giovedì 27 luglio 2017

Di quelli che in autobus raccontano al telefono ad alta voce i fatti propri per farli sentire a tutti.


Ore dieci del mattino, devo andare in centro, vicino a Via Cappuccina e prendo l'autobus. E' abbastanza pienotto, ma trovo posto vicino ad una giovane signora elegantina impegnata a telefonare. Provo ad estraniarmi dai fatti suoi spegnendo l'audio, ma non ci riesco perchè il suo tono di voce è troppo alto per non sentire quel che racconta alla sua interlocutrice e che qui riporto fedelmente, scusandomi con i non veneziani se non traduco il nostro dialetto (comunque è comprensibile) ma è dai tempi di Goldoni che è efficacissimo per pettegolezzi che in italiano perderebbero molto:

“Ti sa che geri go visto la Barbara? Eh… già… la gera vinti giorni che non la se fasèva vèdar, ma mi lo sentivo che ghe gera sotto qualcossa, anca parché non la podeva esser in ferie, che mi passo sotto casa sua tutte le mattine e le finestre le gera sempre verte. Poarèta, solo a vardarla la me ga fato un peccà… eh sì… la gaveva l’aria da quea che ghe xe appena morto el gato… 
Già, proprio la Barbara, che la xè sempre tanto allegra… così go capìo che la gaveva vogia de sfogarse, poarèta... e semo andae a torse un caffè. Insomma… la me ga contà che el mese scorso gà scovèrto che so marìo ghe metteva i corni… sì… lui... so marìo Gianni…. lo conosci, no? proprio queo là, eh… che el ga tanto l’aria da mona che no ti ghe daressi quattro schei e invece… 
Come la ga fatto a savèrlo? E ciò… quel mona el se gà desmentegà el telefonin a casa e cussì ea ga letto le mail che ghe mandava st’ altra. La Barbara, poarèta, la me ga dito che i se scriveva de quee robe che la se ga parfin sentìo mal… chi la xe ea? Certo che la conossi anca ti... la xè la Debora, ti sa la parrucchiera del Lady Fashion? Sì, la biondina…. brava, proprio quea che la gà la Citroen bianca… che po’ anca sto mona de Gianni… ti gà do fioi, na famègia … cossa ti te meti co ‘na fietta de vinti anni? Comunque… quando el xe tornà a casa la Barbara ghe ga mostrà indriomàn el telefonin. Lui cosa ga dito? Niente… nol ga gnanca provà a dir de no, el ga confessà subito, come se la fusse stada una roba normale… ti sa come che i fa lori, no? Ghe ga dito che per lu el gera un momento difficile, che el gaveva bisogno de ritrovarse… e qui e là… polenta e baccalà… e alla fine la Barbara lo ga butà fora de casa. Si.. sì, lo gà butà fora,… eh lo so che la gà fato ben, ghe lo go dito anca mi… 
El Giani che ga fato? Ah, non si sa…el sarà andà a dormir da so mama o da qualche amigo, anca parché subito dopo la Barbara la gà telefonà a la Debora e la ga desfàda, che la ga fata pianzer e non penso proprio che ora i staga più assieme. Sì ma no la xe miga finìa, parchè il beò xe che domenega la Barbara la ga sentìo sonàr il campanèo e la se gà trovà di fronte Gianni che el gera vegnùo par domandarghe perdono e le me ga dito che el pianseva come un putèo e… oh… spetta... spetta che so rìvada, che gò da scendere…" 

Beh... non ci crederete, ma per un momento sono stato tentato di scendere anch'io alla fermata della signora per sapere come andava a finire. Non s'interrompe così un emozione.

martedì 25 luglio 2017

Di quelli che si tuffano nei canali e della proposta di trasformare Venezia nella più grande piscina pubblica del mondo.


Quando questa mattina ho letto l’intervista di Oliviero Toscani sulla Nuova Venezia a proposito dei tuffi e delle nuotate nei canali sul momento mi sono indignato, perché di solito quando gli artisti fanno delle provocazioni a volte queste contengono delle scintille di genialità e altre volte sono unicamente delle grandi stronzate dette solo per uscire dal dimenticatoio e riavere un momento di notorietà e questa aveva tutta l’aria di esserlo. Infatti, l’Oliviero, visto che a quanto pare il turista medio brama tuffarsi nei suoi canali ed è difficile impedirglielo, a questo punto proponeva di trasformare Venezia nella più grande piscina pubblica del mondo, che sarebbe come dire “siccome non si riesce ad evitare che ci siano quelli che passano con il rosso, allora aboliamo i semafori”. Ovviamente, visto che a Venezia le logiche “spenna turisti” sono ormai la prassi, la sua proposta prevedeva accortamente di far pagare un biglietto per l’accesso alla città trasformata in piscina, in modo da ripartire poi gli incassi tra gli operatori turistici e il Comune i cui bilanci ne avrebbero tratto grande giovamento. 

Naturalmente, l’ammontare delle tariffe per la balneazione turistica avrebbe dovuto essere affrontato in una fase successiva, magari con un apposito gruppo di studio o un comitato di tutti gli operatori di settore. Perché devo ritenere che, come accade per le spiagge al Lido, dove un conto è prendere la capanna all’Excelsior o al Des Bains e un conto è farlo agli Alberoni o in Zona A, il prezzo del biglietto debba variare a seconda del pregio turistico della zona. Una nuotata in un rio secondario della Celestia o davanti alle Casermette dell’Arsenale non può avere lo stesso costo di un tuffo dal Ponte di Rialto o dal pontile davanti alla basilica della Salute. Così come immagino e spero che il costo di due sdraio e un ombrellone in Piazza San Marco, non solo perché vi suona l’orchestrina del Florian e vi sono i portici delle Procuratie per pranzare all’ombra, sia diverso da quello di campo Sant’Alvise o dell’Angelo Raffaele, destinati ad un’utenza più “popolare” e giornaliera.


Campo Angelo Raffaele Beach, come potrebbe essere...

Purtroppo la rivoluzionaria proposta di Oliviero Toscani non affronta alcuni problemini “minori”, tipo che fare del traffico dei vaporetti e delle centinaia di barche da trasporto che percorrono i canali da destinare alla balneazione e che dunque, una volta trasformata Venezia nella più grande piscina mondiale, non potrebbero di certo passare tra le famigliole di bagnanti e i loro canotti di gomma e, come conseguenza di tutto questo, anche come riqualificare al ruolo di bagnino (con appositi corsi del FSE?) i vigili addetti al controllo del traffico acqueo che finirebbero in esubero. Ma non solo, perché c’è anche da capire come convincere le pantegane a trasferirsi in terraferma sul Marzenego (incentivi all’esodo? agevolazioni fiscali sull’acquisto della prima tana?). Soprattutto, però, la proposta non sembra affrontare il problema di come rifare ex novo la rete fognaria della città che fin dal medioevo scarica i suoi liquami in acqua confidando nella forza pulitrice della marea oltre alla necessità di ripulire e ripavimentare il fondo dei canali con delle belle piastrelle in maiolica azzurra, che farebbe tanto piscina olimpionica. Questo perché altrimenti la USL troverebbe di sicuro da ridire sulla balneazione e difficilmente i nostri canali otterrebbero la certificazione d’eccellenza della Bandiera Blu. 

Come dicevo, fino a questo punto mi sono indignato per la proposta di Oliviero Toscani, ma poi proseguendo nella lettura mi è diventato subito chiaro quale ne fosse stata la fonte d’ispirazione. Infatti il nostro, alla stregua di un personaggio burlone di Signore e Signori (non a caso ambientato nella marca trevigiana) che ha fatto qualche giro di troppo tra un bianchetto e l’altro ti fa subito capire che in realtà sta perculando il giornalista che lo intervista quando propone anche di riempire i canali di prosecco in modo che la gente vi possa nuotare e bere in allegria. Che francamente, a parte il problema di quelli che fanno pipì in acqua, la proposta per un veneziano ha un suo fascino indubbio, anche se però m’induce a porre un quesito all’anziano e geniale spiritosone: “scusa Oliviero, ma intendi prosecco fermo o con le bollicine? Perché in tal caso potremmo fare di Venezia anche la più grande Jacuzzi del mondo”. Pensiamoci, fratellli veneziani, pensiamoci…

martedì 18 luglio 2017

Delle astuzie dell'elfa e del patto del Tango


Eppure avrei dovuto conoscerle le astuzie della mia elfa per ottenere subdolamente quel che desidera sfruttando i miei frequenti momenti di modica attenzione. Nel caso in questione, lei ha usato la tecnica collaudata delle domande a grappolo sulle solite menate da fare in casa alle quali di solito, quando sono seduto al computer per lavorare sulle foto o per scrivere, rispondo di sì distrattamente, in automatico e talvolta mettendo l’audio al minimo. Infatti, ero intento a lavorare con Lightroom sulle luci di un paesaggio quando lei è arrivata di sorpresa alle mie spalle chiedendo: 
“Hai portato fuori il cane?” 
“Sì”
“Hai preso il pane?
"Sì”
“Hai dato acqua alle piante?”
“Sì”
“Vieni al corso di tango?”
“Sì”
“Hai rifatto i letti?”
“Sì”
“Hai steso la biancheria?”
“Sì, cioè no…. ”
“Come? L’hai stesa sì o no?”
“Sì, la biancheria l’ho stesa… mi riferivo a due domande prima, al corso di tango. Non ho alcuna intenzione di venirci...”
L'elfa ridacchiò soddisfatta, perché era lì che mi aspettava.
“Mi dispiace Carluccio, ormai quel che è detto è detto… rien ne va plus ”
“No, dai....hai ottenuto il mio sì con l'inganno, mi avvalgo del quinto emendamento e della facoltà di non capire.”
“A parte che il quinto emendamento riguarda la facoltà di non rispondere e tu mi stai rispondendo, comunque ti avevo già iscritto qualche giorno fa, volevo solo la tua conferma e ora ce l’ho… in ogni caso il corso c’è solo un paio di sere a settimana, lo fanno qui vicino, che ci possiamo andare anche a piedi, così magari passeggiamo assieme romanticamente e non hai nemmeno la scusa che l’Inter gioca in Coppa, perché tanto so che quest’anno le coppe non le fa…”
Quest'ultima sua affermazione, oltre all'inganno perpetrato introduceva anche uno scenario nuovo e inquietante.
“Fammi capire… ma ti sei iscritta anche tu?”
“Sì, certo…”
“Ma allora proprio non conosci vergogna… è un corso per principianti, tu balli tango da almeno dieci anni, che ci vieni a fare?” 
L'elfa fece subito quella faccettina innocente che le riesce tanto bene quando vuole sviare i miei sospetti.
“Ti aiuto e ti faccio compagnia, che altro?”
“No, bellezza... diciamo invece che, siccome sei malfidente, hai paura che non mi presenti a lezione e vuoi controllare che ci vada... ho indovinato?”
“Beh… effettivamente c’è qualche gelateria lungo la strada e anche qualche bar con ottimi spritz e cicchetti che potrebbero indurre l’uomo in tentazione… comunque sia, il corso è a metà settembre e hai tutto il tempo di prepararti spiritualmente”.


Mi sa che questa volta mi tocca proprio...

A quel punto, non potendo modificare l'esito del negoziato, provai almeno ad inserire qualche clausola di salvaguardia a mio favore.
“Va bene, ormai vedo che non mi lasci scampo, anche perché so perfettamente che se ora mi tirassi indietro, mi pianteresti un muso epico e inizieresti la guerriglia domestica quotidiana con scassamenti di palle devastanti, però almeno esigo che venga stipulato tra noi un patto ferreo e intangibile che accetterai senza discutere. La pongo come una conditio sine qua non per confermarti il sì”
“Quale sarebbe?”
“Ti avverto ora per allora che alla prima volta che tu oserai esclamare “Stai attento! Ma cosa fai? il piede va messo così e non come fai tu. Concentrati! Sei sempre il solito…” io mi metterò elegantemente sull'attenti davanti a te, accennerò ad un inchino molto charmant, ti farò il baciamano e, dopo aver salutato il maestro e i presenti, abbandonerò all'istante la lezione senza fiatare, per non farvi più ritorno”.
“Va bene, accetto, ma facciamo che sia alla terza volta?”
“Va bene… siamo d’accordo: tre strikes e sei fuori, come a baseball…” . 
Subito dopo, una vigorosa stretta di mano ha suggellato il patto tra me e l'elfa.
Ecco, lo scrivo qui sul mio blog perché siccome conosco la mia furbetta, voglio che anche le amiche, gli amici e pure nostro figlio che mi legge dalla Germania siano testimoni e garanti del patto, casomai qualcuna di mia conoscenza poi sconfinasse al quarto strike e magari anche al quinto…

mercoledì 12 luglio 2017

Delle rocciose genti del Cadore, dei ricordi indiscreti delle signore anziane e dell'epica battaglia dello stracotto d'asino


La scena si svolge durante un sabato sera d'estate di qualche anno fa in un albergo di montagna, il giorno prima della partenza. L’elfa ed io, seduti in veranda sotto una stellata memorabile eravamo intenti a scacciare le malinconie della vacanza quasi finita sorseggiando il caffè e le grappe al cumino del dopo cena conversando amabilmente con due simpaticissime signore, casuali vicine di tavolino, una delle quali una volta appurato come fossimo veneziani a nostra volta (anche se sulla venezianità dell’elfa ci sarebbe da discutere) mi aveva raccontato di essere stata la proprietaria del bel negozio di biancheria che c’era tanti anni fa in Salizada San Lio, quello vicino all’orefice. Appena le avevo rivelato di essere nato e di aver vissuto per diverso tempo proprio dalle parti di campo San Lio e di ricordare benissimo il suo negozio, era accaduta una di quelle sorprese straordinarie che a volte ci riserva la vita. Infatti, la signora, dopo avermi scrutato per bene, aveva sorriso di colpo come se avesse trovato il ricordo che cercava dicendomi divertita: “Ah! Ma lei non sarà mica il figlio della signora Carla, la pittrice?" e dopo la mia risposta affermativa aveva subito proseguito: "Lo sa che la sua mamma era una mia cliente affezionata e veniva sempre a comperare i costumi da bagno da me? Era tanto simpatica, ma così esigente … mi faceva diventare matta, sa? C’era sempre qualcosa che non le andava e me ne faceva tirare fuori a decine, poi però me ne comperava anche due o tre assieme”. 

Quell’ultimo dettaglio mi diede la conferma che si trattava proprio di quell’eccentrica spendacciona di mia madre e rese del tutto superflua l’ulteriore informazione che a volte veniva a fare acquisti anche con la fidanzatina di uno dei figli (che ero io). Mi era ben noto, infatti, che Donatella in quegli anni si era fatta un intero corredo di biancheria intima e costumi a spese nostre grazie alla tendenza di mia madre, che l’adorava, a riempirla di regalini e quando quelle due amicone uscivano a negozi assieme il nostro modesto conto in banca subiva dei veri e propri smottamenti. In tutto questo l’elfa mi osservava deliziata dal racconto e con l’aria di dire “Quindi, tua madre regalava allegramente costumi alle tue fidanzatine, mentre tu a me….”. 

Ma non ebbi tempo di preoccuparmene perché la signora, dopo i rituali “Oh! Ma che divertente!” e “Ma tu guarda la combinazione!” e le previste considerazioni sulla piccolezza del mondo che ci aveva fatto incontrare tanti anni dopo in un piccolo albergo sull'Alpago, divenne subito preda della sindrome da rimembranze in stile “Carramba, che sorpresa!” decidendo di dar fondo a tutta la sua indiscrezione che doveva essere di notevoli proporzioni. 
“Lei, dunque, dovrebbe essere il figlio chitarrista con i capelli lunghi. Quello che la faceva disperare con lo studio, giusto?” 
“Temo di sì… sono il figlio lungocrinito, come mi definiva per distinguermi dall’altro di pelo corto” 
La mia interlocutrice ridacchiò soddisfatta della mia ammissione.
“Allora, caro il mio signore, ora che ho capito chi ho di fronte non se ne stia lì così tranquillo perché adesso le farò andare la grappa di traverso. Guardi che io so tutto di lei… altarini compresi".


Piccoli paesini, grandi pettegolezzi...

Sentendo i propositi della signora l’elfa si era messa comoda sulla poltroncina e aveva assunto l’aria del “Questa proprio non me la perdo...” mentre io, pur essendo abbastanza certo dei miei trascorsi di rettitudine, posavo il bicchiere sul tavolino per precauzione. Infatti, mia madre, che normalmente era una persona molto riservata, sulle mie vicende era un libro aperto forse perché essendole io molto simile per carattere viveva la sfida di farmi crescere con particolare coinvolgimento e quando la deludevo se ne doleva molto e non lo nascondeva. Comunque, essendo curioso di scoprire se stava bluffando e cosa sapesse davvero di me, dopo aver rabboccato il bicchiere con un altro goccetto di grappa sfidai la signora a vuotare il sacco dei ricordi. Però, come quando in una partita a poker vai a vedere il gioco dell’altro sicuro che non possa avere in mano più di una doppia coppia e invece gli è entrato il full, non fu una buona idea perché mia madre a suo tempo doveva proprio essersi sfogata per bene con quella donna raccontandole che io ero lo sciagurato sovversivo del Manifesto che tornava con il naso rotto dai cortei, la faceva stare in pena perché rientravo a notte fonda da chissà dove, frequentava chissà quale gente trinariciuta, pensava a tutto fuorché a studiare e, come se non bastasse, dava tante amarezze a quella povera ragazza così di buona famiglia che l’accompagnava a comperare i costumi nel suo negozio. E qui a momenti mi andava la grappa di traverso perché sulla bontà della famiglia di Donatella non potevo discutere, ma sul definirla una povera ragazza, beh... insomma, diciamo che avrei avuto molto da dire a mia volta.
Alla fine la signora, accorgendosi di avere esagerato un tantino, decise di lanciarmi un’ancora di salvezza evidenziando almeno un aspetto positivo delle mie vicende personali “Però lei, se ben ricordo, era quello che giocava bene a bridge e faceva i tornei con la mamma. E' vero?
Ma, sfortunatamente, i ricordi della signora, precisissimi fino a lì, in quel frangente avevano cannato completamente bruciando l'unica possibilità di un punto a mio favore. 
No, mi spiace, ma purtroppo anche in questo il figlio virtuoso era mio fratello. Mia madre ha cercato invano per anni di coinvolgermi con il bridge, mandandomi perfino a lezione al Circolo e insistendo in ogni modo e sino al punto di usare subdolamente la carta Donatella, immagino corrotta a suon di costumi, pur di convincermi. Tanto che alla fine per reazione ho iniziato a giocare a scacchi. Ai suoi occhi era uno dei miei peccati originali…” 

L’imbarazzo crescente fu interrotto dal trillo una volta tanto salvifico del telefonino. Si trattava di un nostro amico veneziano che essendo a sua volta in vacanza con la moglie dalle nostre parti ci invitava a raggiungerli la mattina seguente per pranzare assieme in una malga sperduta tra i monti e i prati al confine tra il Cadore e la Val di Fassa che conoscevano solo loro e dove si degustavano vere prelibatezze locali per tacere dei formaggi d’alpeggio prodotti direttamente nella vicina casèra. Accettammo entusiasticamente anche perché, visto che il nostro programma per la domenica prevedeva solo il ritorno a Venezia, era l’occasione per regalarsi ancora qualche ora di montagna.


La malghe sperdute in montagna conosciute solo dai pochi eletti

I nostri amici ci aspettavano verso mezzogiorno sulla porta del loro albergo e appena saliti in macchina ci diedero le istruzioni per raggiungere la malga che era all'inizio della Val Fredda e a cui si accedeva da una piccola strada sterrata salendo verso il passo di San Pellegrino. Essendo uomo di mondo e sapendo come la montagna la domenica sia strapiena di gitanti m’informai subito se avessero prenotato e per che ora, ma mi venne risposto che quel locale lì lo conoscevano solo i pochi eletti che lo avevano scovato e non serviva prenotare. Infatti, appena arrivati sul posto fummo accolti da una lunga fila di auto parcheggiate sino a duecento metri di distanza dalla malga che appariva brulicante di eletti. Così fummo costretti a ripiegare in cerca di altre soluzioni iniziando, di locale in locale e di paese in paese, a collezionare tutta una serie di “Siamo al completo”, “Mi spiace, ma è tutto prenotato.” sino al classico: “Se volete aspettare… ma vi avverto che c’è almeno un’ ora di attesa…(che poi si raddoppia)”. Verso le due, discendendo in disordine e senza speranza le valli che avevamo risalito con orgogliosa sicurezza, facemmo l’ultimo disperato tentativo di mettere qualcosa sotto i denti a Canale d'Agordo, un piccolo paesino lungo la strada tra Falcade e Cencenighe Agordino.

Quando scopri che gli eletti che conoscono le malghe sperdute in montagna
sono alcune migliaia e tu non hai prenotato.

L’unico ristorante del luogo era un locale dall'aria anonima proprio nella piazzetta dove a fianco della chiesa e del campanile erano parcheggiati due autobus turistici e a giudicare dal vociare che ci giungeva da una delle finestre aperte non ci voleva molto a capire dove si stessero rifocillando i passeggeri. Però all'ingresso del locale faceva bella mostra di sé una lavagna con la scritta: “Oggi stracotto d’asino e polenta e finferli” e questo migliorò sensibilmente il mio umore, ma solo per pochi attimi perché prima ancora che potessimo varcare la soglia per chiedere se c’era posto giunse una cameriera per avvisarci che il cane non poteva entrare, ma che però, se volevamo, girando attorno all'edificio potevamo accomodarci sulla loro terrazza belvedere all'aperto che aveva un ingresso a parte e lì il cane ci poteva stare, purché al guinzaglio.

La terrazza era una sorta di grande ballatoio in legno che dava su un ruscelletto sottostante che dalla strada non si vedeva ed anche se l’unico panorama offerto dal “belvedere” era abbastanza modesto trattandosi unicamente della boscaglia sull'altra riva, sembrava comunque carina oltre che deserta. Prendemmo posto su uno dei tavoloni con le panche, sotto l’ombra di un paio di ombrelloni bianchi. Appena seduti, non ci fu neanche il tempo di chiederci “Chissà se qui fuori, con il ristorante pieno, si ricorderanno di noi? “ che giunse con apprezzabile solerzia la cameriera di prima per prepararci rapidamente il tavolo con delle tovagliette di carta e le posate avvolte nei tovaglioli. Appena terminato e prima di rientrare nel ristorante ci informò che l’elenco delle pizze era stampato sulle tovagliette e che tra un attimo sarebbe ritornata per le ordinazioni. Quattro paia di occhi (cinque con quelli del cane) la guardarono stupiti “Pizze? Ma noi non siamo qui per le pizze. Noi vorremmo…” 
La ragazza c’interruppe subito con fare deciso. 
Qui in terrazza facciamo solo servizio pizzeria. Se volete pranzare con il menù del giorno dovete sedervi dentro, però vi ho già detto che il cane non ci può stare”.


Quello che per colpa sua non ci fanno entrare nei ristoranti

Detto questo rientrò nel locale, mentre il bretone assumeva l’aria mesta del colpevolizzato e tra di noi si apriva il dibattito sul da farsi. Alla fine la mia mozione d’ordine dal titolo “Alziamo i tacchi e lasciamo questo luogo gastronomicamente inospitale” fu messa in minoranza grazie all'azione disfattista delle signore felici di non dover fare un pasto completo e abituate a mangiare solo il centro della pizza perché il bordo è solo pane e fa ingrassare. In aggiunta a ciò, il nostro amico avanzò la considerazione che ormai non aveva senso cercare altri ristoranti in zona con il rischio di trovarli strapieni e di arrivare all'ora di chiusura delle cucine. Di conseguenza il gruppo si rassegnò alle pizze. Tutti tranne uno, che appena la cameriera ebbe preso nota delle ordinazioni disse: “Io invece prenderò lo stracotto d’asino con la polenta. Ne avete ancora, vero?” 
“Dovrebbero essercene rimaste ancora alcune porzioni, ma quello però, come ho detto prima, lo deve venire a mangiare dentro” 
“Perché dentro?” 
“Perché questa è la pizzeria, il ristorante è all’interno” 
“Si ma la terrazza fa parte dello stesso locale e lei è la stessa cameriera che serve al ristorante. Perché non posso avere lo stracotto d’asino qui?” 

La cameriera, una ragazzotta ben piantata, con i capelli raccolti a chignon e un allegro grembiulino a fiorellini che strideva con tutta quella fermezza, si mise le mani sui fianchi come per intimidire quel cliente così puntiglioso. “Perché questa è la pizzeria e qui serviamo solo pizze” 
“Certo, lo capisco benissimo, mi creda. Lei mi dice che la terrazza è l’area della pizzeria e quindi si servono pizze. Logica stringente, non fa una piega. Ma mi faccia capire… lei non può oltrepassare la porta che separa la terrazza dal ristorante con un piatto di stracotto d’asino con la polenta?” 
“No… a questi tavoli esterni possiamo servire solo pizze” 
"Sì, questo mi è chiaro e non l'ho dimenticato. Ma proprio non può fare un'eccezione per una volta? Non se ne accorgerebbe nessuno, resterebbe un segreto tra lei e me e io non le farei di certo la spia."
“Le ripeto che a questi tavoli esterni possiamo servire solo pizze”
L'elfa, dopo avermi rifilato un calcetto negli stinchi sotto al tavolo sibilò "Avranno un problema di licenza. Non insistere e sbrigati ad ordinare..." ma ormai quella faccenda dello stracotto era diventata una sorta di sfida personale che avrei dovuto risolvere con la mia consueta creatività.
Ma se io le vengo incontro fin sulla soglia della porta del ristorante e lei mi passa il piatto di stracotto senza oltrepassarla, può essere la soluzione? Me lo porterei da solo al tavolo e quindi sarei io ad infrangere le regole, non lei ”. 
“No, non si può….”
"Neanche se vengo a prendere il piatto in cucina mentre lei magari è a servire al banco e non mi vede?" 
"No..."
“Apprezzo la coerenza, ma davvero non esiste un modo per risolvere il problema?” 
“Se proprio vuole, visto che a quei signori gli ho già portato il conto, tra due minuti si libera il tavolo vicino a questa finestra che io ora le apro, così lei può sedersi lì, ordinare il menù del ristorante con lo stracotto e continuare a parlare con i suoi amici sulla terrazza.” 


Il sorrisetto di quella che ha già capito che tanto lo stracotto d'asino non lo mangerò

Presi quella proposta come una provocazione e stavo per replicare duramente, ma poi incrociai lo sguardo di Morena che era lo stesso di Orazio Nelson a Trafalgar un attimo prima di pronunciare la frase: “L’ Inghilterra si aspetta che ognuno faccia il suo dovere” e mi fu subito chiaro che il mio dovere era quello di porre termine immediatamente a quella discussione che ritardava l’arrivo delle pizze di tutti. Quindi, non volendo irritare l’Inghilterra ed avendo una certa padronanza delle tecniche negoziali decisi di spiazzare quell'avversaria irriducibile cambiando improvvisamente l'obiettivo. Se non potevo raggiungere il miglior risultato possibile, cioè lo stracotto mangiato al tavolo in terrazza e non volendo ottenere il peggior risultato possibile, cioè il digiuno sdegnato e con le palle in giostra, potevo ricorrere allo “stile rapido” di Cristoforo Colombo e puntare con decisione al risultato realistico-accettabile. In fondo, se non potevo avere dalla regina Isabella la flotta spagnola e un intero corpo di spedizione, piuttosto che essere cacciato a calci nel sedere dal palazzo reale potevo pur sempre scoprire l’America con tre piccole caravelle ed essere ugualmente soddisfatto. 
Allora rinuncio allo stracotto d’asino, anche perché immagino che a quest’ora è probabile che sia finito. Però, visto che siamo in montagna vorrei mangiare qualcosa di tipico e non una banale pizza da città. Ho visto che oggi avete anche i finferli con la polenta, ma pure quelli dovrei ordinarli al ristorante, giusto?” 
Sì…” 
“Però, se rimango qui in terrazza posso ordinare una pizza ai funghi, vero?” 
“Certo…è nel menù della pizzeria, abbiamo la funghi semplice e la prosciutto e funghi” 
“Perfetto, ci siamo quasi… ora mi segua: i finferli cosa sono?” 
“Beh… sono funghi…” 
“Ottimo… allora mi porti una pizza con i finferli… abbondanti se possibile e senza prosciutto” 
A quel punto i nostri amici e l’elfa seguirono entusiasti le mie orme cambiando le loro ordinazioni in favore della pizza con i finferli da me appena ideata. 
Messa con le spalle al muro dalla mia logica stringente la cameriera, che almeno disponeva di un’etica sportiva, dovette cedere, ma giunta sulla soglia della porta che la riconduceva nel ristorante si girò per scagliare l’ultima freccia .
“Però qui non posso portarvi la polenta di contorno”. 
“Sopravviveremo lo stesso…” fu la risposta corale.