"Sulla Topolino amaranto si va che è un incanto nel’46 " cantava Paolo Conte in una sua bellissima canzone che ogni volta che la sento ha il potere di farmi naufragare nelle più vorticose malinconie. Perché io (ahimè!) sono nato nel 1948, nel letto di casa nostra (mia madre era andata a vedere al cinema Malibran un film con Totò e aveva riso tanto da rompere le acque) e grazie alla levatrice, una signora che abitava dall'altro lato della calle e che poi, per anni, ha continuato a farmi i complimenti per quanto ero diventato grande ogni volta che mi incontrava mentre andavo a scuola, mettendomi in imbarazzo. Dunque, le Topolino amaranto le ho viste di persona, assieme alle Lancia Aprilia, alle Fiat Giardinetta e a qualche Balilla residuale. Ma ho vissuto anche gli anni di De Gasperi, Gronchi, Scelba con le sue cariche di polizia, Fanfani, Nenni e Togliatti ma pure del bandito Giuliano. Con la vecchia Radiomarelli che troneggiava in cucina, con cui anni prima si ascoltava Radio Londra, ora sentivamo le notizie sulla guerra in Corea e qualche anno dopo, con il fiato sospeso, quelle sull'invasione dell'Ungheria e la crisi di Suez, con mio padre che un paio di volte era stato svegliato nel cuore della notte per uscire in mare con la Squadra navale perché c'era aria di guerra. Da bambino ho fatto a tempo a vedere film con Amedeo Nazzari, Alida Valli, Anna Magnani e Raf Vallone e ho sentito cantare Rabagliati, mentre Nunzio Filogamo presentava Sanremo con Nilla Pizzi, Achille Togliani e il Duo Fasano. Nello sport, grazie alla Settimana Incom che precedeva i film, ho potuto vedere in azione Coppi e Bartali, Primo Carnera "il gigante buono", i duelli automobilistici tra Fangio e Stirling Moss, mentre l'Inter aveva ancora in squadra Benito Lorenzi detto "Veleno" e il biondo svedese Naka Skoglund dal dribbling fantasioso, nel Milan giocava Schiaffino, nella Lazio c'era Selmosson detto "raggio di luna" e la Roma aveva l'uruguagio Ghiggia, che segnando il goal della vittoria nel finale aveva fatto piangere il Brasile intero ai mondiali, mentre la Juve schierava il danese Praest, Muccinelli e Boniperti. Dunque, di quegli anni dell’immediato dopoguerra che ho vissuto da bambino e di quel modo di vivere e anche dei suoi valori conservo ricordi ancora molto intensi e profondi. Che ora provo a raccontare, man mano che mi riaffiorano alla mente.
La nostra vita, all'inizio degli anni '50, era semplice e senza aspirazioni consumistiche. Eravamo tutti, insomma, dignitosamente poveri e impegnati a rimettere in piedi la nostra cara e sgangherata Italietta, uscita a pezzi dalla guerra. Infatti, pur in mezzo a tante vicissitudini, le fabbriche al nord, sgomberate le macerie, stavano lentamente riavviando la produzione e di lì a poco la povera gente del sud avrebbe lasciato le sue terre per affrontare (come i loro padri agli inizi del secolo) la dura vita dell’emigrante. E con loro tanti veneti e friulani che attraversavano la frontiera diretti al nord con le valigie di cartone in cerca di un futuro che qui non vedevano anche se oggi, che siamo benestanti, con la villetta stile Dallas, il Suv in garage e i dobermann che ringhiano al cancello per difendere la proprietà, facciamo finta di essercene dimenticati.
Le merci che non fossero generi di prima necessità avevano ripreso gradualmente a tornare nei negozi, ma la gente aveva ancora come necessario punto di riferimento lo stile di vita spartano degli anni di guerra e, d'altronde, non è che ci fosse molto da spendere nel superfluo. Anzi, in verità non c'era di che spendere tout court. Vi era, infatti, una larga fascia di popolazione che viveva in condizioni di reddito che oggi definiremmo d’estrema povertà ed anche la borghesia, che pure stava un tantino meglio, si arrangiava secondo livelli di vita che oggi considereremmo inaccettabili. Noi, grazie allo stipendio da ufficiale di marina (comunque statale, quindi magro per definizione...) di papà stavamo abbastanza benino, ma non tanto da permetterci quei due pasti completi al giorno cui oggi ci sottoponiamo con esiti fatali per la linea. La sera, come cena, la mamma ci presentava, infatti, un bel caffelatte (con la miscela Leone...) con tanto pane raffermo da inzuppare e - subito dopo - buonanotte, bacino e tutti a nanna. L'arancia, fonte invernale di vitamine, era solo alternativa perché con il caffelatte non ci stava e poi c'era da fare i conti con il proverbio della nonna secondo il quale "L'arancia è d'oro al mattino, d'argento al pomeriggio e di piombo alla sera".
Tra l'altro, quando abitavamo a Taranto, al mercato si trovavano in abbondanza solo le "arance vanigliate", una varietà dolciastra e stucchevole che non mi piaceva affatto anche perché era piena di semi. Quindi vi rinunciavo volentieri. Ancora meno piacevole il ricordo delle spine dei fichi d’india che, assieme alle cozze fresche, venivano venduti sulle tante bancarelle adiacenti la passeggiata a mare nei pressi del ponte girevole. E rammento anche un pomeriggio di sgomento quando, avendo bevuto di nascosto dai miei un po’ di vino puro (che mi era tassativamente proibito) mi ricordai di colpo del curioso proverbio paterno: “latte e vino veleno sopraffino” e, soprattutto, del fatto che poco prima avevo mangiato della mozzarella, che, fino a prova contraria, era prodotta con il latte. Pertanto, essendo solo in casa e non potendo quindi contare su alcun tipo di soccorso, con socratico distacco mi rassegnai alla morte, ormai certa, per grave avvelenamento da latte e vino e mi stesi sopra il letto dei miei che - come si può ben immaginare - al loro ritorno mi ritrovarono immerso in un sonno beato, accompagnato da vigorose russate. Di lì a poco, ad ogni modo, il vino, doverosamente annacquato, mi fu concesso e mio papà m’introdusse anche alla bontà del V.A.L.Z, una bibita dissetante di sua invenzione (Vino, Acqua, Limone e Zucchero...).
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la mia Cresima a Taranto (1956) con la signora sullo sfondo in evidente crisi mistica
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Tra i miei ricordi tarantini c’è ancora il cinema Lux, dove vendevano i gelati Lola con il doppio stecchino per separarlo in due parti e le litigate con mio fratello che sosteneva che spezzassi sempre il gelato a mio favore (e forse era vero...). Al cine Lux, vidi anche uno dei primi film americani di fantascienza (il pianeta proibito, mi pare si chiamasse) con un robot parlante e ne rimasi a lungo affascinato, tanto che a Natale me ne venne regalato un modellino che fu a lungo il mio giocattolo preferito. A Natale poi, a noi austeri bimbi degli anni '50, arrivava quasi sempre un unico regalo (spesso frutto di sapienti bricolage...) e, alla Befana, il calzino appeso lo si trovava riempito di qualche sparuta caramellina e di molte arance e mandarini. L'unico tesoro in mio possesso, una scatola con una trentina di cow-boy e indiani di gesso, si squagliò miseramente la volta che la dimenticai in terrazza sotto un acquazzone. Il rovescio di pianto che ne seguì fu di pari intensità di quello atmosferico.
Negli anni successivi, in quel di Venezia, il mio gioco favorito, quando non si giocava a "campanon" disegnando con il gesso sui masegni della riva i riquadri in cui saltellare a gambe unite o con un solo piede (ma a me non piaceva perchè le bambine erano molto più brave e vincevano sempre) o si pescavano le anguelle in Riva degli Schiavoni con il sughero e il pezzettino puzzolente di schia, era composto da un tacco da scarpe in gomma con il fondo tempestato di puntine da disegno per farlo scorrere con meno attrito. Con gli altri bambini si giocava a colpire le figurine dei calciatori - messe a turno in palio - lanciando da distante i tacchi e facendoli scivolare sui masegni come fossero dischetti da hockey su ghiaccio. Chi colpiva il mucchietto si teneva le figurine e poteva arricchire la sua collezione. In un luttuoso mattino del gennaio 1955 persi in un sol colpo le tre rarissime figurine di Skoglund, Montuori e Julinho e quel trauma me lo ricordo ancora oggi.
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Il robot del film "il pianeta proibito" che divenne il mio giocattolo preferito |
Nelle famiglie dell’epoca, comunque, non si buttava via niente. Mamme e nonne erano delle sapienti esperte d’ogni sorta di riciclaggio di materiali domestici. Bucce d’arancia, pane raffermo, mozziconi di sapone, giornali vecchi, fiammiferi usati... tutta roba che oggi finirebbe senza remissione in pattumiera e che allora era riportata a nuova vita con una fantasia illimitata. Non parliamo poi degli avanzi di cucina, dove si sfiorava il sadismo. Il pane vecchio che non finiva nel caffelatte o che non era tostato per la grattugia (e la relativa passata al setaccio...), era riproposto bollito con una cipolla e un filo d’olio e denominato pan bògio. La sua versione extra-lusso prevedeva anche l’incorporazione nella minestra fumante di un uovo crudo. Detto uovo crudo costituiva talvolta anche la mia colazione, tranne durante i soggiorni da mia nonna paterna a Rapallo quando, visto che ce lo producevamo con un piccolo frantoio in pietra giù in cantina, mi veniva proposto del pane abbrustolito inzuppato di olio e, a richiesta, leggermente strofinato con l'aglio. Di quell'uovo, ricordo ancora con apprensione gli sforzi sovrumani per succhiarne il contenuto attraverso i forellini che la nonna praticava in punta di forbice e l’improvviso sblòpp! con cui il tuorlo e l’albume viscido mi riempivano sgradevolmente la bocca. Nell'inevitabile polpettone del venerdì, momento di sintesi della settimana, finiva di tutto, tanto da essere conosciuto presso molte famiglie (e in seguito anche alla mensa FIAT) con il sinistro appellativo di Milite ignoto. La mia mamma produceva abilmente un finto sugo di carne che era composto da un soffritto di tutte le verdure e gli aromi che insaporiscono il ragù. Ma della carne, che si mangiava, si e no, una o due volte la settimana, neppure l’ombra.
Rimanendo sempre in tema d’economie domestiche, per i nati della mia generazione il concetto del vestitino nuovo era pressoché sconosciuto. I cappotti, i colli e i polsini delle camicie venivano puntualmente rivoltati per raddoppiarne la durata e i vestiti passavano di padre in figlio. Da un vecchio cappotto con la martingala di mio padre n’era fuoriuscito il cappottino con la martingalina che accompagnò la mia infanzia accoppiandosi nei giorni di gran freddo con i resti di un collo di lince appartenuto a mia madre e che, in seguito, terminò la sua ventennale ed onorata carriera sul cappotto di mio fratello Franco. La mia nonna materna era perennemente in azione con la sua Singer a pedale e con il gessetto bianco per segnare le stoffe sopra le carte modello quadrettate di Burda. Credo che a forza di cucire gonne e vestiti per la mia mamma e la zia, avesse pedalato almeno quanto Coppi e Bartali messi insieme. Anche per abbandonare un paio di scarpe occorreva che il calzolaio, all’ennesima richiesta di risolatura, confessasse l'impotenza della scienza calzaturiera a procedere oltre ed emanasse la luttuosa sentenza scuotendo consolato il capo (il calzolaio, in genere, non parlava mai perché aveva sempre la bocca piena di chiodini). Le signore che potevano permetterselo andavano dal parrucchiere giusto quelle tre/quattro volte l'anno per il taglio e per il resto provvedevano in proprio con messe in piega casalinghe, bigodini improvvisati e con strane alchimie per le tinture.
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il cappottino con la martingalina che poi finì a mio fratello
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Più tardi, verso l’inizio degli anni sessanta e sull'onda impetuosa delle prime spinte consumistiche, sarebbe apparso in molte case, tra cui la nostra, un diabolico arnese costituito da una calotta di plastica collegata con un tubo alla bocchetta del motore del mitico aspirapolvere Folletto (quello che viene ancora oggi venduto a porta a porta...). La cosa, invertito il flusso di aspirazione, doveva funzionare come il casco del parrucchiere. In realtà, oltre a dare la sensazione che un jet stesse decollando dal salotto di casa, l’arnese forniva degli splendidi esempi di come si potesse cuocere a puntino un cuoio capelluto e renderlo invitante con una glassata di polvere. Ai figli innocenti non veniva risparmiata dalle nonne l’umiliazione del taglio casereccio a scodella o della pettinatura all’Umberto (ultima tragica eredità di Casa Savoia...) con i capelli fissati all'indietro da spatolate di untuosa brillantina Linetti.
Tanto per continuare con qualche minimo esempio del vivere quotidiano, noi, che pure eravamo classificabili tra la media borghesia, all'epoca ci lavavamo con degli economici pani di quel sapone di Marsiglia che qualcuno continuava a fabbricarsi in casa come in tempo di guerra e che serviva indifferentemente per la faccia e per il bucato. Ma, per restare in tema di igiene personale, ricordo bene che l’uso del dentifricio era considerato da molte famiglie come un’americanata (subito dopo la guerra erano arrivati i Colgate, i Durban's e gli Squibb) e comunque superflua (e si sentiva...). Una sorte simile spettava all’uso della vasca da bagno che era molto parco e con l'acqua che veniva scaldata a parte per mancanza dello scaldabagno o per risparmio (le abluzioni di grandi e piccini avvenivano, se andava bene, con cadenza settimanale nel pomeriggio della domenica, con le nonne che sorvegliavano fuori della porta in grande apprensione). In molte case di civile abitazione (a noi capitò a Taranto, nelle case Incis dove alloggiavano molti dipendenti della Marina...) i servizi igienici, oltre ad essere il più delle volte collocati sul balcone o esternamente (incoraggiando così nelle notti gelide e piovose il poco igienico uso del pitale celato nel comodino) erano rudimentali e limitati al minimo indispensabile. Il bidè, il cui uso intensivo era limitato alle case di tolleranza, era considerato dalle famiglie normali poco più che un lavapiedi o, nel peggiore dei casi, una curiosa custodia per violino in maiolica. Esattamente come figli rassegnati mi dicono accada ancora oggi nella civilissima Inghilterra.
Non esistevano dunque gli shampoo delicati e/o medicamentosi alle erbe medicinali, i prebarba e i dopobarba, i dentifrici antiplacca, i coloratissimi colluttori, le lacche, le creme prebagno e dopobagno i deodoranti, i saponi al pH neutro (?!) e tutte quelle cose che troneggiano ingombranti sulle mensole dei nostri due bagni di casa e senza le quali oggi ci parrebbe di non poter vivere dignitosamente. Anzi, per dirla tutta, la gente doveva lavarsi decisamente poco, tanto che, sia nelle Forze Armate che nelle scuole si svolgevano, oltre a quelle contro la tubercolosi (dove, con un’offerta di 100 lire, ti davano i francobolli e un distintivo con un lungo spillone che era una vera arma impropria) delle periodiche campagne di sensibilizzazione anti pidocchi. Mio padre, fortunatamente, ci educò da subito (da buon militare qual era) all’uso spartano del sapone e dell’abbondante acqua gelata sul collo e dietro le orecchie (le mollezze borghesi dei lavacri con l'acqua tiepida ci erano sconosciute.).
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il dentifricio come strumento fondamentale dell'armonia di coppia. |
Per restare in tema di abluzioni, ricordo che la rasatura della barba di papà e del nonno consisteva in una specie di cerimonia mistica, con lunghe lisciate di rasoio (quello a lama lunga, che richiedeva la mano ferma del chirurgo e la rassicurante presenza dell’allume di rocca sulla mensola del bagno) sulla striscia di cuoio grasso attaccata vicino al lavandino e la meticolosa preparazione del sapone nella ciotola con il pennello di tasso. Ci si impiegava oltre mezz'ora, giusto il tempo di far bollire la napoletana del caffè sulla stufa economica a legna. Le cucine a gas (con la bombola) erano, infatti, ancora privilegio di pochi. In casa nostra, come quasi dappertutto, troneggiava da tempo immemorabile la cucina economica a legna che, con il suo calore diffuso, consentiva agli alimenti cotture meno traumatiche di quelle impartite dagli attuali fornelli a gas e quindi di rilasciare quietamente gli umori più suggestivi. Grazie alla cucina economica a legna, invece, era possibile mangiare delle strepitose e digeribilissime paste e fagioli (rigorosamente di Lamon) così dense da tenere il cucchiaio ritto in piedi, come esige la più nobile tradizione veneta, oppure era possibile godere di intingoli tirati "alla cassopipa" (tra questi, il sughetto di cipolle, acciughe e uvetta passita per i bigoli in salsa che veniva lasciato a consumarsi per ore quasi al...tepore di candela) ma, soprattutto, raschiare sul fondo del paiolo le più croccanti croste di polenta che si potessero concepire. Il carbone e la legna per la stufa venivano accatastati nella grande terrazza coperta di casa nostra e venivano portati su per le scale, con gerle di vimini tenute in precario equilibrio sulla testa, da facchini anneriti e seminascosti da un sacco di iuta (ecco da dove mi veniva la paura dell’uomo nero!). Dopo un rifornimento di carbone si puliva per giorni la casa dal pulviscolo nero che si depositava su tutto. Poi c'era l'omino che passava periodicamente lungo le calli gridando "Donneee...è arrivato l' ombreller ... el gua" e aveva al suo fianco una bicicletta con una mola smerigliatrice per affilare pedalando i coltelli. Invece, in campo San Lio c'era un tale che vendeva le "pierette" e gli accendigas con voce tonante, i pescatori pellestrinotti stavano sui ponti con le ceste piene di pesce e granchi che scappavano dappertutto e in campo Santa Maria Formosa le contadine del Montello con delle enormi gerle di vimini vendevano le uova fresche e la domenica i fiori, mentre mia nonna che abitava al quarto piano quando suonava il postino e c'era la posta da ritirare per non fare le scale calava, come facevano quasi tutti, il cestino dalla finestra
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Le contadine del Montello vendevano le uova fresche e la domenica i fiori |
Verso la fine degli anni '50 le cose cominciarono a migliorare, l’economia tirava, c'era una sostanziale stabilità politica (anche se il governo cambiava ogni sei mesi era in ogni modo invariabilmente democristiano!) e circolava già qualche soldino in più. Si cominciava così a conoscere la sottile ebbrezza dei consumi superflui. Il nostro primo televisore fece la sua comparsa nella casa di S. Lio all’incirca nel 1957 . Era anche lui un mastodontico Radiomarelli, lungo quasi come una Topolino. Fu messo a troneggiare nel nostro salotto sopra un vezzoso mobiletto, acquistato dal premiato mobilificio Dolcetta, in salizada San Lio, che faceva pendant per cattivo gusto con la credenza dai cerbiatti serigrafati sui vetri scorrevoli (altro pregevole manufatto Dolcetta) e i centrini di pizzo sui divani. Mentre il nostro primo frigorifero arrivò a Taranto, grazie all'ufficio della Marina che faceva gli acquisti anche per il personale, ed era un massiccio Kelvinator americano, che si apriva premendo un pedale e che quando chiudevi lo sportello tremava la casa.
Tra le altre immagini curiose che restarono impresse nei miei ricordi di bambino, c'è quella del nostro medico di famiglia che per praticare a mio nonno un salasso si era presentato a casa nostra con una boccetta di vetro da cui aveva estratto delle sanguisughe che gli aveva applicato sulla schiena. Ma, del resto, mi era stato raccontato che mia madre da ragazzina era guarita dalla scarlattina mangiando pezzetti di carne di rana cruda, che probabilmente fungevano da antibiotico, dunque non mi meraviglio di nulla, anche perché per curarmi da un orzaiolo, mia nonna mi fece guardare per qualche minuto dentro la bottiglia dell'olio (peraltro senza risultato alcuno). In molte case e anche nella nostra, sopra la credenza del salotto navigava anche, dentro una boccia di cristallo, di quelle per i pesci rossi, riempita di tè, il disgustosissimo e viscido fungo cinese. Era una specie di medusa che, come la triaca veneziana, dicevano servisse da panacea contro tutti i mali conosciuti. Soprattutto, ma non si doveva dirlo in giro, faceva dimagrire le signore, che, infatti, ingurgitavano appassionatamente litri di quel tè che a me faceva venire il voltastomaco. Qualche anno dopo arrivò in casa anche un altra cosa di gran moda: un registratore a nastro Geloso, grazie al quale scoprii, con mia grande delusione, di avere la voce come Paperino. Quindi, arrivò anche l’hula hoop, con la mamma e la zia che per snellirsi i fianchi si esibivano in contorsionismi da danzatrici del ventre, con il cerchio intorno alla vita. Ma su questo stendiamo un velo pietoso...e sopravvoliamo, così come sopravvolo sulle quantità industriali di DDT che mi devo essere inalato grazie all’uso disinvolto del flit da parte dei miei parenti. Bastava, infatti, che si avvertisse il ronzio di una solitaria e misera zanzarina nella mia camera da letto perché giungesse di corsa la zia, armata di stantuffo, a pompare energicamente nuvole dall’odore acre di benzina tutt' attorno. Qualche anno più tardi il DDT fu ritirato dal commercio in tutto il mondo, in quanto fortemente cancerogeno ed inquinante. Ne trovarono tracce perfino nel fegato dei pinguini al Polo Sud. Io, però, sono sopravvissuto.
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Per Lascia o Raddoppia si fermava tutta l'Italia
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Tornando alla televisione, fu un vero boom, anche se allora non esisteva che un solo canale nazionale: prendere o lasciare! Nei cinema, quando c'era Lascia o raddoppia, si sospendeva a furor di popolo la proiezione e si portava un televisore sul proscenio per consentire al pubblico di vedere le imprese di una prosperosa tabaccaia di Pordenone, tale Bolognani, dell’elegantissimo Marianini e del prof. Degoli, quello che perse un montepremi allora favoloso confondendosi sugli strumenti usati da Mozart in una tal opera lirica, facendo nascere così il controverso caso del controfagotto che divise in due l’Italia (come per Coppi e Bartali...). Anche in casa nostra, quando appariva Mike con l’Edy Campagnoli, subentrava un coprifuoco di due ore, con la tavola che neppure veniva sparecchiata per non disturbare. Soprattutto la nonna assumeva nella sua poltrona uno stato di trance ipnotico a bocca aperta, dal quale era pericolosissimo svegliarla.
Lo stesso succedeva con il Musichiere di Mario Riva. Un giorno la nonna ritornò dal mercato di Rialto in stato di insolita eccitazione perché, ci raccontò, aveva stretto la mano di tale Spartaco D'Itri, un ruspante salumiere romano, campione in carica della trasmissione. Lo stesso era successo l’anno precedente a Taranto, quando aveva stretto la virile mano del cantante Gino Latilla. Mi sono sempre domandato, in seguito, cosa non sarebbe stata capace di fare se avesse incontrato Achille Togliani, il cantante bellone degli anni sessanta (ruolo che negli anni settanta toccò a Mal dei Primitives e, infine, a quel damerino con l’occhio da pesce lesso di Julio Iglesias).
Da parte mia, e sempre a proposito di belloni e bellone, guardando quella stessa trasmissione mi presi una cotta tremenda per la valletta Lorella de Luca che sostituì quella, altrettanto tremenda, per l’attrice Eleonora Rossi Drago. Poi, crescendo, provai brevi (ma tremendi) trasporti per Lea Massari e Audrey Hepburn e, finalmente, approdai al mitico amore (platonico) di tutta una vita: Catherine Spaak. Un altra trasmissione che all’epoca mi piaceva moltissimo era Campanile Sera, con il povero Enzo Tortora, Silvio Noto che faceva il mimo e il gioco dell’oggetto misterioso, sul quale si cimentavano interi paesi, sindaco e parroco compresi, e che il più delle volte si rivelava essere un normalissimo rubinetto o un pelapatate, ma che, inquadrato sapientemente dalla telecamera, sembrava la testimonianza di una misteriosa tecnologia aliena. Naturalmente, in cima ai miei divertimenti si trovava lo spassosissimo Un, Due, Tre con Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello, che fu però interrotto bruscamente quando quei due ribaldi osarono fare il verso al Presidente della Repubblica che era precipitato dalla poltrona in diretta televisiva, durante la prima alla Scala di Milano. Nei palinsesti dell’epoca c’era anche una trasmissione a puntate che, stranamente, seguivo con molto interesse (ed il perché mi fu chiaro molti anni più tardi...). Si chiamava : “Viaggio lungo le rive del Po” ed era condotta dal grande scrittore Mario Soldati. Si trattava di un pigro vagabondare lungo la Val Padana alla scoperta di vini e cibi genuini. Da tale trasmissione ebbi i primi sentori della sublime esistenza del taleggio, della salama da sugo, del salame felino e del Barbaresco.
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Quando c'era solo il Mottarello fiordilatte, ricoperto o al cioccolato
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In casa, fino all'avvento del frigorifero, avevamo anche un (quasi) lusso: la ghiacciaia. Questa era alimentata con grandi stecche di ghiaccio, dal costo di cinque lire, che erano prodotte dalla vetusta fàbrica del giàso, alla Giudecca. Le stecche venivano distribuite per la città con un apposito barcone il cui arrivo era annunciato con grandi grida dal canale. A queste, facevano subito eco le signore alle finestre, gridando per le ordinazioni. I facchini portavano in spalla le stecche su e giù per le ripide scale delle case, arpionandole con uncini di ferro tipo mattatoio. Per salire i quattro piani di casa nostra con tutto quel peso sulle spalle si accontentavano di: "un ombrèta de quèo bòn". Calcolando il numero di case visitate e di ombre conseguenti, dubito che a sera fossero in grado di reggersi in piedi. D’altronde l’offerta dell’ombra di vino, in una casa veneziana, era un fatto di normale ospitalità. Anche don Gino, il parroco di Santa Maria Formosa, quando veniva a benedire la casa con l'incenso e il chierichetto, di fronte all’offerta dell’ombra non si tirava indietro, tanto che, quando molti anni dopo, nel pieno del sessantotto, fu soprannominato il prete rosso qualcuno insinuò che fosse per via del Cabernet.
Le lavatrici e i detersivi "che più bianco non si può" erano di là da venire. In casa nostra sarebbero arrivate intorno alla metà degli anni sessanta. Nell’attesa, i panni si lavavano dentro la rugginosa vasca da bagno sfregandoli energicamente su un asse di legno con lo spazzolone e il sapone marsigliese (sempre lui!). Per sbiancare i lenzuoli che bollivano per ore nei pentoloni si versava la cenere nell’acqua bollente, rimestando in continuazione con il bastone. Il ferro da stiro era una sorta di carro armato di pesantissima ghisa e veniva perigliosamente alimentato riempiendolo di brace incandescente prelevata dalla stufa. Soppiantati poi dai ferri elettrici e a vapore ed essendo praticamente indistruttibili, finirono la loro carriera come fermaporta vivacemente colorati. Le mamme e le nonne, oltre a stirare impeccabilmente (con la riga dei pantaloni che faceva mia nonna ci potevi affettare il pane) e a ruotare e profumare la biancheria nei cassetti con i sacchettini di lavanda, controllavano assiduamente lo stato di tenuta di tutti i bottoni, rinforzandoli all’occorrenza. Così, fino al giorno in cui cominciai finalmente a vivere fuori di casa rimasi all'oscuro del fatto che i bottoni potessero anche staccarsi.
Dopo la conquista dell’indipendenza, e la scoperta della caducità di quegli utili accessori, mi adattai all’arte del cucire con l’entusiasmo dell’autodidatta. Ma, riuscendomi del tutto impossibile far passare un filo nella cruna di un ago senza attorcigliarlo irreversibilmente (ma come faranno le donne a farlo al primo colpo?) mi ridussi ben presto a pescare nel cestino da lavoro di mia madre esclusivamente aghi con il filo già inserito. Di conseguenza andavo in giro con i bottoni attaccati con fili dai colori più strani, cosa che faceva sghignazzare gli amici, ma inteneriva tanto le donne. Lo faccio ancora oggi, ma mia moglie non s'intenerisce. Forse ha sgamato il trucco...