Tutto sembrava
filare a gonfie vele nell'appartamento padovano che mia madre aveva affittato per facilitarmi negli studi (che erano proprio l'unica cosa che non filava) anche perché, pur avendolo subito trasformato in alcova e centro permanente di dissolutezze e cazzeggiamenti vari, avevo perfino lucrato un trenta in sociologia, che allora lo davano anche al postino che portava le raccomandate, ma in famiglia, dato che lo ignoravano, ne menavo gran vanto. Una sera, però, arrivò la telefonata che mandò ogni cosa all'aria. Era la
proposta di un'audizione e di una successiva scrittura per suonare come
orchestra di classe turistica a bordo delle navi da crociera dell'Adriatica di
Navigazione.
Come i miei lettori ricorderanno, oltre ad
esplorare le frontiere del piacere con la mia Donatella (fate finta di crederci, si sa che in queste cose i maschietti
esagerano sempre) e dell’alta gastronomia con il pulet à la merde, in quel primo anno di università mi
dedicavo con grande trasporto al mio complesso rock, nato ancora ai tempi del
liceo.
In quegli anni imparavi a suonare la chitarra anche per strada, da sconosciuti. |
Prima di compiere l'errore dell'appartamento, l'altro grande sbaglio di mia madre era stato quello di
regalarmi tra mille raccomandazioni perché non trascurassi lo studio (ma
figuriamoci) una chitarra acustica in offerta stracciata da Barera, in
Merceria. La
chitarra in questione era di un orrido colore giallastro (che la rendeva
invendibile a prezzo normale) e con una tastiera dura come un manico di scopa e
a momenti ti pagavano loro purché la portassi via. Ma essendo un giovane di grande ingegno, sostituii subito le corde ruvide che scorticavano le
dita con quelle lisce da chitarra elettrica per poterle “tirare su” e appena
finito il doloroso apprendistato sul giro di do e il barrè dopo
qualche mese la permutai con la mia prima chitarra elettrica, un’eccellente
Zerosette Castelfidardo alla quale in seguito associaì una Fender Esquire a una
piastra (che conservo ancora) e infine, la mitica Stratocaster di Jimi Hendrix
(rivenduta quasi subito per cause sentimentali). Quindi, con altri quattro amici e compagni
di classe tra i quali Emanuele che avevo persuaso subdolamente a fare il
bassista (che per rimorchiare era la cosa più sfigata e dunque mica lo potevo fare io)
fondai un complessino ad imitazione di un effimero gruppetto di Liverpool che
allora andava tanto di moda ma di certo sarebbe svanito dopo il primo disco:
The Beatles.
Gli inizi non
furono brillanti, tanto che mia madre richiesta di un giudizio sul mio
fragoroso accompagnamento di “She loves you” rispose gelidamente: “Davi l’impressione di
un’armatura medioevale che rotola per una scalinata”. Questo,
integrato da altri giudizi corrosivi sulla mia capacità di cantante, m'indusse
presto a trasformarmi in chitarra solista. In ogni caso, del tutto
corazzato contro i giudizi negativi che attribuivo comunque ad incompetenza,
per un più completo adeguamento al ruolo mi lasciai anche crescere i capelli
quasi sino alle spalle ed assunsi l’aspetto educatamente trasandato che poi
caratterizzò anche l’imminente stagione dell’impegno politico. A causa del
nuovo look affrontai stoicamente anche il martirio quotidiano del “Quando li tagli?” al quale mia madre, che per distinguermi da mio
fratello con le sue amiche mi chiamava: “Il figlio lungocrinito”, si dedicava con impegno.
In versione "figlio lungocrinito", per la gioia di mamma. |
Passavamo
interi pomeriggi a provare in uno scantinato nei pressi della Misericordia, con
gran sollazzo dei vicini e frequente arrivo dei vigili ed io, che nel frattempo
mi occupavo di tutto fuorché di far progredire i miei esami di Giurisprudenza
fermi a quell'unico voto, brigavo assai per ottenere una qualche scrittura seria
che ci consentisse, finalmente, di abbandonare il circuito precario delle
salette parrocchiali e delle festine private. Giunti alle soglie dell’estate
del 1969, con un’abile strategia raccontai a mia madre che avevamo avuto una
scrittura per una tournèe di alcune settimane nelle peggiori balere tra
Jesolo e Lignano. Non era vero, ma servì egregiamente allo scopo perché lei, in
piena crisi d’ansia, purché il suo bambino lungocrinito non finisse in certi
postacci, ci trovò, grazie a sue amicizie del giro del bridge, una
strepitosa scrittura per suonare sulle navi da crociera dell'Adriatica di Navigazione.
Come
si può immaginare, Donatella, nonostante le mie assicurazioni (poco credibili
anche a me stesso) che avrei fatto il bravo ragazzo monogamo e fedele non la
prese affatto bene e iniziò a tramare alle mie spalle, trovando ben presto
appoggio in mia madre pentitissima che, non potendo rimangiarsi quanto promesso, con una tipica astuzia materna provò a sabotare la cosa inducendo la
mamma di Emanuele a negare il permesso al nostro bassista.
L'Ausonia in uscita da Venezia. Durante le crociere estive suonavamo lì, mentre d'inverno ci beccavamo quella carretta dell'Esperia. |
Per loro sfortuna all'epoca leggevo con passione "L'arte della guerra" di Sun Tzu e dunque disponevo di raffinate strategie per contrattaccare. Tra queste, l'argomento forte era che avevamo firmato un contratto con penale incorporata ed era efficacissimo per tenere a bada quelle due e anche la madre di Emanuele, nota per il suo braccino corto e quindi spaventatissima dalla prospettiva di dover pagare dei soldi e così alla
fine ci imbarcammo sulla motonave Ausonia dove, tra una crociera estiva ed una
invernale (sull'Esperia) attraverso il Mediterraneo, tra Grecia, Turchia e Mar
Nero, quella che doveva essere solo una scrittura di qualche mese si trasformò
in due lunghi anni assai poco costruttivi dal punto di vista del mio impegno
universitario (zero esami), ma sicuramente spettacolari per numero di
esperienze e, siccome non siamo mica fatti di legno, anche di conquiste. “Il cielo è vasto e
l’Imperatore lontano” diceva un poeta cinese del medioevo per
giustificare la dolce vita e i traffici illeciti nella remota isola di Haj-nan,
e tale era il mio pensiero, anche se, tra tanta
spensieratezza, capitava anche qualche episodio sfortunato.
Anche se, vedendomi così lungocrinito, il Commissario di bordo mi aveva spedito subito dal barbiere per via del decoro da mantenere a bordo, la mia prima preda, già al secondo giorno di navigazione, fu una traccagnotta americana afflitta, oltre che da cellulite precoce, anche da un vistoso strabismo (e subito gentilmente ribattezzata dai miei compagni: Polifemo) che, dopo una pomiciata notturna di routine sulle comode sdraio del ponte di passeggiata, già dal giorno seguente fu disinvoltamente rimpiazzata da una rossa lentigginosa, sempre americana e tutt'altro che malvagia.
Per alcuni giorni la traccagnotta scomparve di scena come
inghiottita dal mare ed io non me ne diedi particolare pena, anzi, nemmeno la
ricordavo. Tuttavia, una sera, mentre stavamo suonando “Homburg”, un pezzo dei Procul Harum di grande atmosfera, si
spalancò di colpo la porta del ponte di passeggiata. Assieme ad una ventata di
aria gelida e profumata del mare mi ricomparve improvvisamente davanti Polifemo
grondante indignazione da tutti i pori e, come si intuiva dal suo incedere
incerto, anche qualcosa di fortemente alcolico. Colto l'attimo che
precede la burrasca cercai di cavarmela con un sorriso accattivante e un
cordiale: “Hi sweetness! How are you?”,
ma ci voleva ben altro. Polifemo,
che ormai era lanciata sul piano della violenza fisica, dopo un insulto irriferibile
in slang mi affibbiò due vigorosi ceffoni sul muso. Quindi girò i tacchi soddisfatta
e si diresse al bar, per l’ennesimo gin fizz.
Ci fu un attimo di sconcerto in
sala, ma siccome è regola aurea tra gli uomini di spettacolo che the show must go on, continuammo
a suonare imperterriti, anche se io avevo la mascella indolenzita e le guance
rosse come il fuoco e Lele suonava la batteria con una mano sola perché con
l’altra si teneva la pancia dal ridere. A mio onore resta il fatto che, pur
traballando vistosamente (Polifemo aveva due bracciotti sodi, da Popeye ingozzato
di spinaci) nel doloroso frangente non avevo emesso neppure una stecca! Scoprii
in seguito che, tra le oltre 250 fanciulle disponibili a bordo in classe
turistica, per sostituire Polifemo ero andato a scegliere proprio la sua
compagna di cabina. Quando si dice la mala sorte...
Dal punto di vista musicale eravamo
ormai diventati veramente bravini e l’armonia del gruppo era buona, tranne
quando c'era da mettere mano al nostro repertorio che per forza di cose doveva
essere vastissimo e comprensivo di tutti i generi, giacché si suonava allo
stesso pubblico per quindici sere consecutive con altrettanti pomeriggi di
piano bar dove era richiesta musica soft di sottofondo che veniva eseguita dal nostro
pianista, da Emanuele al basso, da Lele alla batteria con le spazzole mentre i
due chitarristi erano esentati e liberi di corteggiare le gentili ospiti ai
tavoli.
C'erano,
infatti, alcune canzoni che il nostro fantastico pianista, forte della sua
raffinata formazione classica non
si degnava di eseguire neppure per scherzo. Sua madre insegnava clavicembalo al
Conservatorio e lui, con la sua naturale modestia, amava dire di sé che era
stato messo al pianoforte all’età di tre anni, come Mozart. Pertanto, occorreva
lottare duramente per convincerlo a suonare i brani nazional-popolari per gente
di bocca buona. Tra le tante canzoni ripudiate c'era anche il popolarissimo “Casatschok”, il ballo della steppa del piccolo
cosacco, che francamente era una robetta ignobile e buona per le balere
romagnole. Dunque capivo il suo disagio. Ma
siccome si navigava su e giù per il Mar Nero e andava bene per i giochi dell’animatore,
ci potevi scommettere che te lo chiedevano almeno una volta a sera. Così lui,
estroso come tutti i cavalli di razza, boicottava regolarmente il pezzo
mettendosi a fare il fenomeno, suonando di schiena e lanciando coriandoli e
stelle filanti alle signore, possibilmente nelle scollature. Grazie a ciò
avevamo tutti gli attacchi della pianola fuori tempo e sembravamo due orchestre
distinte. Fino a quando le nostre invocazioni affinché un castigo divino si
abbattesse su quell’essere malvagio, furono esaudite.
Una sera, infatti, durante una breve
pausa un bambino accompagnato dalla mamma mi venne a chiedere se sapevamo
suonare la melensa “Lettera a Pinocchio” cantata da Johnny Dorelli. Ci fu un
giro di occhiate complici tra me e gli altri aspiranti vendicatori e l’accordo
per punire Mozart scattò istantaneamente. Accarezzai la testolina al pargoletto
e indicandogli il nostro ignaro pianista classico che stava guardando altrove gli dissi: “Noi non la sappiamo
suonare, tesoro, ma so che il signore al pianoforte, che è tanto bravo e
gentile, la conosce benissimo. Chiedila a lui e vedrai che la suonerà molto
volentieri per te e la mamma, tutte le volte che vorrai!”. La mamma portò
subito il piccino a parlare con il pianista che dapprima cercò di negare, ma
siccome noi continuavamo a ribadire in coro “Guardi che la sa … dice di no
perché è timido, ma se lei insiste vedrà che poi gliela suona” per tutto il resto della crociera il nostro Mozart dovette
suonare il “Casatshòck” e anche “Lettera a Pinocchio” senza più fiatare.
Un altro testone di granito,
musicalmente parlando, era Emanuele. Come bassista era tecnicamente bravissimo,
freddo e preciso come un chirurgo svizzero, ma aveva una flessibilità mentale
pari ad una barra di tungsteno al nickel. Di conseguenza aborriva il concetto
stesso d’improvvisazione
che vedeva come un angoscioso salto nel buio, tanto che quando
Mozart eseguiva dei brani jazz al piano, lui veniva esentato. Trovava, infatti,
le sue sicurezze nella pianificazione più meticolosa delle attività
esistenziali ed ogni variazione imprevista di programma lo turbava
profondamente sprofondandolo nel più cupo sconforto. Un giorno che gli avevo preso in
prestito il dentifricio rimase seduto in mutande sul letto a guardarmi inerte
per cinque minuti perché la sua programmazione prevedeva che il lavaggio dei
denti avvenisse prima e non dopo essersi vestito.
Una mattina a colazione, tra un caffè
e una brioche, avevamo deciso di
cambiare tonalità a “Gimme some lovin’” perché Vincenzo sosteneva
di strangolarsi sempre nel cantarla e del resto bastava guardare come diventava
cianotico e con le vene del collo ingrossate per credergli. Però, con grave
mancanza, non solo di tatto, c'eravamo dimenticati di avvertire Emanuele, che,
deposta la tazza del cappuccino, si era rapidamente rinchiuso in bagno giacché
la sua pianificazione giornaliera prevedeva l’evacuazione subito dopo la prima
colazione. Così lui la suonò nella vecchia tonalità per tutto il tempo,
incurante delle nostre occhiate disperate.
Eccoci all'opera, io sono quello che tiene in mano l'unica sigaretta della sua vita per fare il figo. |
Emanuele ci regalò, peraltro, anche
momenti di grande imbarazzo la sera in cui quella vera calamità dell’animatore
di bordo invitò il pubblico della sala a partecipare al gioco dei mestieri, con ricchi premi e cotillon. Si trattava di un giochino
per imbecilli come del resto tutti quelli proposti ogni sera e che prevedeva di
indovinare dopo una serie di domande il mestiere di due passeggeri scelti a
caso tra il pubblico. Cose che annoiavano già ai tempi delle scuole elementari. Una
dei due sorteggiati di quella sera era una vistosissima signora bionda
ossigenata, truccata pesante e carica di bigiotteria come la Madonna di Pompei. Al
momento della fatale domanda dell’animatore: “Secondo voi, che mestiere
fa questa bella signora?” dimenticandosi di avere il microfono
aperto Emanuele suggerì: “La zoccola” e l’insinuazione rimbombò a 120 watt d’uscita per tutta la sala (anche
con l’effetto eco ed il riverbero) provocando un fragoroso scoppio di risate
tra il pubblico, le proteste del marito della signora e le nostre scuse più
contrite. Oltre ad un cazziatone del Commissario di bordo.
La
mattina seguente, commentando l’episodio mentre facevamo colazione, quello
scellerato ebbe il coraggio di lamentarsi che, avendo indovinato, avrebbero in
ogni caso dovuto dargli il premio.
Ritornano le storie delle crociere, esilarantissime come al solito!!!! ;-)
RispondiEliminaPraticamente una miniera....Complimenti Carlo! :-)
( Sono sempre Lilas, del Quartier...)