte modello quadrettate di Burda. Credo che a forza di cucire gonne e vestiti per la mia mamma e la zia, avesse pedalato almeno quanto Coppi e Bartali messi insieme. Anche per abbandonare un paio di scarpe occorreva che il calzolaio, all’ennesima richiesta di risolatura, confessasse l'impotenza della scienza calzaturiera a procedere oltre ed emanasse la luttuosa sentenza scuotendo consolato il capo (il calzolaio, in genere, non parlava mai perché aveva sempre la bocca piena di chiodini). Le signore che potevano permetterselo andavano dal parrucchiere giusto quelle tre/quattro volte l'anno per il taglio e per il resto provvedevano in proprio con messe in piega casalinghe, bigodini improvvisati e con strane alchimie per le tinture. 


il cappottino con la martingalina che poi finì a mio fratello

Più tardi, verso l’inizio degli anni sessanta e sull'onda impetuosa delle prime spinte consumistiche, sarebbe apparso in molte case, tra cui la nostra, un diabolico arnese costituito da una calotta di plastica collegata con un tubo alla bocchetta del motore del mitico aspirapolvere Folletto (quello che viene ancora oggi venduto a porta a porta...). La cosa, invertito il flusso di aspirazione, doveva funzionare come il casco del parrucchiere. In realtà, oltre a dare la sensazione che un jet stesse decollando dal salotto di casa, l’arnese forniva degli splendidi esempi di come si potesse cuocere a puntino un cuoio capelluto e renderlo invitante con una glassata di polvere. Ai figli innocenti non veniva risparmiata dalle nonne l’umiliazione del taglio casereccio a scodella o della pettinatura all’Umberto (ultima tragica eredità di Casa Savoia...) con i capelli fissati all'indietro da spatolate di untuosa brillantina Linetti. 

Tanto per continuare con qualche minimo esempio del vivere quotidiano, noi, che pure eravamo classificabili tra la media borghesia, all'epoca ci lavavamo con degli economici pani di quel sapone di Marsiglia che qualcuno continuava a fabbricarsi in casa come in tempo di guerra e che serviva indifferentemente per la faccia e per il bucato. Ma, per restare in tema di igiene personale, ricordo bene che l’uso del dentifricio era considerato da molte famiglie come un’americanata (subito dopo la guerra erano arrivati i Colgate, i Durban's e gli Squibb) e comunque superflua (e si sentiva...). Una sorte simile spettava all’uso della vasca da bagno che era molto parco e con l'acqua che veniva scaldata a parte per mancanza dello scaldabagno o per risparmio (le abluzioni di grandi e piccini avvenivano, se andava bene, con cadenza settimanale nel pomeriggio della domenica, con le nonne che sorvegliavano fuori della porta in grande apprensione). In molte case di civile abitazione (a noi capitò a Taranto, nelle case Incis dove alloggiavano molti dipendenti della Marina...) i servizi igienici, oltre ad essere il più delle volte collocati sul balcone o esternamente (incoraggiando così nelle notti gelide e piovose il poco igienico uso del pitale celato nel comodino) erano rudimentali e limitati al minimo indispensabile. Il bidè, il cui uso intensivo era limitato alle case di tolleranza, era considerato dalle famiglie normali poco più che un lavapiedi o, nel peggiore dei casi, una curiosa custodia per violino in maiolica. Esattamente come figli rassegnati mi dicono accada ancora oggi nella civilissima Inghilterra. 

Non esistevano dunque gli shampoo delicati e/o medicamentosi alle erbe medicinali, i prebarba e i dopobarba, i dentifrici antiplacca, i coloratissimi colluttori, le lacche, le creme prebagno e dopobagno i deodoranti, i saponi al pH neutro (?!) e tutte quelle cose che troneggiano ingombranti sulle mensole dei nostri due bagni di casa e senza le quali oggi ci parrebbe di non poter vivere dignitosamente. Anzi, per dirla tutta, la gente doveva lavarsi decisamente poco, tanto che, sia nelle Forze Armate che nelle scuole si svolgevano, oltre a quelle contro la tubercolosi (dove, con un’offerta di 100 lire, ti davano i francobolli e un distintivo con un lungo spillone che era una vera arma impropria) delle periodiche campagne di sensibilizzazione anti pidocchi. Mio padre, fortunatamente, ci educò da subito (da buon militare qual era) all’uso spartano del sapone e dell’abbondante acqua gelata sul collo e dietro le orecchie (le mollezze borghesi dei lavacri con l'acqua tiepida ci erano sconosciute.). 


il dentifricio come strumento fondamentale dell'armonia di coppia.


Per restare in tema di abluzioni, ricordo che la rasatura della barba di papà e del nonno consisteva in una specie di cerimonia mistica, con lunghe lisciate di rasoio (quello a lama lunga, che richiedeva la mano ferma del chirurgo e la rassicurante presenza dell’allume di rocca sulla mensola del bagno) sulla striscia di cuoio grasso attaccata vicino al lavandino e la meticolosa preparazione del sapone nella ciotola con il pennello di tasso. Ci si impiegava oltre mezz'ora, giusto il tempo di far bollire la napoletana del caffè sulla stufa economica a legna. Le cucine a gas (con la bombola) erano, infatti, ancora privilegio di pochi. In casa nostra, come quasi dappertutto, troneggiava da tempo immemorabile la cucina economica a legna che, con il suo calore diffuso, consentiva agli alimenti cotture meno traumatiche di quelle impartite dagli attuali fornelli a gas e quindi di rilasciare quietamente gli umori più suggestivi. Grazie alla cucina economica a legna, invece, era possibile mangiare delle strepitose e digeribilissime paste e fagioli (rigorosamente di Lamon) così dense da tenere il cucchiaio ritto in piedi, come esige la più nobile tradizione veneta, oppure era possibile godere di intingoli tirati "alla cassopipa" (tra questi, il sughetto di cipolle, acciughe e uvetta passita per i bigoli in salsa che veniva lasciato a consumarsi per ore quasi al...tepore di candela) ma, soprattutto, raschiare sul fondo del paiolo le più croccanti croste di polenta che si potessero concepire. Il carbone e la legna per la stufa venivano accatastati nella grande terrazza coperta di casa nostra e venivano portati su per le scale, con gerle di vimini tenute in precario equilibrio sulla testa, da facchini anneriti e seminascosti da un sacco di iuta (ecco da dove mi veniva la paura dell’uomo nero!). Dopo un rifornimento di carbone si puliva per giorni la casa dal pulviscolo nero che si depositava su tutto. Poi c'era l'omino che passava periodicamente lungo le calli gridando "Donneee...è arrivato l' ombreller ... el gua" e aveva al suo fianco  una bicicletta con una mola smerigliatrice per affilare pedalando i coltelli. Invece, in campo San Lio c'era un  tale che vendeva le "pierette" e gli accendigas con voce tonante, i pescatori pellestrinotti stavano sui ponti con le ceste piene di pesce e granchi che scappavano dappertutto e in campo Santa Maria Formosa le contadine del Montello con delle enormi gerle di vimini vendevano le uova fresche e la domenica i fiori, mentre mia nonna che abitava al quarto piano quando suonava il postino e c'era la posta da ritirare per non fare le scale calava, come facevano quasi tutti, il cestino dalla finestra  

  
Le contadine del Montello vendevano le uova fresche e la domenica i fiori

Verso la fine degli anni '50 le cose cominciarono a migliorare, l’economia tirava, c'era una sostanziale stabilità politica (anche se il governo cambiava ogni sei mesi era in ogni modo invariabilmente democristiano!) e circolava già qualche soldino in più. Si cominciava così a conoscere la sottile ebbrezza dei consumi superflui. Il nostro primo televisore fece la sua comparsa nella casa di S. Lio all’incirca nel 1957 . Era anche lui un mastodontico Radiomarelli, lungo quasi come una Topolino. Fu messo a troneggiare nel nostro salotto sopra un vezzoso mobiletto, acquistato dal premiato mobilificio Dolcetta, in salizada San Lio, che faceva pendant per cattivo gusto con la credenza dai cerbiatti serigrafati sui vetri scorrevoli (altro pregevole manufatto Dolcetta) e i centrini di pizzo sui divani. Mentre il nostro primo frigorifero arrivò a Taranto, grazie all'ufficio della Marina che faceva gli acquisti anche per il personale, ed era un massiccio Kelvinator americano, che si apriva premendo un pedale e che quando chiudevi lo sportello tremava la casa.

Tra le altre immagini curiose che restarono impresse nei miei ricordi di bambino, c'è quella del nostro medico di famiglia che per praticare a mio nonno un salasso si era presentato a casa nostra con una boccetta di vetro da cui aveva estratto delle sanguisughe che gli aveva applicato sulla schiena. Ma, del resto, mi era stato raccontato che mia madre da ragazzina era guarita dalla scarlattina mangiando pezzetti di carne di rana cruda, che probabilmente fungevano da antibiotico, dunque non mi meraviglio di nulla, anche perché per curarmi da un orzaiolo, mia nonna mi fece guardare per qualche minuto dentro la bottiglia dell'olio (peraltro senza risultato alcuno). In molte case e anche nella nostra, sopra la credenza del salotto navigava anche, dentro una boccia di cristallo, di quelle per i pesci rossi, riempita di tè, il disgustosissimo e viscido fungo cinese. Era una specie di medusa che, come la triaca veneziana, dicevano servisse da panacea contro tutti i mali conosciuti. Soprattutto, ma non si doveva dirlo in giro, faceva dimagrire le signore, che, infatti, ingurgitavano appassionatamente litri di quel tè che a me faceva venire il voltastomaco. Qualche anno dopo arrivò in casa anche un altra cosa di gran moda: un registratore a nastro Geloso, grazie al quale scoprii, con mia grande delusione, di avere la voce come Paperino. Quindi, arrivò anche l’hula hoop, con la mamma e la zia che per snellirsi i fianchi si esibivano in contorsionismi da danzatrici del ventre, con il cerchio intorno alla vita. Ma su questo stendiamo un velo pietoso...e sopravvoliamo, così come sopravvolo sulle quantità industriali di DDT che mi devo essere inalato grazie all’uso disinvolto del flit da parte dei miei parenti. Bastava, infatti, che si avvertisse il ronzio di una solitaria e misera zanzarina nella mia camera da letto perché giungesse di corsa la zia, armata di stantuffo, a pompare energicamente nuvole dall’odore acre di benzina tutt' attorno. Qualche anno più tardi il DDT fu ritirato dal commercio in tutto il mondo, in quanto fortemente cancerogeno ed inquinante. Ne trovarono tracce perfino nel fegato dei pinguini al Polo Sud. Io, però, sono sopravvissuto. 


Per Lascia o Raddoppia si fermava tutta l'Italia


Tornando alla televisione, fu un vero boom, anche se allora non esisteva che un solo canale nazionale: prendere o lasciare! Nei cinema, quando c'era Lascia o raddoppia, si sospendeva a furor di popolo la proiezione e si portava un televisore sul proscenio per consentire al pubblico di vedere le imprese di una prosperosa tabaccaia di Pordenone, tale Bolognani, dell’elegantissimo Marianini e del prof. Degoli, quello che perse un montepremi allora favoloso confondendosi sugli strumenti usati da Mozart in una tal opera lirica, facendo nascere così il controverso caso del controfagotto che divise in due l’Italia (come per Coppi e Bartali...). Anche in casa nostra, quando appariva Mike con l’Edy Campagnoli, subentrava un coprifuoco di due ore, con la tavola che neppure veniva sparecchiata per non disturbare. Soprattutto la nonna assumeva nella sua poltrona uno stato di trance ipnotico a bocca aperta, dal quale era pericolosissimo svegliarla. 

Lo stesso succedeva con il Musichiere di Mario Riva. Un giorno la nonna ritornò dal mercato di Rialto in stato di insolita eccitazione perché, ci raccontò, aveva stretto la mano di tale Spartaco D'Itri, un ruspante salumiere romano, campione in carica della trasmissione. Lo stesso era successo l’anno precedente a Taranto, quando aveva stretto la virile mano del cantante Gino Latilla. Mi sono sempre domandato, in seguito, cosa non sarebbe stata capace di fare se avesse incontrato Achille Togliani, il cantante bellone degli anni sessanta (ruolo che negli anni settanta toccò a Mal dei Primitives e, infine, a quel damerino con l’occhio da pesce lesso di Julio Iglesias). 

Da parte mia, e sempre a proposito di belloni e bellone, guardando quella stessa trasmissione mi presi una cotta tremenda per la valletta Lorella de Luca che sostituì quella, altrettanto tremenda, per l’attrice Eleonora Rossi Drago. Poi, crescendo, provai brevi (ma tremendi) trasporti per Lea Massari e Audrey Hepburn e, finalmente, approdai al mitico amore (platonico) di tutta una vita: Catherine Spaak. Un altra trasmissione che all’epoca mi piaceva moltissimo era Campanile Sera, con il povero Enzo Tortora, Silvio Noto che faceva il mimo e il gioco dell’oggetto misterioso, sul quale si cimentavano interi paesi, sindaco e parroco compresi, e che il più delle volte si rivelava essere un normalissimo rubinetto o un pelapatate, ma che, inquadrato sapientemente dalla telecamera, sembrava la testimonianza di una misteriosa tecnologia aliena. Naturalmente, in cima ai miei divertimenti si trovava lo spassosissimo Un, Due, Tre con Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello, che fu però interrotto bruscamente quando quei due ribaldi osarono fare il verso al Presidente della Repubblica che era precipitato dalla poltrona in diretta televisiva, durante la prima alla Scala di Milano. Nei palinsesti dell’epoca c’era anche una trasmissione a puntate che, stranamente, seguivo con molto interesse (ed il perché mi fu chiaro molti anni più tardi...). Si chiamava : “Viaggio lungo le rive del Po” ed era condotta dal grande scrittore Mario Soldati. Si trattava di un pigro vagabondare lungo la Val Padana alla scoperta di vini e cibi genuini. Da tale trasmissione ebbi i primi sentori della sublime esistenza del taleggio, della salama da sugo, del salame felino e del Barbaresco. 


Quando c'era solo il Mottarello fiordilatte, ricoperto o al cioccolato
 

In casa, fino all'avvento del frigorifero, avevamo anche un (quasi) lusso: la ghiacciaia. Questa era alimentata con grandi stecche di ghiaccio, dal costo di cinque lire, che erano prodotte dalla vetusta fàbrica del giàso, alla Giudecca. Le stecche venivano distribuite per la città con un apposito barcone il cui arrivo era annunciato con grandi grida dal canale. A queste, facevano subito eco le signore alle finestre, gridando per le ordinazioni. I facchini portavano in spalla le stecche su e giù per le ripide scale delle case, arpionandole con uncini di ferro tipo mattatoio. Per salire i quattro piani di casa nostra con tutto quel peso sulle spalle si accontentavano di: "un ombrèta de quèo bòn". Calcolando il numero di case visitate e di ombre conseguenti, dubito che a sera fossero in grado di reggersi in piedi. D’altronde l’offerta dell’ombra di vino, in una casa veneziana, era un fatto di normale ospitalità. Anche don Gino, il parroco di Santa Maria Formosa, quando veniva a benedire la casa con l'incenso e il chierichetto, di fronte all’offerta dell’ombra non si tirava indietro, tanto che, quando molti anni dopo, nel pieno del sessantotto, fu soprannominato il prete rosso qualcuno insinuò che fosse per via del Cabernet. 

Le lavatrici e i detersivi "che più bianco non si può" erano di là da venire. In casa nostra sarebbero arrivate intorno alla metà degli anni sessanta. Nell’attesa, i panni si lavavano dentro la rugginosa vasca da bagno sfregandoli energicamente su un asse di legno con lo spazzolone e il sapone marsigliese (sempre lui!). Per sbiancare i lenzuoli che bollivano per ore nei pentoloni si versava la cenere nell’acqua bollente, rimestando in continuazione con il bastone. Il ferro da stiro era una sorta di carro armato di pesantissima ghisa e veniva perigliosamente alimentato riempiendolo di brace incandescente prelevata dalla stufa. Soppiantati poi dai ferri elettrici e a vapore ed essendo praticamente indistruttibili, finirono la loro carriera come fermaporta vivacemente colorati. Le mamme e le nonne, oltre a stirare impeccabilmente (con la riga dei pantaloni che faceva mia nonna ci potevi affettare il pane) e a ruotare e profumare la biancheria nei cassetti con i sacchettini di lavanda, controllavano assiduamente lo stato di tenuta di tutti i bottoni, rinforzandoli all’occorrenza. Così, fino al giorno in cui cominciai finalmente a vivere fuori di casa rimasi all'oscuro del fatto che i bottoni potessero anche staccarsi. 

Dopo la conquista dell’indipendenza, e la scoperta della caducità di quegli utili accessori, mi adattai all’arte del cucire con l’entusiasmo dell’autodidatta. Ma, riuscendomi del tutto impossibile far passare un filo nella cruna di un ago senza attorcigliarlo irreversibilmente (ma come faranno le donne a farlo al primo colpo?) mi ridussi ben presto a pescare nel cestino da lavoro di mia madre esclusivamente aghi con il filo già inserito. Di conseguenza andavo in giro con i bottoni attaccati con fili dai colori più strani, cosa che faceva sghignazzare gli amici, ma inteneriva tanto le donne. Lo faccio ancora oggi, ma mia moglie non s'intenerisce. Forse ha sgamato il trucco... 


 


domenica 4 ottobre 2020

Diventa americano anche tu! Prontuario ragionato delle frasi più utilizzate su Real Time e Cielo


Lo adoro!

Esclamazione tipicamente femminile che in America esprime approvazione istantanea e incondizionata per qualsiasi abito, paio di scarpe, accessorio purché pacchiano e costoso. Gli uomini americani sostituiscono il "Lo adoro!" con il classico "Wow!" pronunciato però come un "Waaaaaouuuu" con un numero di A e di U variabile in rapporto alla meraviglia e al gradimento suscitati. Mentre il "Wow!" maschile di solito cessa il suo effetto istantaneamente nel momento in cui lo si pronuncia o Charlize Theron nel film si rimette il reggiseno ed è comunque un'emissione singola, la caratteristica del "Lo adoro!" femminile è quella di replicarsi nel tempo, soprattutto se viene pronunciato in un atelier di moda, in un negozio di profumi e cosmetici o in una gioielleria e a volte provoca effetti collaterali anche gravi sulla Master Card. L'esclamazione "Lo adoro!" in presenza di un abito da sposa spesso precede lo scoppio di pianto (vedi) mentre, se avviene nel contesto di una gara di cucina, di solito indicherà l'apprezzamento unicamente per un singolo dettaglio del piatto da valutare, dal rametto di cerfoglio messo per guarnizione, alla goccia di salsa di lamponi del dessert caduta accidentalmente sul bordo del piatto con la tempura di gamberi. Rimane comunque un mistero come si possa esclamare "La adoro!" per la purea di pastinaca, che assieme alla quinoa e alle noci di macadamia imperversa nei vari Master Chef senza che nessuno ne capisca la necessità.


Ha appena pronunciato "Lo adoro!" ed ora sta osservando l'effetto "Big meringa"
prima del previsto scoppio di pianto che perfezionerà la vendita.


Mi vien da piangere. 

Frase che di solito viene pronunciata quando, dopo essere riuscito a fare entrare a viva forza e con la promessa di ampie modifiche strutturali un'aspirante sposa da 120 chili in un abito nuziale di tre taglie più piccolo e da cinquemila dollari, dopo aver cercato invano di farle calzare quello da venticinquemila e in progressione decrescente di prezzo almeno un'altra mezza dozzina di capi, l'elegantissimo titolare del negozio, sempre sorridente ma esausto, può porre finalmente la fatidica domanda: “E’ l’abito giusto?”. A quel punto, dopo aver ammirato allo specchio l’effetto “big meringa” dell’abito strabordante di maniglie dell’amore e veli di chiffon, scoppieranno a piangere in rigorosa successione: la sposa, la mamma della sposa, la nonna della sposa (che in precedenza aveva cercato inutilmente di rifilarle il suo vestito degli anni '50) e le due damigelle rosicone che hanno stracciato i marroni a tutti disapprovando con metodo ogni vestito precedente anche quando la sposa sembrava convinta e aveva già esclamato "Lo adoro!" (vedi). Il pianto irrefrenabile, secondo la consuetudine americana, è il momento che suggella l’approvazione del contratto tra le parti e a quel punto inizierà anche quello del padre che dovrà staccare l’assegno. Il “Mi vien da piangere” è anche pronunciato da ogni concorrente di un Master Chef che presenti nell’invention test un “timballo di tortellini ripieni al cotechino con mousse di ceci, lenticchie e topinambur” di sua creazione, che, nella nostra edizione del programma, verrà subito definito da Barbieri un “mappazzone” e sarà seguito da un silenzio inquietante di Cannavacciuolo e dal piatto scagliato in pattumiera da Bastianich che veste i panni brutali di Gordon Ramsey in quello americano. In tali circostanze, normalmente il "Mi vien da piangere" è seguito a ruota dal "Sono deluso..." ma i più tenaci arrivano a rilanciare subito con il "Sono qui per vincere" (vedi) perché occorre infondere sempre al telespettatore ottimismo e positività. In un caso del genere, quando arriva l'inevitabile "Togliti il grembiule, sei fuori da Master Chef" si percepirà l'intensa soddisfazione, quasi erotica, dei giudici nel pronunciarlo.

Sono al settimo cielo.

La frase indica una località celeste che nel mondo anglosassone dev'essere affollatissima come la metropolitana di Tokyo nell'ora di punta. Infatti, nei vari programmi la salita al settimo cielo pare avvenga per qualsiasi cosa, dall'essersi aggiudicato un box a scatola chiusa (contenente solo stracci sporchi, videocassette VHS e paccottiglia) per soli settecento dollari, all'essere riuscito a squamare un salmone reale da 15 chili buttandone via solo un terzo. Ma anche dall'aver acquistato dai due fratelli in affari per soli seicentomila dollari la casa dei sogni sul limitare del bosco che andrà ristrutturata sempre che le termiti (vedi) non si portino avanti con il lavoro e una simpatica famigliola di grizzly non decida di conoscere i nuovi vicini, sino all'aver venduto al negozio dei pegni per 50 dollari il vecchio quadro di un certo Edward Hopper che il nonno teneva in casa, ovviamente dopo aver sentito il parere dell’esperto (vedi). Come la scala di Maslow anche la salita al settimo cielo può essere percorsa rovinosamente all'indietro e nelle gare di cucina di solito la frase in questione si colloca temporalmente a metà tra il “Sono qui per vincere” (vedi) e il “Sono deluso”.

Già! 

Esclamazione di cui viene fatto largo uso nei programmi ma di nessuna utilità pratica perché serve solo a confermare quanto appena detto dal concorrente precedente e agli autori per riempire qualche secondo di trasmissione e fare apparire in video una persona che altrimenti non avrebbe nulla da dire. Esempio classico il/la concorrente che afferma “La prova di oggi fa molta paura” e l’altro/a che inquadrato/a subito dopo dice con aria pensosa “Già!” senza aggiungere altro in modo che tu ti chieda quale possa essere il valore aggiunto della dichiarazione. L'uso puramente confermativo del "Già!" può presentare alcune insidie quando durante la gara uno dei concorrenti agita il pollice squartato che gronda sangue gridando "Mi sono tagliato!" e l'altro annuendo pensoso risponde "Già!" e per questo te lo pregusti riverso sul pavimento della cucina con un coltello da cucina piantato nello sterno.


Al centesimo jogurt alla banana verrà uccisa dai suoi bambini a colpi di cucchiaino
mentre il marito calvo le farà bere tutti quegli shampoo alla mela verde


Sono qui per vincere 

Convinta dichiarazione d’intenti che viene effettuata da ogni concorrente ammesso a partecipare ad un master chef o a una gara tra pasticceri e finanche tra chi possieda la malattia più imbarazzante e serve per rassicurare gli spettatori che nessun concorrente sia lì per pareggiare o perdere. Normalmente la pronuncia anche qualsiasi sposa che partecipi alla gara tra i quattro matrimoni, pur essendo consapevole che il suo si svolgerà in una chiesa rupestre persa tra le brughiere scozzesi e il ricevimento sarà nella vicina locanda con una sala da pranzo allegra come una mensa aziendale dove al suono delle cornamuse verrà servito da mesti camerieri in tartan del brodo tiepido di montone e dello haggis di interiora d’agnello. Qualche giorno fa la frase “Siamo qui per vincere!” l’ho sentita pronunciare trionfalmente in coppia da una moglie e un marito australiani che durante una gara di cucina tra cuochi amatoriali si apprestavano a servire ai giudici una polenta italiana cotta in forno e condita con aceto e limone. Non mi è stato difficile immaginare che le loro speranze di vittoria sarebbero rimaste tali… 

Farò (faccio) del mio meglio 

Enunciazione sia maschile che femminile che spesso viene equiparata a "Sono qui per vincere" in quanto apparentemente ne condivide il proposito ma che in realtà ne differisce per la presenza laica del dubbio. Nelle gare tra cuochi amatoriali, dichiararlo prima e durante la prova serve infatti per mettere la mani avanti e indossare le "iron underpants" quando si viene colti dal sospetto che forse il peperoncino Habanero nel ripieno dei calamari non ci sta molto bene e tanto meno in quella quantità. Affermare che si sta facendo del proprio meglio chiarisce comunque al telespettatore medio americano (che a questi principi è sensibile) oltre che ai giudici di gara che nessuno è lì per fare del proprio peggio o per lavorare in modo approssimativo, dunque l'Habanero non l'ho messo per caso, ma facendo del mio meglio, sappiatelo. La dichiarazione però pare non funzionare con la stessa efficacia nelle gare di cucina a coppie. Infatti quando la moglie aspetta impaziente le venti costine d'agnello da mettere al forno e il marito, a quindici minuti dalla fine, sta ancora togliendo il grassetto dalla prima, pronunciando infastidito all'ennesimo sollecito il "Sto facendo del mio meglio" verrà percosso più volte con la padella... 


Quando i giudici di Master Chef Australia ti hanno appena suggerito
un uso alternativo di tutto quel peperoncino Habanero

Sono angosciato/a

Frase che viene spesso pronunciata dai concorrenti a Master Chef quando i giudici hanno assaggiato i calamari ripieni di peperoncino Habanero e sono ancora chiusi in camera di consiglio da tre ore. Di solito i presenti che l'ascoltano replicano con un "Già!" (vedi) che in tal caso prende il significato di un "Potevi mettercene di meno, coglione..." oppure con un "Va tutto bene" (vedi) che in quel contesto significa: "Anche se hai messo le mutande di ghisa, appena escono quelli l'Habanero te lo ficcano dentro con il bazooka". Il passaggio dal "Sono angosciato" al "Sono qui per vincere" (vedi) in tali circostanze non è possibile e al massimo si potrà esprimere un "Sono deluso" prima di correre dal proctologo. La frase è anche tipica di chi ha appena acquistato la casa di campagna da ristrutturare dai due fratelli e sente il trombettiere delle termiti che suona l'adunata e anche della sposa da 120 chili di stazza che ha comperato l'abito nuziale da 5.000 dollari e tre taglie in meno e ora deve tirare su la cerniera. 


Quelli che a Masterchef Australia presentano un piatto di corn flakes
con panna e wurstel pensando: sono qui per vincere

Va tutto bene (andrà tutto bene, nella nostra variante Covid)

Frase che nella cultura pragmatista ed eternamente positiva degli americani ha un potente effetto sedativo e tranquillizzante e solitamente è presa in prestito dai film di guerra, quando il tenente la dice paternamente al suo soldato che, avendo messo il piede su una mina, ora si tiene le budella in mano, invitandolo ad essere ottimista, che tutto si risolverà per il meglio (di solito il poveretto spira un attimo dopo). In realtà, il significato corretto del "Va tutto bene" sarebbe: "Ci sei dentro fin al collo e se fossi in te nuoterei con la bocca chiusa". La frase, se utilizzata in certi contesti, nel mondo latino può assumere anche un forte contenuto ironico e provocatorio che invece nel mondo anglosassone non viene colto assolutamente. Per esempio dire "Tranquillo...va tutto bene..." quando il concorrente ha appena scoperto di aver dimenticato in forno le sue polpettine di astice e ora presenterà ai giudici una dozzina di biglie carbonizzate, di solito espone dalle nostre parti ad un immediato "Ma va a cagare, va..." mentre l'americano ti annuirà grato prima di pronunciare in rapida successione "Sono deluso " e "Sono qui per vincere" (vedi)



i fratelli furbacchioni che ti propongono la casa da ristrutturare 
perché ha delle potenzialità (per loro)


Purtroppo ci sono le termiti… 

Tipico espediente dei due fratelli in affari per far sforare di almeno cinquemila dollari il budget del cliente gonzo il quale non ha ancora capito che, spaventandolo con cifre insostenibili dopo avergli chiesto che budget avesse o mostrandogli intenzionalmente dei ruderi per demotivarlo, alla fine lo hanno indotto a comperare una casa da ristrutturare "Perché ha delle potenzialità" (esclusivamente per il loro conto corrente) ma soprattutto perché così i restauri li farà uno dei due fratelli facendo, tra l’altro, demolire a picconate le pareti al loro cliente come se fosse un simpatico gioco in amicizia. Nel caso le termiti non fossero disponibili perché la casa dista miglia da qualsiasi bosco o giardino, ci saranno sempre l'impianto idraulico o i cavi elettrici marci o non a norma da sostituire. Sia le termiti che i cavi da cambiare sono sempre annunciati dal fratello carpentiere con la camicia a quadrettoni con l’aria falsamente mesta e prima che il cliente varchi la soglia di casa con la frase: “Ci sono brutte notizie…” seguita dalla cifra di quanto costerà rimediare che, probabilmente, è quanto serve a lui per andarsene in vacanza ad Acapulco. 

Ti spiace se chiamo l’esperto? 

Frase che viene pronunciata dai titolari del negozio di pegni di “Affari di famiglia” dopo che l’astuto negoziatore di turno dalle idee chiarissime ha appena confidato fuori onda (che tanto quelli mica lo sanno) che per la sua lettera autografa di Abramo Lincoln intende chiedere almeno diecimila dollari, ma però potrebbe anche accontentarsi di cento. La convocazione dell’esperto (ne hanno sempre uno per qualsiasi cosa: dalla storia dei tappi di bottiglia, ai bottoni delle divise nordiste, dalle confezioni di supposte giapponesi della seconda guerra mondiale, sino alle figurine del baseball) in realtà serve, come nella migliore tradizione dei film di Totò a fare venire il compare che dopo aver sentenziato che per lui il reperto non vale nulla, consentirà al titolare del negozio di proporre un prezzo da strozzino motivato sempre da “Non posso darti di più perché anch’io ci devo fare un guadagno”. Alla fine, dopo una serrata trattativa a base di “Ti posso offrire al massimo trenta dollari” e di “Puoi arrivare almeno a quaranta?” le due parti si metteranno d’accordo per trentadue dollari, un pacchetto di sigarette e un ingresso al casinò di Las Vegas…