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Ogni veneziano sopra i cinquant'anni potrebbe elencare una serie infinita di piccole meravègie e consuetudini perdute. Tanto che credo si dovrebbe costituire una sorta di museo della memoria del vivere quotidiano per non far dimenticare ai nostri figli quanto era bella e vivibile la città prima della calata del turismo di massa, quello con le infradito e le braghette corte degli inclusive tour da Jesolo e Caorle fino al Garda, che uniforma e appiattisce tutto.
Non vi dico con quanta nostalgia io ricordi i turisti colti e silenziosi dei primi anni ’60, in giacca di tweed e con la guida Routard o Baedeker sottobraccio, ma anche gli studenti giramondo di una volta. Quelli con l’Europe 5 dollars a day che spuntava dallo zainetto con il sacco a pelo per dormire ammucchiati all’ostello della Giudecca e che poi li trovavi a contemplare assorti un capitello o una vera da pozzo nei campielli più remoti e che nelle calli strette si scostavano per lasciarti il passo.
Ogni veneziano sopra i cinquant'anni potrebbe elencare una serie infinita di piccole meravègie e consuetudini perdute. Tanto che credo si dovrebbe costituire una sorta di museo della memoria del vivere quotidiano per non far dimenticare ai nostri figli quanto era bella e vivibile la città prima della calata del turismo di massa, quello con le infradito e le braghette corte degli inclusive tour da Jesolo e Caorle fino al Garda, che uniforma e appiattisce tutto.
Tourism with umbrella (1971) |
A parte mio figlio, la sua ragazza e i suoi amici, che a volte di ritorno dalle passeggiate veneziane ti raccontano entusiasti di aver mangiato un ottimo Kebab in Strada Nova (spero sia solo perché sono cronicamente a corto di soldi) grazie ad un turismo di bocca buona che siede ai tavolini pasteggiando (quando va bene) a pizza, lasagne alla bolognese e cotoletta impanata di platessa surgelata spacciata per filetto di San Piero, anche le più belle ricette della nostra tradizione oggi sono scomparse di fronte all’incultura di chi, facendo un frullato indistinto di italianità, trova normale mangiare piadine a Torino, tagliate di chianina a Trento, comperare la statuetta con la torre di Pisa in Piazza San Marco e sentire i tenori sulle gondole cantare “O sole mio”. Così di molti piatti delle nostre mamme (appresi delle nonne) tra qualche anno resterà solo il ricordo. Come per le moleche e le masanete, che altro non sono che i granchi di laguna prima e dopo il periodo della muta (i molecanti sono dei pescatori abilissimi e molto ricercati che, infilando le mani dentro i cestoni dei granchi appena sollevati dall’acqua, riescono a tatto a capire quali siano già in muta e quali no).
Nel primo caso, giacché sono tenerissimi, si mangiano per intero e fritti dopo aver fatto loro sorbire l'uovo sbattuto prima di infarinarli, in modo da formare al loro interno una frittatina. Sicuramente crudele, ma il risultato toglie ogni senso di colpa e poi almeno vanno in padella con la pancia piena, mica come gli astici o le aragoste. Nel secondo caso, i granchi si sgranocchiano e si succhiano con grande godimento dopo averli lessati, mondati delle zampe e delle chele e fatti insaporire per qualche ora nell’aglio, prezzemolo e olio. Rompere con una leggera pressione in punta di denti e succhiare le masanete (deliziose, credetemi) richiede tecnica e abilità consolidate altrimenti è facile trovarsi in bocca anche dei pezzettini di guscio. Quindi è un piatto da mangiare in privato e/o tra amici stretti, ma non in una cena formale, se non volete vedere gli invitati sputazzare imbarazzati.
Altrettanto da gustare assolutamente sono i delicatissimi bovoletti. In stagione qualsiasi bàcaro che si rispetti, da Campo delle gatte a Sant’Alvise non può non avere sul banco una terrina di queste deliziose lumachine cotte e lasciate riposare per ore ad insaporirsi con tanto aglio, olio di frantoio e prezzemolo. Sono da sorbire con l’aiuto degli stuzzicadenti, di un calice di fresco Prosecco di Valdobbiadene e chiacchierando amabilmente senza fretta (a Venezia la fretta è bandita e lasciata alla cultura altrui) tra amici, meglio avendo di fronte la persona amata. Superfluo ricordare in tal caso che, dovendo lavorare di stuzzicadenti tenendo i bovoletti con le dita, è sconsigliato lasciarsi trasportare da slanci affettivi improvvisi per non ungere d’olio l’amata o l’amato con effetti deleteri per il proseguire del rapporto. Allo stesso modo ricordo che masanete, bovoletti e piatti simili rendono immediatamente “Agliopositivi” e, per l'alto contenuto di prezzemolo, regalano agli incauti il classico "Sorriso primavera". Pertanto, qualora fosse in programma, potrebbero rovinare l’intimità della serata.
Tra i pochi inconvenienti della nostra gastronomia, ricordo che quando la mia mamma andava a prendere i granchi al mercato, arrivava a casa con le bestiole che scappavano fuori della borsa, un po' come le tarantole in "Aracnofobia", e bisognava inseguirle per tutta la cucina, stanandole con il manico della scopa anche da sotto il frigorifero (così come l'anguilla, che era veramente un irriducibile, tanto che veniva messa in pentola con l'onore delle armi).
Pescando ancora a caso tra i tanti piatti favolosi e testimoni di una sapienza secolare posso citare la spienza (la milza) bollita a pezzetti fino a farli talmente morbidi da spalmarli come una crema, aromatizzata con salvia, alloro, olio e aceto, sul pane croccante, il Rumegàl (l’esofago della mucca) i nervetti con le siègole (le cipolle), la sopa de tripe (zuppa di trippe) e la castradina da mangiare nel giorno della Madonna della Salute. Quest’ultimo era un piatto davvero strong, solo per stomaci forti, che andava cotto per ore a fuoco lento in una pentola di terracotta e che prevedeva come ingrediente principale della carne secca e affumicata di montone della Dalmazia (fino agli anni '70 se ne comperava a quintali, oggi è introvabile e si ripiega sul normale castrato), tagliata in pezzettini e da stufare con le verze. La castradina andava fatta riposare tutta la notte per poter togliere alla mattina con il mestolo l’imponente strato di grasso in emersione e, anche se per credenza popolare la Madonna della Salute nella sua ricorrenza avrebbe provveduto a sanare gli indisposti, era prudente in ogni caso tenere a portata di mano il bicarbonato (l’Alka Seltzer per i più abbienti).
Mozzarelle con l'acciuga, sardelle fritte, baccalà in pastella... le mille delizie dei bacari veneziani per pranzare a poco prezzo |
Appena più leggera l’Anara col pièn (l’anatra ripiena di un trito di soppressa, fegatini, pane, parmigiano, prezzemolo, noce moscata e uova) che, assieme alle sarde in saòr, viene tuttora consumata tradizionalmente sulle centinaia di barche all'ancora davanti a San Marco, durante la notte del Redentore (anche se lo scorso anno degli amici sacrileghi mi hanno raccontato di aver mangiato sushi). Io però, come ho già avuto modo di raccontare, preferivo le salcicce bruciacchiate alla scottadito e sabbia, che venivano arrostite al suono delle chitarre (o mare nero, mare nero, mare ne..) sui falò notturni della spiaggia degli Alberoni, mentre si beveva birra tiepida e si aspettava di fare il bagno nudi nell’Adriatico (che di notte, anche se sei a luglio, è tanto freddino) lucente sotto la luna. Che poi ci si bloccava la digestione esattamente come a quelli che s’ingozzavano d’anatra sulle barche, ma almeno noi ci si divertiva di più (e magari ci scappava anche la pomiciata nascosti tra le dune e i canneti).
i consigli delle osterie veneziane |
Un altro piatto saporitissimo che si preparava con il castrato era il riso in cavromàn. Il castrato (meglio la parte della schiena che è più grassa) andava cotto per bene nel soffritto classico e appena aveva preso colore si aggiungevano i pomodori pelati, un pezzettino di stecca di cannella e lo si lasciava cuocere per due ore aggiungendo ogni tanto del brodo. Poi si aggiungeva il riso e lo si cuoceva normalmente, mantecandolo alla fine con formaggio e burro. Oggi però è difficile trovare macellai che abbiano la carne del castrato (così poco dietetica in un mondo che ormai mangia solo vitello esangue), se non ordinandola per tempo, come la lingua per il lesso misto. Ovviamente, i nostri risotti dovevano essere rigorosamente “all’onda”, così come la tradizione imponeva che infilando il cucchiaio nella pasta e fagioli (con i borlotti di Lamon, le cotiche e i cannolicchi) questo dovesse rimanere dritto in piedi, come una sentinella. Detta pasta e fagioli, era una delizia mangiata fredda il giorno dopo e inglobandoci dentro il radicchietto (amarognolo) di campo condito con olio e pepe. Provare per credere…
Tra i piatti di pesce tipici da gustare (la preparazione, semplicissima, può essere applicata a qualsiasi tipo di pesce se non piace l'anguilla) cito anche il bisato all’ara, cioè l’anguilla che i soffiatori di vetro delle fornaci di Murano mettevano in tranci sui mattoni roventi del forno a cuocersi nel suo stesso grasso e senza condimenti, se non il profumo di un letto di foglie d’alloro, e il cremoso risotto di Gò un tipico pesce povero della laguna dalle carni piuttosto grasse e spinose (sostituito ovunque dal più banale risotto di pesce con l’onnipresente rucola) che, per tradizione, andava gustato solo dopo aver scavato con la forchetta una canaletta a croce nel piatto e averla profumata con una spruzzatina di limone e una spolverata di pepe. Oggi è tornato in voga, ma a caro prezzo, il fritto di anguelle (i minuscoli pesciolini che si pescavano con la reticella vicino agli imbarcaderi e che le signore ricche davano ai gatti senza sapere cosa si perdessero), mentre sono purtroppo scomparse le ganassètte (la parte interna e cartilaginosa delle branchie) ottenute dalle teste dei più svariati pesci che le mamme povere si facevano regalare in pescheria all’ora di chiusura e che, infarinate e fritte, profumavano di mare ed erano deliziose.
Per fortuna, anche se molti proprietari hanno trasformato i loro locali in improbabili Wiener Stube con annesso Brätwurstel mit senf e boccalone di birra diuretico o hanno ceduto l’attività ai cinesi, resistono ancora e andrebbero censiti e conservati come un bene prezioso molti bacari (osterie) anche se non sono più fumegosi come una volta e hanno perso tutta quella clientela di vecchi e arguti beoni, studenti perdigiorno, tenori sfiatati e tuttologi. Sono quei locali modesti e straordinari, alternativi ai ristoranti dei turisti, dove con pochi soldi, se non vuoi aspettare la pastasciutta o il risotto che vengono sfornati verso mezzogiorno, ti puoi fare ancora un vero pranzo con i loro innumerevoli cicchetti: i folpètti e le aringhe fumegàe, le sepoìne roste (seppioline alla griglia), le crocchette di carne e patate o di tonno, il baccalà fritto o mantecato, il musetto con il kren, le sardèe in saòr, i pevaròni rosti, la frittatina di verdure e il mezzo uovo sodo con l’acciughina distesa sopra, disposti ordinatamente sui banchi di marmo e magari bevendo il torbolin (il mosto) e il proibitissimo clinto (scuro, aspro e dal profumo di fragola) servito nella ciotola di terracotta e venduto sottobanco (anche ai vigili.)
Questa nella foto, che ora mi pare si chiami Leon D’oro, ma tutti la conoscono come “dalla vedova” è una delle più belle e antiche, tanto che anni fa alcune delle sedie avevano ancora l’aquila imperiale austroungarica intagliata sullo schienale. Si trova in una minuscola calletta che si apre su Strada Nuova, dalle parti dei santi Apostoli. Per anni, all’uscita da scuola, mi ha gratificato con delle crocchette di carne e patate (aglio e prezzemolo quanto basta) da svenimento. Ieri, con il cuore in gola, le ho ritrovate, appena sfornate e fragranti come le avevo lasciate nei miei ricordi.
Mi sono quasi commosso…prima di azzannarne sei di fila.
Avevo scritto un commento ma al momento di pubblicarlo mi hanno chiesto un profilo, che fare?Ho inserito l'account di google ma mi si è cancellato tutto.
RispondiEliminaPrima di riscrivere l'abbastanza lungo commento provo a vedere se mi pubblica questo.
Ecco, è pubblicato come anonimo e sono Alessandra!
RispondiEliminaRiscrivo il mio commento più tardi , ora faccio un altro esperimento, perdona l'intrusione,
bacione!
niente rosa ora, il mio avatar intendo, è uno dei miei dipinti.
RispondiEliminaStamttina sono stazionata quì nel tuo blog, ma ti ho mandato bacioni così mi perdoni vero?
Ti dicevo, nel commento scomparso, che ricordo gran parte delle riccette da te raccontate perchè le faceva mia nonna che gestiva una trattoria. Essa prendeva un carretto con due cavalli e veniva a Venezia, non solo per il sale ma anche per acquistare del pesce o altro, c'era ai tempi del fascismo una grande carestia nei paesetti di montagna.
Quei piatti li ricordo..con orrore!
Come il minestrone fatto rigorosamente con grandi pezzi di lardo al suo interno, una volta mi capitò nel piatto una parte raccapricciante del maiaile con grandi risate di tutti, inoltre usavano come pasta "i sbusoti" ed io preferivo i ditalini.
Mi sono divertita a leggere, sopratutto con il finale a base di polpette.
Ciao
@alessandra: certo che sei perdonata,mica mi dispiace avere commenti simpatici e ricchi di ricordi bellissimi come i tuoi.
RispondiEliminaLa mia nonna materna, che veniva dalle sue campagne del Monferrato, ignorando l'olio di oliva, faceva larghissimo uso di strutto, lardo e cotiche di maiale e queste ultime mi ci sono abituato a ritrovarmele nella minestra, anche se da bambino - guai a me se le mettevo da parte sul piatto - chiudevo gli occhi e le deglutivo intere per non sentirle mollicce e appiccicose sotto i denti, come i nervetti della carne che non sopportavo. Però conferivano un sapore eccezionale sia alla sua zuppa densa di ceci, rosmarino e fagioli bianchi (che era la mia preferita)sia alla pasta e fagioli dove talvolta quando non trovava i fagioli borlotti di Lamon al mercato, per addensare ci schiacciava anche delle patate lessate, come si usa in alcune parti del veneto.
Non so che tipo di pasta possano essere gli "sbusoti", anche se immagino che sia un formato piccolo da minestra simile ai tradizionali subbiotti rigati. Mia nonna, alle volte, quando faceva i tajarin o gli agnolotti in casa metteva a cuocere nella zuppa i ritagli di pasta all'uovo avanzati ed erano buonissimi.
Ciao
Che bello il sorriso primavera! Rende perfettamente l'idea.
RispondiEliminaDovresti davvero pubblicare una guida delle osterie di Venezia dove si mangia ciò che è giusto mangiare e non si viene spennati, anche perché è verissimo, vedersi proporre la cotoletta viennese e i crauti mette davvero una gran tristezza.
Buona giornata!
si, hai ragione ci sono i piatti tipici che purtroppo nelle grandi città assalite dai turisti si perdono e tutto diventa un pot pourry. hai scritto un elenco di posticini invitanti, a Venezia purtroppo non sono mai stata così fortunata...
RispondiEliminaA si Carlo volevo dirti che ho visto le ultime foto che hai caricato su flickr e hanno una luce spettacolare sono veramente strafighe che macchina fotografica usi? ovviamente una digitale immagino.. comunque sai che mi sto costruendo una camera oscura nella mia cantina? e la cosa sta procedendo a gonfie vele... che ti chiedo siccome sto cercando ovunque degli ingranditori tu non hai più il tuo vero? perchè sennò ero intenzionato a comprartelo, sempre se ce l'hai ancora (l'ingranditore) e hai intenzione di venderlo..
RispondiEliminacb
@Maude Chardin:
RispondiElimina@Trilly: Vi accomuno nella risposta,perché il problema che sollevate sulla possibilità di venire spennati mangiando pietanze "allogene" e cucinate pure male, a Venezia, come in genere in tutte le città d'arte ad alto impatto turistico, è lo stesso ed è sicuramente attuale. Quindi, appena ho un minuto di tempo, mi metto in cammino per calli e campielli e, oltre a narrare la città, inizierò a prendere nota dei posti in cui si può mangiare benone e a prezzi umani.Essendo molto scrupoloso, assaggerò di persona, a costo di prendere qualche chilo. Per gli amici di blog Questo ed altro.
Ciao
P.s: un grazie a Trilly, new entry del mio nuovo blog, per avermi fatto visita...
@Anonimo(cosimobernardo): grazie per i complimenti sulle foto. Ti sorprenderò, ma non uso una macchina particolarmente "da urlo". La mia favorita attuale è una Nikon Coolpix P90, una fotocamera digitale non reflex (anche se esteticamente ci assomiglia) che si trova in negozio tra i 280-300 euro. Questo tipo di macchina che è a metà tra le digitali compatte e le reflex (di cui avvicina molto le prestazioni) si chiama Bridge e oggi, con un neologismo appena coniato, si chiama Prosumer , che significa Professional Consumer, cioè Utente professionale. E' una macchina versatilissima, ti risparmia di avere la borsa piena di obiettivi e di avere sempre su quello sbagliato, e, come hai visto su Filckr, fa delle foto ad alta risoluzione davvero notevoli, che hanno poco da invidiare a quelle di una reflex (anche perché le ottiche Nikon "sono" da sempre la fotografia). Poi sai bene che da Cartier-Bresson a Tina Modotti e da Robert Capa a Diane Arbus quelli che hanno fatto la storia della fotografia avevano macchine che oggi farebbero sorridere. Quindi tienti cara la tua Nikkormat che è eccellente (io conservo la mia con l'amore dovuto alla compagna di una vita).
Per quanto concerne l'ingranditore, dovrei avere ancora da qualche parte l'Opemus Axomat basculante con cassettino per i filtri colore che usavo nella mia camera oscura (con ottica, bacinelle e il resto).Lasciami il tempo di trovarlo e di vedere in che stato è. Non avevo mai pensato di venderlo e so che sicuramente farei la felicità di mia moglie che libererebbe dello spazio negli armadi. Quindi ci penso. Ti avviso ora per allora che sono molto esoso e che ti potrei chiedere in cambio diverse confezioni di Guinnes o di Ceres. Pensaci, figliolo...
Ciao
Grandissimo doge, vai tranquillo e se poi aprendo l'armadio e rivedendolo ti dovesse venire quella solita nostalgia da vecchi ricordi non ti preoccupare,lo capirei assolutamente. Comunque la mia camera oscura sarà la più epica che sia mai stata costruita, diventerà un vero e proprio harem dove potrò eguagliare l'unico vero dio della fotografia: Helmut Newton. E ovviamente una volta terminata se mi fai uno squillo non ci penso due volte a fartela vedere.
RispondiEliminaOra mi resta solo da trovare una Venere in carne ed ossa che possa svegliare in me quella vena artistica degna dei più grandi fotografi.
Ps: abbasso il digitale
@anonimo:Caro Alessandro, non avrei alcuna malinconia a darti l'ingranditore, anzi. Comunque, ieri te ne avrei trovato un secondo, da una nostra amica, che, se non cambia idea, te lo darebbe gratis. Non mi ha saputo dire il modello, ma immagino, ricordando il livello delle macchine fotografiche che avevano in famiglia, che non sia una robetta in plastica da bambini. Ovviamente, in tutti e due i casi dovresti venire a prenderlo con la macchina.
RispondiEliminaSe mi mandi una mail ne possiamo parlare.
Ah! .... cos'è che dovrebbe risvegliare in te la Venere? Me lo ripeteresti che ci ridacchio sopra ancora un poco?
Ciao
quella vena artistica degna dei più grandi fotografi...
RispondiEliminaok se mi scrivi la tua mail su un pvt di splinder perchè me l'avevi già data ma non ricordo dov'è..