mercoledì 12 luglio 2017

Delle rocciose genti del Cadore, dei ricordi indiscreti delle signore anziane e dell'epica battaglia dello stracotto d'asino


La scena si svolge durante un sabato sera d'estate di qualche anno fa in un albergo di montagna, il giorno prima della partenza. L’elfa ed io, seduti in veranda sotto una stellata memorabile eravamo intenti a scacciare le malinconie della vacanza quasi finita sorseggiando il caffè e le grappe al cumino del dopo cena conversando amabilmente con due simpaticissime signore, casuali vicine di tavolino, una delle quali una volta appurato come fossimo veneziani a nostra volta (anche se sulla venezianità dell’elfa ci sarebbe da discutere) mi aveva raccontato di essere stata la proprietaria del bel negozio di biancheria che c’era tanti anni fa in Salizada San Lio, quello vicino all’orefice. Appena le avevo rivelato di essere nato e di aver vissuto per diverso tempo proprio dalle parti di campo San Lio e di ricordare benissimo il suo negozio, era accaduta una di quelle sorprese straordinarie che a volte ci riserva la vita. Infatti, la signora, dopo avermi scrutato per bene, aveva sorriso di colpo come se avesse trovato il ricordo che cercava dicendomi divertita: “Ah! Ma lei non sarà mica il figlio della signora Carla, la pittrice?" e dopo la mia risposta affermativa aveva subito proseguito: "Lo sa che la sua mamma era una mia cliente affezionata e veniva sempre a comperare i costumi da bagno da me? Era tanto simpatica, ma così esigente … mi faceva diventare matta, sa? C’era sempre qualcosa che non le andava e me ne faceva tirare fuori a decine, poi però me ne comperava anche due o tre assieme”. 

Quell’ultimo dettaglio mi diede la conferma che si trattava proprio di quell’eccentrica spendacciona di mia madre e rese del tutto superflua l’ulteriore informazione che a volte veniva a fare acquisti anche con la fidanzatina di uno dei figli (che ero io). Mi era ben noto, infatti, che Donatella in quegli anni si era fatta un intero corredo di biancheria intima e costumi a spese nostre grazie alla tendenza di mia madre, che l’adorava, a riempirla di regalini e quando quelle due amicone uscivano a negozi assieme il nostro modesto conto in banca subiva dei veri e propri smottamenti. In tutto questo l’elfa mi osservava deliziata dal racconto e con l’aria di dire “Quindi, tua madre regalava allegramente costumi alle tue fidanzatine, mentre tu a me….”. 

Ma non ebbi tempo di preoccuparmene perché la signora, dopo i rituali “Oh! Ma che divertente!” e “Ma tu guarda la combinazione!” e le previste considerazioni sulla piccolezza del mondo che ci aveva fatto incontrare tanti anni dopo in un piccolo albergo sull'Alpago, divenne subito preda della sindrome da rimembranze in stile “Carramba, che sorpresa!” decidendo di dar fondo a tutta la sua indiscrezione che doveva essere di notevoli proporzioni. 
“Lei, dunque, dovrebbe essere il figlio chitarrista con i capelli lunghi. Quello che la faceva disperare con lo studio, giusto?” 
“Temo di sì… sono il figlio lungocrinito, come mi definiva per distinguermi dall’altro di pelo corto” 
La mia interlocutrice ridacchiò soddisfatta della mia ammissione.
“Allora, caro il mio signore, ora che ho capito chi ho di fronte non se ne stia lì così tranquillo perché adesso le farò andare la grappa di traverso. Guardi che io so tutto di lei… altarini compresi".


Piccoli paesini, grandi pettegolezzi...

Sentendo i propositi della signora l’elfa si era messa comoda sulla poltroncina e aveva assunto l’aria del “Questa proprio non me la perdo...” mentre io, pur essendo abbastanza certo dei miei trascorsi di rettitudine, posavo il bicchiere sul tavolino per precauzione. Infatti, mia madre, che normalmente era una persona molto riservata, sulle mie vicende era un libro aperto forse perché essendole io molto simile per carattere viveva la sfida di farmi crescere con particolare coinvolgimento e quando la deludevo se ne doleva molto e non lo nascondeva. Comunque, essendo curioso di scoprire se stava bluffando e cosa sapesse davvero di me, dopo aver rabboccato il bicchiere con un altro goccetto di grappa sfidai la signora a vuotare il sacco dei ricordi. Però, come quando in una partita a poker vai a vedere il gioco dell’altro sicuro che non possa avere in mano più di una doppia coppia e invece gli è entrato il full, non fu una buona idea perché mia madre a suo tempo doveva proprio essersi sfogata per bene con quella donna raccontandole che io ero lo sciagurato sovversivo del Manifesto che tornava con il naso rotto dai cortei, la faceva stare in pena perché rientravo a notte fonda da chissà dove, frequentava chissà quale gente trinariciuta, pensava a tutto fuorché a studiare e, come se non bastasse, dava tante amarezze a quella povera ragazza così di buona famiglia che l’accompagnava a comperare i costumi nel suo negozio. E qui a momenti mi andava la grappa di traverso perché sulla bontà della famiglia di Donatella non potevo discutere, ma sul definirla una povera ragazza, beh... insomma, diciamo che avrei avuto molto da dire a mia volta.
Alla fine la signora, accorgendosi di avere esagerato un tantino, decise di lanciarmi un’ancora di salvezza evidenziando almeno un aspetto positivo delle mie vicende personali “Però lei, se ben ricordo, era quello che giocava bene a bridge e faceva i tornei con la mamma. E' vero?
Ma, sfortunatamente, i ricordi della signora, precisissimi fino a lì, in quel frangente avevano cannato completamente bruciando l'unica possibilità di un punto a mio favore. 
No, mi spiace, ma purtroppo anche in questo il figlio virtuoso era mio fratello. Mia madre ha cercato invano per anni di coinvolgermi con il bridge, mandandomi perfino a lezione al Circolo e insistendo in ogni modo e sino al punto di usare subdolamente la carta Donatella, immagino corrotta a suon di costumi, pur di convincermi. Tanto che alla fine per reazione ho iniziato a giocare a scacchi. Ai suoi occhi era uno dei miei peccati originali…” 

L’imbarazzo crescente fu interrotto dal trillo una volta tanto salvifico del telefonino. Si trattava di un nostro amico veneziano che essendo a sua volta in vacanza con la moglie dalle nostre parti ci invitava a raggiungerli la mattina seguente per pranzare assieme in una malga sperduta tra i monti e i prati al confine tra il Cadore e la Val di Fassa che conoscevano solo loro e dove si degustavano vere prelibatezze locali per tacere dei formaggi d’alpeggio prodotti direttamente nella vicina casèra. Accettammo entusiasticamente anche perché, visto che il nostro programma per la domenica prevedeva solo il ritorno a Venezia, era l’occasione per regalarsi ancora qualche ora di montagna.


La malghe sperdute in montagna conosciute solo dai pochi eletti

I nostri amici ci aspettavano verso mezzogiorno sulla porta del loro albergo e appena saliti in macchina ci diedero le istruzioni per raggiungere la malga che era all'inizio della Val Fredda e a cui si accedeva da una piccola strada sterrata salendo verso il passo di San Pellegrino. Essendo uomo di mondo e sapendo come la montagna la domenica sia strapiena di gitanti m’informai subito se avessero prenotato e per che ora, ma mi venne risposto che quel locale lì lo conoscevano solo i pochi eletti che lo avevano scovato e non serviva prenotare. Infatti, appena arrivati sul posto fummo accolti da una lunga fila di auto parcheggiate sino a duecento metri di distanza dalla malga che appariva brulicante di eletti. Così fummo costretti a ripiegare in cerca di altre soluzioni iniziando, di locale in locale e di paese in paese, a collezionare tutta una serie di “Siamo al completo”, “Mi spiace, ma è tutto prenotato.” sino al classico: “Se volete aspettare… ma vi avverto che c’è almeno un’ ora di attesa…(che poi si raddoppia)”. Verso le due, discendendo in disordine e senza speranza le valli che avevamo risalito con orgogliosa sicurezza, facemmo l’ultimo disperato tentativo di mettere qualcosa sotto i denti a Canale d'Agordo, un piccolo paesino lungo la strada tra Falcade e Cencenighe Agordino.

Quando scopri che gli eletti che conoscono le malghe sperdute in montagna
sono alcune migliaia e tu non hai prenotato.

L’unico ristorante del luogo era un locale dall'aria anonima proprio nella piazzetta dove a fianco della chiesa e del campanile erano parcheggiati due autobus turistici e a giudicare dal vociare che ci giungeva da una delle finestre aperte non ci voleva molto a capire dove si stessero rifocillando i passeggeri. Però all'ingresso del locale faceva bella mostra di sé una lavagna con la scritta: “Oggi stracotto d’asino e polenta e finferli” e questo migliorò sensibilmente il mio umore, ma solo per pochi attimi perché prima ancora che potessimo varcare la soglia per chiedere se c’era posto giunse una cameriera per avvisarci che il cane non poteva entrare, ma che però, se volevamo, girando attorno all'edificio potevamo accomodarci sulla loro terrazza belvedere all'aperto che aveva un ingresso a parte e lì il cane ci poteva stare, purché al guinzaglio.

La terrazza era una sorta di grande ballatoio in legno che dava su un ruscelletto sottostante che dalla strada non si vedeva ed anche se l’unico panorama offerto dal “belvedere” era abbastanza modesto trattandosi unicamente della boscaglia sull'altra riva, sembrava comunque carina oltre che deserta. Prendemmo posto su uno dei tavoloni con le panche, sotto l’ombra di un paio di ombrelloni bianchi. Appena seduti, non ci fu neanche il tempo di chiederci “Chissà se qui fuori, con il ristorante pieno, si ricorderanno di noi? “ che giunse con apprezzabile solerzia la cameriera di prima per prepararci rapidamente il tavolo con delle tovagliette di carta e le posate avvolte nei tovaglioli. Appena terminato e prima di rientrare nel ristorante ci informò che l’elenco delle pizze era stampato sulle tovagliette e che tra un attimo sarebbe ritornata per le ordinazioni. Quattro paia di occhi (cinque con quelli del cane) la guardarono stupiti “Pizze? Ma noi non siamo qui per le pizze. Noi vorremmo…” 
La ragazza c’interruppe subito con fare deciso. 
Qui in terrazza facciamo solo servizio pizzeria. Se volete pranzare con il menù del giorno dovete sedervi dentro, però vi ho già detto che il cane non ci può stare”.


Quello che per colpa sua non ci fanno entrare nei ristoranti

Detto questo rientrò nel locale, mentre il bretone assumeva l’aria mesta del colpevolizzato e tra di noi si apriva il dibattito sul da farsi. Alla fine la mia mozione d’ordine dal titolo “Alziamo i tacchi e lasciamo questo luogo gastronomicamente inospitale” fu messa in minoranza grazie all'azione disfattista delle signore felici di non dover fare un pasto completo e abituate a mangiare solo il centro della pizza perché il bordo è solo pane e fa ingrassare. In aggiunta a ciò, il nostro amico avanzò la considerazione che ormai non aveva senso cercare altri ristoranti in zona con il rischio di trovarli strapieni e di arrivare all'ora di chiusura delle cucine. Di conseguenza il gruppo si rassegnò alle pizze. Tutti tranne uno, che appena la cameriera ebbe preso nota delle ordinazioni disse: “Io invece prenderò lo stracotto d’asino con la polenta. Ne avete ancora, vero?” 
“Dovrebbero essercene rimaste ancora alcune porzioni, ma quello però, come ho detto prima, lo deve venire a mangiare dentro” 
“Perché dentro?” 
“Perché questa è la pizzeria, il ristorante è all’interno” 
“Si ma la terrazza fa parte dello stesso locale e lei è la stessa cameriera che serve al ristorante. Perché non posso avere lo stracotto d’asino qui?” 

La cameriera, una ragazzotta ben piantata, con i capelli raccolti a chignon e un allegro grembiulino a fiorellini che strideva con tutta quella fermezza, si mise le mani sui fianchi come per intimidire quel cliente così puntiglioso. “Perché questa è la pizzeria e qui serviamo solo pizze” 
“Certo, lo capisco benissimo, mi creda. Lei mi dice che la terrazza è l’area della pizzeria e quindi si servono pizze. Logica stringente, non fa una piega. Ma mi faccia capire… lei non può oltrepassare la porta che separa la terrazza dal ristorante con un piatto di stracotto d’asino con la polenta?” 
“No… a questi tavoli esterni possiamo servire solo pizze” 
"Sì, questo mi è chiaro e non l'ho dimenticato. Ma proprio non può fare un'eccezione per una volta? Non se ne accorgerebbe nessuno, resterebbe un segreto tra lei e me e io non le farei di certo la spia."
“Le ripeto che a questi tavoli esterni possiamo servire solo pizze”
L'elfa, dopo avermi rifilato un calcetto negli stinchi sotto al tavolo sibilò "Avranno un problema di licenza. Non insistere e sbrigati ad ordinare..." ma ormai quella faccenda dello stracotto era diventata una sorta di sfida personale che avrei dovuto risolvere con la mia consueta creatività.
Ma se io le vengo incontro fin sulla soglia della porta del ristorante e lei mi passa il piatto di stracotto senza oltrepassarla, può essere la soluzione? Me lo porterei da solo al tavolo e quindi sarei io ad infrangere le regole, non lei ”. 
“No, non si può….”
"Neanche se vengo a prendere il piatto in cucina mentre lei magari è a servire al banco e non mi vede?" 
"No..."
“Apprezzo la coerenza, ma davvero non esiste un modo per risolvere il problema?” 
“Se proprio vuole, visto che a quei signori gli ho già portato il conto, tra due minuti si libera il tavolo vicino a questa finestra che io ora le apro, così lei può sedersi lì, ordinare il menù del ristorante con lo stracotto e continuare a parlare con i suoi amici sulla terrazza.” 


Il sorrisetto di quella che ha già capito che tanto lo stracotto d'asino non lo mangerò

Presi quella proposta come una provocazione e stavo per replicare duramente, ma poi incrociai lo sguardo di Morena che era lo stesso di Orazio Nelson a Trafalgar un attimo prima di pronunciare la frase: “L’ Inghilterra si aspetta che ognuno faccia il suo dovere” e mi fu subito chiaro che il mio dovere era quello di porre termine immediatamente a quella discussione che ritardava l’arrivo delle pizze di tutti. Quindi, non volendo irritare l’Inghilterra ed avendo una certa padronanza delle tecniche negoziali decisi di spiazzare quell'avversaria irriducibile cambiando improvvisamente l'obiettivo. Se non potevo raggiungere il miglior risultato possibile, cioè lo stracotto mangiato al tavolo in terrazza e non volendo ottenere il peggior risultato possibile, cioè il digiuno sdegnato e con le palle in giostra, potevo ricorrere allo “stile rapido” di Cristoforo Colombo e puntare con decisione al risultato realistico-accettabile. In fondo, se non potevo avere dalla regina Isabella la flotta spagnola e un intero corpo di spedizione, piuttosto che essere cacciato a calci nel sedere dal palazzo reale potevo pur sempre scoprire l’America con tre piccole caravelle ed essere ugualmente soddisfatto. 
Allora rinuncio allo stracotto d’asino, anche perché immagino che a quest’ora è probabile che sia finito. Però, visto che siamo in montagna vorrei mangiare qualcosa di tipico e non una banale pizza da città. Ho visto che oggi avete anche i finferli con la polenta, ma pure quelli dovrei ordinarli al ristorante, giusto?” 
Sì…” 
“Però, se rimango qui in terrazza posso ordinare una pizza ai funghi, vero?” 
“Certo…è nel menù della pizzeria, abbiamo la funghi semplice e la prosciutto e funghi” 
“Perfetto, ci siamo quasi… ora mi segua: i finferli cosa sono?” 
“Beh… sono funghi…” 
“Ottimo… allora mi porti una pizza con i finferli… abbondanti se possibile e senza prosciutto” 
A quel punto i nostri amici e l’elfa seguirono entusiasti le mie orme cambiando le loro ordinazioni in favore della pizza con i finferli da me appena ideata. 
Messa con le spalle al muro dalla mia logica stringente la cameriera, che almeno disponeva di un’etica sportiva, dovette cedere, ma giunta sulla soglia della porta che la riconduceva nel ristorante si girò per scagliare l’ultima freccia .
“Però qui non posso portarvi la polenta di contorno”. 
“Sopravviveremo lo stesso…” fu la risposta corale.

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