sabato 26 settembre 2020

Delle malinconie da estate finita, della spiaggia, della montagna di una volta e dei bauli via Mezzocorona.


Ecco! Ancora una volta l’estate è finita per davvero e ormai nella mia vita ne ho già archiviate settantuno (quasi tutte bellissime, intense e serene, a partire da quel luglio in cui è nato nostro figlio). Ci toccherà forse sopportare un po’ di giorni residui di sole e zanzare ma la polo è già ritornata nel cassetto assieme agli shorts e ormai la mattina ci si rimette la felpa, nell'attesa del maglioncino pesante. 

Non ci crederete, ma, a pensarci, anche da pensionato provo ancora quella stessa sensazione di malinconia profonda che mi prendeva alla domenica sera dell’ultimo giorno di ferie, quando alla Domenica Sportiva finivano i servizi sulle partite del campionato appena iniziato e iniziavano quelli sull’ippica spalancandomi la finestra sul baratro del ritorno lavorativo a Torino. Anche perché alla frustrazione di ricominciare di nuovo la vita del pendolare a lunga percorrenza con le serate da single nel mio appartamentino di Barriera di Milano aspettando la telefonata di mia moglie per sentire almeno la sua voce, le ultime su nostro figlio e le vicende di casa, si aggiungeva il supplizio di dover trascorrere almeno le prime due settimane ad ascoltare, con l’aria doverosamente compiaciuta di chi in realtà vorrebbe tanto potersi sottrarre a quel rito aziendale, sempre gli stessi resoconti delle mirabolanti vacanze di colleghi e colleghe reduci dai vari villaggi vacanza con l'animatore simpaticissimo e le prime esperienze epiche con il windsurf “Che sono riuscita a rimanere in piedi per quasi un minuto, tanto che l’istruttore mi ha fatto i complimenti (un prezzolato, falso come Giuda), ma poi era così difficile tirare su la vela piena d’acqua”. Inevitabile anche il resoconto sul ricco buffet del villaggio, dove c’erano sempre degli astici grandi come aragoste, la fregola sarda onnipresente (anche nel cappuccino?) i culurgiones al pomodoro, le seadas con il miele a colazione e il formaggio di capra che mangiato lì ha tutto un altro sapore (beeee.. beeee...quanto è vero!) 

Non poteva poi mancare la narrazione dell'acquagym mattutino e pomeridiano al suono di Aserje: “Che ho imparato anche a fare quel movimento con le mani tanto carino che fanno le Las Ketchup” (segue dimostrazione immediata a cui era obbligatorio rispondere: “Ma che brava! Lo fa proprio uguale…” anche se, a tuo parere, una foca di Acqualandia l’avrebbe fatto con più grazia), di posti esotici improbabili scovati con il last minute (non ha mai sentito parlare di Sukhothai?) e finanche scottature da sole himalayano o da Sharm (lo El Sheikh tra la gente di mondo si dà per sottinteso). 

Ma c’erano anche i racconti di tristissime vicende di bambini guasta-vacanze "Pensi che il piccolo era appena guarito dal mal di gola preso al nido, che aveva avuto la febbre per tutta la settimana e quando avevamo pensato di esserne usciti fuori, poi il grande mi va a correre in bici al parco con quello scriteriato di suo padre, mi torna a casa sudato come una spugna bagnata e si prende la tonsillite proprio il giorno prima di partire" (occorreva ascoltare con aria compunta e partecipe cercando di reprimere il ghigno satanico che ti aleggiava sulle labbra) da associare a racconti mitologici di grigliate pantagrueliche di pesce su spiaggia greca con l’Ouzo e la Retsina bevuti a garganella (nella variante croata con la Malvazjia) e perfino il tocco erotico (perché i sabaudi, ritenendola sconveniente e inopportuna in società, celano la sensualità sotto i tailleur con il filo di perle e le grisaglie da ufficio, ma poi un goccino gliene salta sempre fuori, come il Barolo chinato a fine pasto) del bagno nudi a mezzanotte sotto la luna, ma con la medusa vigliacca che ti becca proprio lì (qui correva il mio pensiero grato alla piccola vendicatrice). Non poteva mancare nei racconti anche il tocco thriller dell’incontro ravvicinato e spaventoso con lo squalo (che probabilmente era un tonno) facendo snorkeling a Pantelleria e le gite in barca con il mare mosso attorno a Panarea spacciate come il periplo di Cape Horn, ma però con i delfini che li salutavano (guarda 'sti pirla che rollano con la barca come su una Multipla!). Tralascio la mia collega che per cinque anni di fila mi ha raccontato, inesorabile come una cartella esattoriale, il modo in cui in Oman cuociono l'agnello dentro la sabbia fino ad indurmi a dirle: "Guarda che ormai sarà cotto..." (poi mi ha ignorato per i successivi cinque anni per il mio grave vilipendio all'Oman e alla sua cucina) e quell'altra che, penso per competenza territoriale trattandosi di ex possedimenti veneziani, mi ha stressato per mesi con il riccio che a Rovinj (Rovigno) l'aveva mandata al pronto soccorso con il piede trafitto dagli aculei e una brutta infezione, neanche l'avessi messo io... (però mi sarebbe piaciuto assai). 


Nötsch im Gailtal, tramonto in un angolo agreste di paradiso


Quando finalmente mi veniva chiesto “E lei, dov’è stato di bello?” ero costretto ad ammettere che per l’ennesima volta avevo trascorso le ferie a Nötsch im Gailtal, un minuscolo e sconosciuto paesino tra le colline e i laghi della Carinzia, immerso tra i frutteti e i campi di grano, appena dopo il confine, a solo due ore di auto da casa. Dunque, anche se mi affannavo a dire che era l’ideale per il bambino che si divertiva un mondo in mezzo alla natura incontaminata delle valli austriache venivo guardato con stupore unito al sospetto perché si capiva lontano un miglio che per trascorrere le ferie in un posto così poco originale e "trendy" dovevo nascondere qualcosa d'inconfessabile. Che poi, a ben guardare, c’era e lo ammetto, perché nel piccolo ristorantino da Andritsch dove la sera cenavamo sui tavolini nel prato, facevano il miglior filetto al pepe verde con le patate fritte mai assaggiato e Morena andava pazza per il Mohr im hend, un tipico dolce austriaco a forma di soufflè di cioccolato servito caldo, con il cuore di fondente che colava quando lo aprivi e la panna montata di guarnizione. Poi c’era la camerierina che ci serviva al tavolo, una dolce ragazzona di nome Siggy che studiava filosofia a Graz e che adorava nostro figlio Gianmarco, tanto che tutte le sere gli regalava (pagandola di tasca sua, credo) una barretta di Milky Way molto apprezzata, tanto che la sera prima di partire Morena ed io le abbiamo regalato un pendaglio per la collana, fatto a forma di cuoricino con i brillantini. Ma c'era anche la signora Brigitte, la vulcanica proprietaria dell’ Hotel Marko (e del vicino ristorante, ma anche del centro fitness, tanto ambito da mia moglie), che ci riempiva di cortesie e di colazioni pantagrueliche con ogni ben di Dio e organizzava per i pochi ospiti dell’albergo svaghi serali e a premio (un bicchiere di Obstler o un gelato) molto teutonici, tipo le gare di bocce con i birilli, piantare chiodi nel legno con un martello di gomma o la gara di mungitura con una mammella di mucca in gomma dove veniva versata dell’acqua a simulare il latte, con nostro figlio che si applicava con passione a massaggiare e tirare le mammelle per fare uscire più liquido possibile nel secchiello fino a fare sospirare un’anziana signora tedesca seduta ad ammirare affascinata tanto sfoggio precoce di tecnica: “Oooh! diese kleine Casanova!” , perché in queste cose noi veneziani, già da giovani, ci sappiamo far rispettare… 


Che poi, anche la cucina carinziana avrebbe i suoi motivi di fascino...


Passando ai ricordi delle mie estati ruggenti (tralasciando per decoro le limonate dei diciotto anni all’interno dei capannini del Des Bains dopo aver ballato avvinghiati come Laocoonte con i serpenti, alla Pagodina sulla spiaggia e fino all'imbrunire al suono di “io che amo solo te”), le mie estati da adolescente erano suddivise in due fasi ben distinte. Il mese di giugno lo si passava ad annoiarsi in spiaggia al Lido perché il medico di famiglia, spiegando alla nonna che mi ospitava (mia madre seguiva mio padre da una base navale all'altra e io ero parcheggiato nella casa veneziana dei nonni per via della scuola) i motivi della mia scarsa concentrazione negli studi, aveva sentenziato che ero linfatico e che l’aria iodata sarebbe stata per me un vero toccasana. Dunque mi veniva impartito l'obbligo di esposizione al sole sul bagnasciuga per respirare l’aria marina a pieni polmoni e per le scottature la nonna mi ungeva la schiena con un misterioso olio di San Giovanni che le preparava il farmacista e che avrebbe dovuto lenire il dolore. Quando il medico, dopo aver curato quelle brutte scottature da sole, sentenziò che secondo lui ero anemico mi ritrovai ben presto in una tempesta di bistecche al sangue, mentre dopo la frattura esposta della gamba sinistra che mi ero procurato sciando all’Alpe di Siusi e scivolando come un pirla in una cunetta che non avevo visto dopo aver effettuato un Cristiania al termine di una discesa, fui condannato ad essere ingozzato di verza cruda a pranzo e a cena per il fatto che, secondo quel luminare della medicina, il maledetto vegetale era ricco di sostanze atte a favorire la calcificazione. Quell'uomo tanto prodigo di consigli e quella nonna così apprensiva per il mio pallore adolescenziale non mi risparmiarono neppure l’olio di fegato di merluzzo e il cucchiaio da minestra di ricostituente "Proton" da trangugiare prima di andare a scuola. Mi consolo pensando che se il nostro medico avesse sentenziato che ero stitico, sarei probabilmente affogato nei clisteri. 


Il baule con tutti i nostri averi, che viaggiava per conto suo fino a Mezzocorona. 


Dal primo di luglio e fino all'inizio di settembre, abbandonate la spiaggia e il linfatismo da correggere scattava la seconda fase: quella delle vacanze montane a Moena, in Val di Fassa. Al tempo prendevamo in affitto ogni anno la casa di un certo Angelo Sommavilla, che mia madre contattava grazie al vicino albergo Rosengarten perché come la maggior parte dei valligiani di allora non aveva il telefono in casa. Questi era un rude montanaro che mio papà chiamava "Grande Capo Cavallo Basso" perché portava in testa un cappellaccio di feltro adorno di una lunga piuma di gallo cedrone e indossava perennemente dei vecchi calzonacci tirolesi con il cavallo all’altezza delle ginocchia. La casa, anche se piuttosto spartana negli arredi, era molto bella e piena di luce perché si trovava appartata sopra una piccola collinetta, da cui dominava gran parte del paese ed era circondata dai prati che costeggiavano la strada (allora) sterrata che portava verso la frazione di Sorte, la Malga Panna (oggi ristorante gourmet con una stella Michelin) e il Sass da Ciamp. 

I primi giorni nella casa di montagna erano vissuti nel disagio più totale nell’attesa ansiosa del fatidico arrivo del baule. A pensarci bene, i bauli sono stati una costante della mia gioventù. 

Nei bauli, quelli grandi di una volta, di legno verde scuro, foderati di carta da parati con i gigli fiorentini e con le borchie dorate, ci stava una casa intera. Una volta, quando le famiglie partivano per la villeggiatura in montagna si effettuavano delle vere transumanze, con tutte le vicissitudini di un trasloco e il baule ne diventava il protagonista assoluto. Questi, infatti, viaggiava in treno per suo conto, prendendosela comoda e, di solito, nel giro di una settimana dalla spedizione arrivava ad Ora o in quel di Mezzocorona (via Trento) oppure a Calalzo (via Cadore). Occorreva indovinare. Bisognava poi trovare il volonteroso con il motofurgone (il prescelto era quasi sempre il fruttivendolo...) che ci accompagnasse al ritiro alla stazione delle autocorriere. Alla fine dell'impresa (perché tale era...) dall’enorme baule saltavano fuori, come da un inesauribile bazar, le agognate coperte, la borsa dell’acqua calda, la caffettiera, i piatti, le pentole… e la vita poteva riprendere la sua normalità. Tra le calamità estive (vipere, zanzare, colpi di sole...) emergevano dal baule, quasi sempre per mano della zia, anche i minacciosi compiti delle vacanze. Essi venivano regolarmente da me dimenticati inevasi in qualche cassetto il giorno della partenza. Tornando ai miei anni spensierati da ragazzino, Moena incarnava il concetto stesso delle vacanze. Che si aprivano ufficialmente con la cerimonia dell’acquisto delle pedule e della piccozza alla Famiglia Cooperativa (regolarmente si piantava la grana per avere anche la borraccia e il coltellino con lo scoiattolo sul manico, ma con scarsi risultati...). 

Papà e mamma erano dei grandi e appassionati camminatori e mia madre da ragazza aveva fatto anche roccia con impegno e aveva smesso solo perché una pietra staccatasi durante la salita per la via normale della parete del Sassòngher le aveva spezzato male una caviglia che non era più guarita del tutto e ogni tanto le si gonfiava costringendola a stare distesa a letto con il piede tenuto sollevato sopra un cuscino. 
In quegli anni, dapprima con i genitori e poi da solo o con amici, ho girato tutto il Catinaccio, il Sassolungo, il Sella e dintorni in lungo e in largo e, qualche tempo dopo, appena ho avuto l'età per farla, ho affrontato pure qualche ferrata facile, come il Santner e la nord dell'Antermoia (che un po' di fifa da vertigine in qualche punto molto esposto te la dava). Io, dopo le prime comperate alla famiglia Cooperativa, ho avuto per anni una bellissima piccozza da montagna (che poi ho perduto con gran dolore) di quelle vere, in acciaio, non come quelle da bambino che al primo colpo su un sasso si spezzava la punta e in ogni rifugio conquistato acquistavo la targhetta di metallo da applicarci sopra con i chiodini e il martello a testimonianza dell’impresa. La mia piccozza luccicava con almeno trenta targhette argentate e due smaltate a colori. 


Vista dalla prima cengia della ferrata nord dell'Antermoia


E così, fin da bambino, ho imparato ad inebriarmi di vette azzurrine a perdita d’occhio e ad amare il silenzio delle alte quote, rotto solo dal vento che ogni tanto fischia attraverso qualche forcella o dallo scampanio delle mucche in fondovalle. E dal gorgogliare dei ruscelletti che sgorgano da sotto le macchie di neve scintillante. Con quell'acqua fredda come una lama, da bere a piccoli sorsi per placare la gola riarsa dallo sforzo della salita. La prima gita era tradizionalmente dedicata alla malga Roncac, con mio fratello Franco, la mamma e la nonna (che indossava le scarpe da città, con il mezzo tacco...) a scarpinare quaranta minuti in ripida salita per mangiare la panna con i lamponi. Il giorno dopo si stava tutti a letto, sotto i piumini, con le gambe indolenzite (e la nonna anche con le caviglie gonfie…). 



Bruca bene, che poi ci regali il burro che profuma di erba e lo Spretz


Nei giorni seguenti, finalmente, cominciavano ad arrivare alla spicciolata le famiglie degli altri villeggianti con relativi figli e l’agognata ragazzina milanese per la quale ti eri preso la cotta l’anno precedente, ma che anche quest’anno non ti filava, anche se poi all'ultimo giorno, dopo due mesi di sguardi enigmatici, scoprivi che la cotta per te l'aveva anche lei. Ad arrivi ultimati e ricostituite le fila delle amicizie, cominciava finalmente la stagione dei giochi a perdifiato. Poi, dopo tanti giorni di solleone, di gite per rifugi, di uscite per andare a funghi e infinite polverose partite di calcio, un giorno ti accorgevi che i temporali cominciavano a diventare più frequenti, l’aria diventava tersa e fresca (di sera occorreva il maglioncino...) e qualche cima s’infiocchettava di neve. Cominciavi a vedere passare tante macchine con il tetto ricolmo di valigie, gli alberghi si svuotavano degli amici e in quel clima di smobilitazione diventava sempre più difficile colmare gli organici delle squadre di calcio. Allora subentrava una malinconica attesa del rientro i cui sintomi erano dati dal riempirsi del baule e dalla progressiva sparizione al suo interno delle pedule, dello zaino, del bastone e della borsa d'acqua calda della nonna. Quando sparivano le scarpe da calcio, era proprio finita e di lì a poco si sarebbe tornati a scuola. 

Vabbè, mi fermo qui perché mi è venuta la malinconia a pensare come si sono trasformate oggi quelle valli, quei paesi e le loro montagne per compiacere il turismo di massa. Metto in ordine nel baule dei miei ricordi più belli le immagini e le emozioni che mi scorrono in mente e lo spedisco via Mezzocorona…

 


martedì 22 settembre 2020

Come riuscire a trascorrere le settimane bianche anche in estate (parte 2 - com'è dura la montagna)


Le mie incursioni notturne erano state respinte grazie a quel traditore collaborazionista di Whisky, con il pessimo risultato di farmi sgridare subito al mio ingresso in cucina per la colazione e di aumentare le misure di sorveglianza di mia madre, ma tuttavia, con una tenacia ammirevole decisi di riprovare per altra strada l’attacco alle virtù muliebri di Donatella. Così, appena quella dormigliona si ridestò e prese posto a tavola per il caffellatte e per divorare anche i miei crostini con il burro di malga e la marmellata di lamponi, approfittando del fatto che era ancora assonnata le proposi di andare a funghi e lei incautamente accettò. Ovviamente, la mia intenzione era quella evidentissima di recarci in mezzo ai prati per compiere sdraiati sull'erba fresca di rugiada quello che non eravamo riusciti a fare la notte prima in camera da letto. 
Mia madre, però, che sempre per via del trattato sull'arte della guerra di Sun Tzu, mi conosceva bene e sapeva prevedere le mie mosse, una volta udito cosa stessi proponendo arrivò subito dalla cucina con il fuoco di sbarramento.
Scusa Carluccio...” mi chiamava sempre così quando voleva farmi capire tra le righe le cose che non gradiva, perché invece quando dicevo una cretinata mi chiamava Carletto. "tu hai visto che ore sono, vero?
Sì mamma... sono le dieci e venti, se non hai spostato avanti l’orologio del salotto per farmi sentire in colpa” 
Lei non raccolse la provocazione. “Considerando che quando sarete nei boschi, tra una cosa e l’altra, saranno già le undici e mezza, quanti funghi pensi di trovare ancora dopo che dalle sette di mattina i villeggianti e i locali hanno cominciato i rastrellamenti a tappeto di qualsiasi cosa che assomigli vagamente a un porcino?
Qualche famigliola di finferli per un risotto la rimedio sempre
Speriamo di si, perché quando sono andata a prendere il pane ho dato un'occhiata, ma il fruttivendolo in piazza non li aveva e se non li ha lui...
Quella era una pessima notizia perché, astuto come una faina, intendevo proprio comperarne due etti al ritorno per farle credere che li avevamo trovati. O forse era un suo depistaggio intenzionale immaginando che lo avrei fatto. Comunque, avevo pronto il piano B:  “Casomai, se non ci fossero funghi andremo per mirtilli. Volevo far provare a Donatella, che non lo ha mai fatto, la soddisfazione di raccoglierli direttamente dal cespuglio e mangiarli freschi, magari troviamo anche delle fragoline...
Certo Carletto... è un'ottima idea. Presi dalla pianta i mirtilli hanno un altro sapore ed è giusto che, se non lo conosce, lo provi. Quindi non restate a pranzo? Peccato davvero, perché in onore di Donatella stavo mettendo su lo spezzatino con le patate che ti piace tanto e ieri sera avevo preparato i canederli da fare in brodo... pazienza, vorrà dire che li mangeremo io e tuo fratello...”


Nubi tempestose sulla Roda di Vael e sulle mie aspettative amorose


Detta così era un colpo duro e anche Donatella, a cui avevo magnificato la cucina materna, mi guardò malissimo per quello che le avrei fatto perdere. Questo non poteva sfuggire a mia mamma, che con un ottimo riflesso giocò subito sull'incrinatura che si stava allargando nella nostra coppia. Infatti, appoggiò materna la mano sulla spalla della mia ragazza e con un sorriso soave le chiese: ”Tesoro, tu non hai mai assaggiato i canederli, vero? “ e appena lei ammise di no con l’espressione avvilita, continuò crudele “Ah! Guarda...non sai cosa ti perdi... io li preparo con lo speck e l’erba cipollina e li servo in brodo, oppure se ti piacciono di più, li posso fare asciutti con il burro fuso, la salvia e la ricotta affumicata di malga grattugiata sopra. Il mio Carluccio ne va matto... ” 

Tagliai corto prima che la facesse capitolare descrivendole lo spezzatino con l’ingrediente segreto delle bacche di ginepro e andai a preparare lo zainetto, poi appena Donatella ebbe finito con lentezza esasperante la colazione, uscimmo, ma mentre stavo per aprire il cancello mi sentii chiamare dalla finestra. “Scusa Carluccio... perché hai messo il plaid di tuo fratello nel sacco da montagna?
Perché ci facciamo preparare dei panini al bar Catinaccio e pensavamo di fare un picnic sull’erba...”
E lo fai su un plaid? Che idea scema...vieni su dai, che ti do una tovaglietta...”
Mentre già immaginavo quanto fosse poco romantico far l’amore stesi su una tovaglia, aggiunse perfida “A proposito: mi dici da che parte vai a funghi? Te lo chiedo così, tanto per sapere dove mandare a cercarti, perché immagino che la tua amica non conosca ancora il tuo senso di orientamento
Dai mamma, non fare l’apprensiva, conosco questa zona come le mie tasche...”
Glielo hai raccontato a Donatella che l’anno scorso ti sei perso due volte?
No perché non è successo qui ma in Val Gardena. Pensavo di andare nei boschi sopra la malga Roncac, che sono i più vicini
Allora mi sa che Donatella, poverina, quest'anno i funghi li vede solo in cartolina. Lì ormai a quest'ora non trovi nulla, neppure i mirtilli. Tra l'altro, visto che vuoi andare nel bosco, ma perché non porti Whisky? Così fai fare una bella sgambata anche a lui...”
Dai mamma, lascialo stare, per amor di Dio...che poi vuole sempre giocare con le pigne, va a sguazzare nei pantani e abbaia come un idiota a qualsiasi animale che incontra. Ti ricordi l'altro giorno che si è fatto rincorrere da due mucche?” 

Questa l'avevo schivata, ma mia madre sapeva giocare sporco e infatti puntò dritta sulle paure ancestrali della mia ragazza. “Beh... almeno portatevi i bastoni, che li è pieno di vipere, anzi, Donatella, mi raccomando, prima di allungare una mano nell'erba o tra i sassi per prendere un fungo o una fragola, batti bene il terreno attorno.
Perchè? Ci sono le vipere?” Donatella spalancò gli occhi per lo spavento.
Ma no, figurati, non ci sono...io non ne ho mai vista una. E' mia madre che se le sogna di notte
E’ perchè Carletto non le sa vedere, ma nella zona dove andate ci sono delle pietraie e ce ne sono diverse, anche belle grossette.."
"Mica cerchiamo i funghi e i mirtilli tra le pietre...staremo sempre nel bosco e il problema è risolto."
"Guarda che non stanno mica tutto il giorno a scaldarsi sui sassi, sai? Si muovono anche loro. Tuo fratello ne ha viste tre l’ultima volta e una era in mezzo all'erba...non è vero Franco?

Mio fratello, evidentemente corrotto a suon di Topolini nuovi, apparve alla finestra a confermare e aggiungendo di suo altri particolari ansiogeni sulla dimensione dei serpentelli che nel suo racconto sembravano crotali aggressivi pronti a spuntare sibilando da tutte le parti e principalmente tra fragole e mirtilli. Alla fine mia madre, sorridendole in modo carino, tirò la bordata devastante che pose termine allo scontro.“Donatella, tu che sei più ragionevole di quello sciagurato di mio figlio, che ne dici? Perchè non andiamo a funghi domani tutti assieme, alzandoci per tempo e ora metto su i canederli e lo spezzatino per quattro?” 


Contro i canederli delle mamme, non c'è partita...


Lei dopo avermi guardato come il mostro che stava portando l’agnellino ingenuo alla perdizione per i suoi loschi scopi risalì rapidamente le scale di casa offrendosi perfino di dare una mano in cucina. Ora io avevo sempre immaginato di poter essere tradito per un altro ragazzo, ma per un piatto di spezzatino, no, e questo mi mise di pessimo umore. Il giorno seguente, però iniziò a piovere e quindi invece della gita a funghi ci concedemmo solo una passeggiata infreddolita e infagottati nelle giacche a vento sino alla Malga Panna, appena sopra Sorte, per mangiare polenta e salsiccia e un fumante minestrone di verdure, con Whisky che a forza di inseguire vanamente le cornacchie nei prati era ormai inzuppato di acqua e fango come un babà lo è di liquore. Ovviamente venne a scrollarsi di fronte a Donatella che non la prese bene e ritornò sulla faccenda della mia idiozia perché non controllavo abbastanza il cane, come la volta in cui c'eravamo conosciuti in campo San Beneto quando il mio lupo, lasciato senza guinzaglio, aveva cercato di trombarsi Molly, la cockerina di sua nonna. Che, con il senno di poi, non era il modo migliore di iniziare una storia con una ragazza.

La sera capitolai e dopo aver rinunciato a giocare a scacchi contro una che trasportava malinconicamente legname da una parte all'altra della scacchiera lasciando i pezzi in presa, per disperazione andammo a vedere il film con Ciccio e Franco al cinema parrocchiale. Ovviamente, mia madre ci appioppò mio fratello tanto per spegnere qualsiasi ardore residuo, ma però essendo sempre astuto come una faina, con un pacchetto di gomme americane e un mottarello ricoperto, riuscii a convincerlo a prendere posto da un altra parte e così, rintanati nell'ultima fila riuscimmo a darci almeno qualche bacio, anche se la pellicola, talmente rovinata da sembrare che ci avessero pulito il pavimento, saltava in continuazione e quindi si accendevano spesso le luci in sala tra i fischi del pubblico.

Siccome in montagna quando inizia a piovere, poi ci prende gusto e lo fa per diversi giorni, Il tempo rimase costantemente incerto tra una schiarita e un nuvolone e avendo ancora due giorni a disposizione prima che Donatella tornasse a Venezia presi la cosa come un pessimo segnale perché c’era il rischio che l’intera settimana di vacanza con la mia ragazza passasse senza che avessimo fatto l’amore almeno una volta. Però mia madre ci mise lo zampino non so quanto volontariamente perché a cena, dopo aver visto dal balcone il cielo che era finalmente terso e stellato se ne uscì fuori con un “Visto che domani sarà una bella giornata, perché non porti Donatella almeno al Rifugio Vajolet? Non vorrai mica che torni a casa dopo una settimana in montagna senza aver messo piede sul Catinaccio, no?” La destinataria della proposta accettò subito con entusiasmo, mentre io che stavo mangiando di gusto la seconda cotoletta alla milanese dopo averla contesa a mio fratello, deglutito a fatica il boccone la guardai perplesso: “Mamma, io la porterei anche, ma è venuta su con le scarpe da tennis della Superga, e poi non so se ha le gambe allenate per quattro ore di marcia. Che io sappia non è mai andata seriamente in montagna
Mia madre scrollò le spalle per farmi capire come le mie resistenze fossero irrilevanti.
Oh senti...non fare sempre il difficile su tutto. Un paio di scarponcini glieli do io, che abbiamo lo stesso numero e anche la giacca a vento. Per il resto sai bene che il sentiero non è difficile, è largo, quasi tutto pianeggiante e c’è solo lo strappetto finale che è molto ripido, ma sono quindici minuti di salita e li fa senz'altro. Se vuoi domani mattina alle otto vi porto a Vigo di Fassa così prendete la seggiovia per il Ciampedie”. 



la gola che dal Gardeccia ci avrebbe portato al Vajolet che si vede in cima a destra


Non riuscii ad oppormi a quelle due nuovamente coalizzate e così la mattina seguente, con un sole scintillante che scaldava le ossa, appena sbarcati dalla seggiovia lasciammo alle nostre spalle il Rifugio Ciampedie (dopo averne estratto a forza Donatella che si stava strafogando di strudel e cioccolata calda) e superato il Negritella prendemmo il sentiero 540 verso il Gardeccia che si snodava tra pini e cespugli di rododendro, con lo scenario mozzafiato del dirupi del Larsech e dei Mugoni a farci compagnia e l’aria fine dei duemila metri da respirare a pieni polmoni. Di solito percorrevo il tratto, quasi tutto in discesa, dal Ciampedie al Gardeccia in 45 minuti, ma non conoscevo ancora la totale incompatibilità di Donatella con la montagna. Dopo un ora e venti di camminata a ritmo di processione trascorsa a chiedere:"Ma quanto manca al rifugio?" e fermandoci ogni dieci minuti, prima perché aveva sete e voleva la borraccia, poi perché aveva caldo e doveva togliere la giacca a vento e cento metri dopo perché aveva freddo e voleva rimetterla, alla fine Donatella iniziò a borbottare che non si sentiva bene, provava un senso di peso all'addome e le veniva da vomitare. Così, ad un certo punto chiese ancora di fare sosta e si appartò dietro un cespuglio da cui riemerse dopo un’imprecazione irriferibile, visibilmente contrariata, tanto che le domandai che avesse.
"Che vuoi che abbia? Mi sono venute in anticipo. Le aspettavo per domenica o lunedì...
Cosa? Le mestruazioni?
Certo! Cosa credevi che aspettassi: la corriera? Ho un mal di pancia della malora...torniamo indietro
Ah! Mi dispiace. Comunque non sei in grado di stringere i denti e proseguire ancora per venti minuti? Non manca molto al rifugio e sicuramente al Gardeccia hanno un analgesico da darti, ti prendi una bevanda calda, ti riposi un po' e magari dopo stai meglio e rientriamo a casa. Proprio non te la senti?” 

La mia era solo una domanda gentile ma lei rispose con un’ aggressività che non le conoscevo. “Noooo! Sto malissimo, starò ancora peggio e non ho neppure gli assorbenti. Lo capisci o no? Portami a casa subito...” Le ultime parole le pronunciò quasi strillando, tanto da mettermi in crisi, perché avrei voluto aiutarla in qualsiasi modo, ma se lei stava male, io i miracoli non li potevo fare,
Si...certo che lo faccio e ti riporto a casa, ma siamo poco oltre metà strada tra i due rifugi e non è che posso chiamare un taxi. Andare al Gardeccia che è più vicino mi sembrava razionale, ma se vuoi tornare a Moena dobbiamo risalire su al Ciampedie e quindi devi avere pazienza perché ci tocca camminare per almeno un oretta, se non di più. Quindi muoviamoci perché finché rimaniamo fermi qui, non risolviamo il tuo problema. ” Lei bofonchiò qualcosa che  iniziava per "fanc... " e finiva per “..onzo” e ci rimettemmo in marcia per tornare alla seggiovia.



Lo strudel dei rifugi con un bicchiere di Kapriol ritempra ogni stanchezza


Ovviamente, visto che sino a quel punto eravamo scesi, il sentiero ora andava ripercorso in salita e questo la mise ulteriormente in difficoltà, tanto che dopo venti minuti di lamentazioni e scarognamenti vari sulle montagne, su di me che ce l’avevo portata, i rifugi e perfino sul povero Re Laurino, venne colta da una crisi isterica di pianto anche perché ora ai dolori mestruali si erano aggiunti anche quelli ai piedi. Riuscii a calmarla a stento, poi la feci sedere e le tolsi gli scarponcini giusto per scoprire che, malgrado mia madre le avesse dato dei calzettoni di lana, lei aveva preferito indossare dei calzini di filo talmente sottili da lacerarsi. Così aveva fatto due belle vesciche a carne viva proprio sopra i calcagni, perché i suoi piedini delicati abituati alle ballerine o al mocassino di pelle morbida per la passeggiata lungo le Mercerie non immaginavano la durezza del cuoio delle pedule da roccia. A quel punto, visto che non era più in grado di camminare, scartata l'idea di darle il colpo di grazia con la piccozza (anche perché non l'avevo) e di abbandonarla sul sentiero, per disperazione, dopo aver passato a lei lo zaino che era abbastanza leggero per non indurla ad altre lamentazioni, me la issai a cavalcioni sulla schiena e, passo dopo passo, la portai su per la salita fin quasi a destinazione con lei avvinghiata al collo fino a strangolarmi e io che la reggevo per le gambe (meno male che almeno era magrolina), fermandomi e posandola a terra ogni cento metri per riprendere fiato, con il sudore che inzuppava la camicia e il cuore che mi saliva quasi in gola per lo sforzo. 

Poi, per fortuna incontrammo un gruppo di signori gentilissimi di Piacenza che stavano scendendo, ma vista la situazione mi aiutarono tornando indietro e dandomi il cambio a portare la sedicente ferita (dissi loro che la mia compagna aveva una storta alla caviglia, perché ovviamente non potevo dire il vero problema). Alla fine, tornammo al Ciampedie dove tra cerottini, garze, tintura di iodio, una pastiglia di Saridon per i dolori mestruali e un assorbente avuti gentilmente in omaggio dalla signora che gestiva il rifugio, Donatella dopo un' oretta di sosta si rimise abbastanza in sesto per riprendere la seggiovia e tornare a casa. Una fetta di torta di nocciole alta un palmo con una tazza di tè bollente durante quell'ora di attesa affinché il Saridon iniziasse a fare effetto, aiutarono molto a tonificarla. Ovviamente, era stato rimesso in sesto il fisico, non l’umore, così già sulla corriera per Moena litigammo, perché lei sosteneva la tesi risibile che quanto accaduto era tutta colpa del mio egoismo e io che se solo avessi immaginato quanto era piantagrane e incapace di sopportare un minimo di sofferenza fisica, con il ca... volo che l’avrei portata. La sera e tutto il sabato seguente furono trascorsi nel broncio più totale e a nulla valse il tentativo in extremis di un vassoio di krapfen per risollevare l’umore tetro di Donatella. La domenica pomeriggio, quando risalì sulla corriera per Venezia mi sentii quasi sollevato, tanto che appena rientrato a casa mi misi volentieri a studiare Diritto privato, che a settembre avevo la sessione d’esame.

sabato 19 settembre 2020

Come riuscire a trascorrere le settimane bianche anche in estate (parte 1 - le speranze vane)


Alla fine del 1966, dopo aver superato tra l'incredulità generale la maturità, m'iscrissi a Giurisprudenza e iniziai a frequentare le lezioni a Padova, con lunghi e perigliosi viaggi in treno da matricola sottoposta a vessazioni varie, tra le quali ricordo di aver dovuto fare, sotto la minaccia della "cacatio", ovvero del lancio di cachi maturi, arrampicato in mutande sul monumento di Cavour un dotto discorso sul tema dell'influenza del passaggio delle petroliere lungo le rotte artiche sul ciclo mestruale delle balene. Che poi il problema non fu tanto quello del discorso, che per inventare cretinate sono abbastanza portato, ma quello di scendere da solo dal basamento dove mi avevano issato, perché era alto oltre due metri da terra. Poco dopo mia madre assieme ad una sua amica, moglie di un collega di mio padre di base a Livorno, prese in affitto per i rispettivi figli un piccolo appartamento a poca distanza dalla facoltà per agevolarli negli studi (naturalmente noi figli intendevamo la cosa ottima anche per altre faccende ovvie a quell'età in cui i nostri ormoni giravano tumultuosi come i cavalli al Palio di Siena). Un mese dopo, concludendo un lungo corteggiamento che era iniziato ancora in spiaggia al Des Bains (visto che non osavo dichiararmi, per tagliar corto lei mi invitò ad una festa a casa sua che però non c'era, così come i suoi genitori che erano a Cortina) mi misi assieme ad una bella ragazza veneziana di nome Donatella, che studiava Lettere al Liviano e con lei, grazie anche al fatto di abitare a Padova lontano da occhi veneziani indiscreti e pettegoli, iniziai una storia d’amore piuttosto intensa che poi, tra alti e bassi, abbandoni e riprese durò per tutti gli anni dell’università.

Purtroppo, però, mia madre era riuscita ad ottenere una copia delle chiavi del nostro appartamento grazie al portiere del residence, una losca persona che, come Vittorio Emanuele II, non era insensibile al grido di dolore e ad offerte in denaro. Così mia madre, anche per conto di quella altrettanto sospettosa del mio compagno di stanza (le vicende seguenti che la resero nonna di un bel maschietto dimostrarono come non avesse poi tutti i torti) effettuava periodicamente delle incursioni a sorpresa per controllare come tenessimo in ordine la casa (in quel campo eravamo due "selvaggetti", secondo lei) e talvolta per portarci via le bottiglie di liquore dall’armadietto. In tal caso, siccome da brava artista con una bella vocazione al disegno aveva sempre un block notes in borsetta e qualche pennarello, al loro posto ci lasciava dei simpatici disegnini con la bandiera dei pirati, il teschio e le tibie incrociate. Naturalmente, oltre a sequestrarci alcolici e sigarette, ci buttava in pattumiera anche le copie di Playboy che Roberto portava su dal mercatino americano di Livorno (con bigliettino: “E’ così che studiate?”) e talvolta, immagino mettendosi le mani nei capelli di fronte a tanto disordine, trovava il tempo di rifarci i letti, lavarci la pila di piatti di qualche giorno prima (lasciamo stare quel che scriveva sui bigliettini che poi ci lasciava sull'acquaio. Diciamo che "Siete davvero indecenti!" era la cosa più carina) e talvolta ci preparava perfino qualche porzione di spaghetti che poi trovavamo pronti in tavola e coperti da un piatto perché non si raffreddassero quando tornavamo da lezione. Cosa che, al di là del fastidio per la violazione della nostra privacy, scoprivamo con gioia perché altrimenti ci sarebbe toccato andare a fare la coda in mensa. 

Una mattina però, tornando dalla facoltà, vidi che mia mamma, dopo il raid di due giorni prima era passata di nuovo e, naturalmente, essendomi dimenticato di nasconderla non ritenendo ci fosse pericolo imminente, aveva notato la bella foto di Donatella che da qualche giorno tenevo incorniciata accanto al mio letto. Sopra c’era un bigliettino con un paio di cuoricini e un grazioso Cupido che diceva “Molto carina! Complimenti…” 
Ma, poiché è noto che in cauda venenum, subito sotto c’era il post scriptum che mi fece raggelare il sangue: “Se per caso lei è quella che si è dimenticata il mascara sulla mensola del bagno di casa nostra quella sera che io ero fuori al torneo di bridge, se la inviti a cena da noi mi farà molto piacere ridarglielo di persona e poterla conoscere” . 

Lo feci qualche sera dopo, sia pure con un imbarazzo mostruoso (anche da parte di lei), e, come immaginavo (e temevo), la cena fu simpaticissima. Mia madre, che conosceva l’arte dell’ospitalità e di mettere le persone a proprio agio, fu molto affettuosa con Donatella e le due iniziarono presto a fare amicizia e comunella a mio danno, tanto che in seguito, con una manovra a tenaglia perfettamente studiata, le due complici m'indussero a lasciare la chitarra e le crociere sulle navi, a riprendere gli studi e a dare esami, con Donatella che mi pose di fronte ad una di quelle alternative non trattabili del tipo “o me e la laurea o la chitarra” ed essendo una delle due possibilità in stretta relazione con il concetto economico di “bene scarso rispetto alla domanda” potete bene immaginare cosa abbia scelto e perché. 

Tuttavia, nel tempo il rapporto di cordialità ed amicizia si era esteso anche ai genitori di lei, due carissime persone che si erano affezionate a me come mia madre alla loro figlia. Questo anche perché a suo padre, appassionato velista, non pareva vero di aver trovato finalmente un uomo di mare che lo aiutasse in barca nelle manovre e, soprattutto, un discreto cuoco, dal momento che moglie e figlia andavano già in difficoltà a preparare un brodo con il dado (a volte pensavo che, come un novello Esaù, mi concedesse la primogenitura in cambio di un piatto di lenticchie o, nel mio caso, di un risotto). Così l’estate seguente ottenni almeno di avere Donatella nostra ospite per una settimana nella casa che avevamo preso nuovamente in affitto a Moena, dopo gli anni trascorsi ad Ortisei. Noi saremmo andati su ai primi di luglio mentre Donatella, che non ricordo cosa dovesse fare ancora a Venezia, ci avrebbe raggiunto un lunedì, subito dopo la metà del mese. 





Il fatto è che a quell’epoca Moena non presentava svaghi di sorta a parte il dancing dell’hotel Faloria, che era inavvicinabile per le mie tasche e probabilmente anche per la fascia d’età di chi lo frequentava. Purtroppo, già la seconda sera dall'arrivo era svanita subito la carta del cinema parrocchiale San Vigilio, che poi era l’unico attivo sulla piazza. Avevo notato sulla locandina attaccata a fianco dell’ingresso che proiettavano l’Armata Brancaleone e anche se l’avevo già visto a Venezia pensai che era un buon modo per far passare almeno una serata. Ma quando mi presentai al botteghino mi accorsi che quello era il film della settimana prima. Infatti quella sera proiettavano per la prima volta “il bello, il brutto e il cretino” con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Mi rifiutai di vederlo e tornai mestamente a casa con la brutta notizia che il parroco, considerandolo un film per famiglie, lo avrebbe programmato per almeno due settimane.

Dunque, senza cinema e senza televisione, escludendo dopo le prime cinque sconfitte consecutive di giocare ancora a scala quaranta con mia madre e mio fratello e tanto meno a Monopoli, tutte le sere scendevo in paese per fare le code interminabili davanti alle cabine della Sip e telefonare a Donatella spendendo un patrimonio in gettoni. Era l’unico momento bello, a meno che non rispondesse sua madre per dirmi che era al cinema o peggio, come successe una volta, che la figlia era in bagno e se volevo aspettarla. Dopo dieci minuti di attesa con i gettoni che continuavano a cadere inesorabili, decisi che doveva essere stitica e riagganciai. Al ritorno, facevo una rapida puntatina al bar per una spuma di mele sorseggiata guardando quelli che giocavano a biliardo. Poi con le ultime cento lire mi concedevo una partitina a flipper che tanto finiva subito perché i bumper ti scaraventavano immediatamente la palla appena lanciata nelle canalette laterali senza neppure poterla toccare e se provavi appena a scuoterlo o sollevarlo per fregarlo, il maledetto aveva il tilt ipersensibile. Non a caso, immagino, proprio sopra il flipper era appeso un cartello che ricordava le sanzioni contro chi bestemmiasse in luogo pubblico. 

Poi, finalmente il lunedì agognato arrivò e con lui anche il sole ad illuminare i boschi fradici di acqua e le montagne picchiettate di neve, che considerai di buon auspicio. Mia madre mi ordinò di prendere una giacca a vento e anche se sul momento mi sembrava una bizzarria, quando vidi Donatella scendere dalla corriera rossa della Siamic con un abitino leggerissimo di cotone, capii che la sapeva lunga. Naturalmente, visto che non eravamo soli, il nostro saluto fu molto formale e durante la strada, io che portavo le valigie rimasi indietro rispetto a quelle due che parlottavano come vecchie amiche. All'altezza del ponte in ferro sull’Avisio riuscii finalmente a prenderle una mano. Lei me la strinse affettuosa e questo mi mise di buonumore. Dopo una cenetta molto simpatica e quattro passi serali in paese riuscii a stare da solo due minuti con lei e a concordare il piano di battaglia per la notte, che era molto semplice. Siccome avevamo le stanze con la parete in comune avrei atteso che mio fratello finisse di leggere Topolino e si addormentasse (gli avevo nascosto sopra l’armadio quelli vecchi casomai vedendoli volesse rileggerli) poi le avrei bussato leggermente due volte sul muro e se lei era pronta avrebbe risposto a sua volta con un colpetto. Così dopo aver aperto con cautela la mia porta (che non cigolava...avevo fatto le prove tutto il giorno e avevo anche unto i cardini con l’olio d’oliva extravergine) sarei scivolato furtivo nella sua stanza e nel suo letto, come un novello Casanova. 



Il primo Whisky della serie, il mio adorabile lupacchione


Purtroppo, Il generale cinese Sun Tzu nel suo trattato sull'Arte della guerra diceva che il presupposto per il successo è quello di conoscere il proprio nemico e io avevo sottovalutato mia madre, che invece mi conosceva perfettamente. Infatti, appena aperta la porta della stanza desideroso di cogliere l'agognato frutto dell'amore, mi giunse il latrato festoso di quel cretino di Whisky che invece che sul pianerottolo d’ingresso quella notte era stato messo sapientemente a dormire sulla sua vecchia trapunta in quel punto strategico del corridoio dove si aprivano le nostre camere. Non solo, ma era stato collocato in modo tale da fargli percuotere la porta di mia madre scodinzolando per la gioia di vedermi. Così immediatamente arrivò dalla sua stanza il “Carletto su... da bravo, torna nel tuo letto e non farmi arrabbiare.”

Anche il secondo e il terzo assalto nel giro di mezzora finirono allo stesso modo (i lupi hanno il sonno leggero) malgrado cercassi di bisbigliare a quel traditore di stare buono, che non avevo voglia di giocare con lui. Alla fine, visto che mia madre dal livello giallo del "Vai a dormire" era passata a quello arancione del “Guarda che vengo lì, ti chiudo dentro a chiave e ti riapro domani mattina” dovetti desistere, anche perché ormai, dopo che gli ultimi colpetti sul muro non avevano avuto risposta, avevo appoggiato l’orecchio sulla parete e sentito il russare profondo di Donatella vinta dal sonno. E quando si dice che ogni lasciata è persa, beh.. quella era davvero persa. Ma un prode marinaio veneziano non si arrende mai di fronte alla cattiva sorte e quindi tra qualche giorno saprete come andò a finire

domenica 13 settembre 2020

Degli anni felici di Taranto, di Luciano detto: "o' scippacore" e della definitiva caduta in disgrazia della signora Pepe.


Dopo avervi presentato nel racconto precedente la Signora Pepe, che per il momento, dopo la catastrofica collisione con un caco, lasceremo spezzata in due sugli scogli come la USS Grommet Reefer nel porto di Livorno, ora vi presento l'altra persona indimenticabile del nostro soggiorno tarantino, che però questa volta lo fu in positivo diventando involontariamente il fattore scatenante dell'affondamento definitivo della nostra invadente e impicciona vicina di pianerottolo. Infatti, tra i marinai in servizio di leva nella base di Taranto in quegli anni c'era anche la nostra ordinanza (allora ogni ufficiale ne poteva avere una) ovvero un giovanotto di Resìna (oggi denominata nuovamente Ercolano, alle falde del Vesuvio) furbo matricolato, un fisico atletico (faceva lotta greco-romana), biondo riccioluto e con l'aria da guappo dei bassifondi ma buono come il pane e di gran cuore. 


La signora Pepe in affondamento dopo l'urto sui cachi


Si chiamava Luciano e i suoi compiti a casa nostra erano limitati a qualche piccola commissione tipo comperare il pane oppure accompagnare e prendere noi a scuola, perché per regolamento era proibito fargli svolgere le pulizie di casa e, del resto, un pomeriggio che mia madre gli aveva chiesto se per favore poteva lavarle i piatti, che lei doveva uscire d’urgenza, lui lo fece in modalità: "jatevenne serena, signò che ce penza o' marinariello vostro" ma sbeccò un piatto e ruppe un paio di bicchieri del servizio e dunque, divieti a parte, non era consigliabile. Luciano aveva una pazienza infinita e un grande affetto per i figli del suo comandante, anche se per farci stare buoni minacciava sovente di farci il “polso”, una stretta (dolorosa assai...) dei minuscoli ossicini della nostra mano che c’induceva subito a più miti consigli. Luciano, poi, che sapeva leggere e scrivere a fatica, riusciva perfino a farci svolgere i compiti (e non escludo che la cosa servisse anche a lui...). Con mia madre, invece, erano guerre divertenti al momento del rendiconto della spesa poiché Luciano, svelto come tutti quelli cresciuti per la strada, trovava sempre un modo fantasioso di giustificare la cresta evidentissima che aveva praticato, tanto che ad un certo punto ebbi il sospetto che mia madre si divertisse a vedere cosa non fosse capace di inventarsi. Una mattina la mamma pesò ostentatamente quelli che, secondo lui, dovevano essere due chili di arance e che invece risultavano (a stento) essere sui settecento grammi. Pensava così che il reo, colto finalmente in flagranza di reato, confessasse di aver incamerato una parte dei soldi. Invece, con un riflesso fulmineo quel simpatico mascalzone di Luciano assunse un’espressione sgomenta ed esclamò “Gesummarìa! Signora, che scuorno c'aggia avuto... un napoletano fregato da un tarantino ...”. Epiche furono poi anche le lotte con le matite per segnare i livelli sulle etichette delle bottiglie di liquore. Ci arrendemmo solo quando l'infame per nascondere i suoi prelievi cominciò ad annacquare il whisky. A quel punto nascondemmo con cura quella buona di malto e mettemmo nell'armadietto dei liquori una bottiglia di whisky andante da quattro soldi. 


Luciano, come si nota dalla sua foto, era davvero un bel ragazzo molto intraprendente e intratteneva rapporti amorosi con un giro impressionante di cameriere, parrucchiere e commesse di qualsiasi età, purché d’aspetto volgarotto. Mia madre per questa sua indefessa caccia alle gonnelle e la sua aria da guappo dei Quartieri Spagnoli l'aveva soprannominato "o' scippacore" e lui, non cogliendo l'ironia e il gioco di parole, se ne compiaceva molto. Il guaio era che a tutte le sue prede, con scarsa fantasia, lui fissava l’appuntamento proprio sotto il nostro portone dove pertanto nel tempo successero scenate memorabili perché il nostro, assai distratto oltre che perennemente in ritardo (portava un costoso pataccone dorato al polso, ma quando gli faceva comodo quell'orologio era sempre fermo) spesso confondeva gli orari e quindi prima o poi una delle due fanciulle in attesa sul nostro marciapiede chiedeva all'altra "Scusa, ma tu chi stai aspettando?" e poi vai di strillo e borsettate. 

Ad ogni modo, il luogo eletto per gli appuntamenti del nostro "scippacore" cambiò repentinamente la sera in cui mia madre rientrando a casa ebbe un duro battibecco con una popolana scarmigliata che l’aveva aspettata davanti al portone per intimarle (con adeguato corredo di strilli, insulti e minacce) di stare alla larga dal suo amato Luciano con il quale l’aveva vista passeggiare insieme al mercato. Ci volle del bello e del buono e l'intervento di alcuni passanti per chiarire l’equivoco con la signora Pepe che aveva osservato estasiata tutta la scena dal balcone. 


L'adorabile Luciano, o' scippacore


Mia madre era letteralmente furibonda e il giorno dopo, appena se lo ritrovò di fronte, somministrò al reo una terrificante lavata di capo. Luciano si presentò al lavoro, la mattina successiva, a capo chino e portando con sé un gran mazzo di fiori di campo e una lettera di scuse tanto sgrammaticata quanto commovente che gli valse il perdono. Per fortuna del giovanotto in quella settimana mio padre era in mare con la squadra navale per delle esercitazioni, altrimenti non so cosa gli sarebbe successo.
 
Comunque, il nostro marinaio durante le sue libere uscite, oltre a tentare di sedurre ogni essere di sesso femminile tra i diciotto e i sessant'anni che gli si parasse davanti, doveva anche sguazzare in ambienti non proprio raccomandabili e sicuramente tra le sue amicizie tarantine ci doveva essere gente con dei dossier alti così negli archivi della Polizia. Infatti, ogni tanto, quando il suo comandante non c'era, altrimenti non avrebbe osato, si presentava a casa con stecche di sigarette o liquori di contrabbando (Gin soprattutto, ma anche brandy Metaxa e liquori spagnoli sconosciuti), presi chissà dove e che mia madre, per quieto vivere gli comperava, anche perché i prezzi erano davvero stracciati. Questo non ci piaceva, ma, d'altronde, il contrabbando era l’attività ordinaria di ogni porto del Mediterraneo e quindi mia madre, essendo donna pragmatica e di riflessi svelti, chiudeva un occhio. 

Ad ogni modo di questi suoi strani giri di amicizie ce ne accorgemmo definitivamente una mattina quando a mia madre, che si era fermata davanti alla bottega del macellaio Ubaldo (il Ribaldo), giusto il tempo di comperare due fettine, rubarono la bicicletta, una vecchia Bianchi rugginosa, con tutta la spesa nel cestino. Tornata a casa fuori di sé, mia madre raccontò del furto a Luciano che, dopo aver seguito con molta partecipazione la triste storia e aver commentato che Taranto era davvero una città di mariuoli, suggerì di non fare denuncia perché ci avrebbe pensato lui. Uscì di casa a fare delle telefonate riservate “alle persone giuste” e rientrò dopo qualche ora tutto sorridente, dicendo a mia madre con aria d’intesa di non preoccuparsi dato che si era trattato di un errore e che ora era tutto a posto. Altro non aggiunse e noi ci domandammo cosa intendesse dire con quel “tutto a posto”. 


Papà e mamma all'epoca, a cena al Circolo Marina


A metà pomeriggio sentimmo suonare con forza il campanello di casa. Mia madre, non avendo ottenuto risposta, scese da basso a vedere di cosa si trattasse e trovò la sua bici appoggiata al portone, tutta lucidata (sembrava nuova) e con tanto di spesa fresca nel cestino. Mio padre fu tenuto all'oscuro di tutta la faccenda (legalitario com'era ne avrebbe fatto una tragedia) e noi, ovviamente, ci accontentammo di quella grazia ricevuta senza approfondire ulteriormente. Luciano, da parte sua, lucrò qualche soldino, una bottiglia di whisky e tre giorni di licenza premio. 

Un paio di giorni dopo mia madre incontrò per le scale il marito della signora Pepe, detto “o’ ragioniere” che, dopo averla ossequiata con tutta l’untuosa deferenza di cui era capace (faceva il baciamano alle signore, ma non accennandolo semplicemente, bensì infliggendo loro umidi baci, vere e proprie slappate, sul dorso della mano), le chiese se fosse contenta di aver ritrovato la bicicletta. Siccome nessuno sapeva del furto oltre a Luciano, mia madre restò allibita. Ma le sorprese non erano ancora finite poiché “o’ ragioniere” le chiese subito dopo di accettare le scuse del giovanotto che aveva fatto “il lavoretto” senza sapere che quella bici apparteneva ad una “persona di rispetto” per troppa inesperienza (sa come sono i giovani…). Le chiese però una piccola mancia per il ragazzo che, in fin dei conti, le aveva lucidato la bici e rifatto la spesa pagando di tasca propria. Mia madre, pur di porre termine a quel colloquio così imbarazzante, frugò nella borsa e gli mise in mano una manciata di banconote senza nemmeno contarle. Messo velocemente in tasca il gruzzoletto “o’ragioniere” ringraziò e rientrò in casa sua (dal portone aperto si sprigionò denso un profumo di penne al ragù napoletano verace). Quando Luciano tornò dalla licenza premio si prese una nuova terribile lavata di capo per averci esposto ad una figura così compromettente, ma finalmente la Pepe e il suo preoccupante marito vennero rimossi per sempre dalle nostre frequentazioni. Luciano, malgrado questi incidenti di percorso, si affezionò moltissimo a noi (e noi a lui) e anche quando lasciò il servizio militare rientrando a Napoli, continuò a farsi vivo ogni tanto con qualche telefonata. Poi, tra una vicissitudine e l’altra, lo perdemmo di vista. 



L'Aviere in ormeggio a Venezia, per la nostra gioia  


Ricomparve misteriosamente una sera di oltre vent'anni dopo, a Venezia. All'ora di cena sentimmo suonare il citofono e siccome nessuno rispondeva ci affacciammo per vedere chi fosse al portone e dal campo una voce maschile, con un forte accento napoletano, ci chiese se abitava lì il suo comandante, facendo il nome di mio padre. Dio solo sa come, ma era riuscito a trovarci (magari grazie a qualche telefonata con “o’ ragioniere”). Luciano arrivò in casa carico di stecche di sigarette americane e regalini per tutti (per me uno Zippo con effigiata una procace donnina nuda, che fu subito sequestrato da mia madre con la scusa che non fumavo...). Lo abbracciammo con tanto affetto e poi, una volta accomodati in salotto, gli raccontammo di mio padre che purtroppo non c’era più e lui ci raccontò tutte le sue peripezie familiari, del fallimento della sua lavanderia, dei suoi quattro figli (un quinto gli era morto giovanissimo dopo una caduta dal motorino) e di come vivesse, per sbarcare il lunario, facendo il macchinista a bordo di scassatissime navi da carico attraverso i mari più esotici. Il classico cargo battente bandiera liberiana, insomma. Ma quale fosse la sua mansione a bordo, purtroppo, non aveva bisogno di dircelo, perché avevamo capito subito che con il frastuono delle macchine era diventato sordo come una campana. Poi non lo abbiamo rivisto più. Ma non è detto che dopo altri vent'anni, come in un racconto di Conrad, Luciano non ricompaia di nuovo. Io sono qui che lo aspetto...magari riesce a trovarmi anche a Mestre.

giovedì 10 settembre 2020

Degli anni di Taranto, della signora Pepe, delle casalinghe impiccione e del dramma dei cachi


Moltissimi anni fa, parlo del 1956, mi trovavo a Taranto, con mio padre, mia madre e mio fratello perché papà era stato nominato ufficiale in seconda dell'Aviere, un grosso cacciatorpediniere americano (ex USS Nicholson) veterano della guerra nel Pacifico ceduto nel primo dopoguerra all'Italia assieme al gemello Artigliere e di stanza con la squadra navale in quella base. 

Sul nostro pianerottolo al quarto piano di una palazzina in Corso Umberto si affacciava anche l’appartamento di una piccola e cicciottella casalinga napoletana (immaginate una sorta di Marisa Laurito, ma in formato mignon) moglie di un impiegato comunale, tale signora Pepe, che era una di quelle persone che sembra vivano unicamente per impicciarsi dei fatti altrui e si fanno un punto d’onore ad aggiornarti su quel che succede nelle altre famiglie del condominio, con particolare riferimento alle tresche amorose. Noi, dopo solo una settimana dal nostro arrivo nella palazzina, eravamo già stati messi al corrente, con fare complice, che quella biondona tutta cotonata che stava con il signor De Cataldo al quinto piano in realtà non era la vera moglie, che invece viveva a Bari con un altro, mentre correvano voci che la signora Angelillo, quella del secondo piano, se la intendesse da anni con il titolare del bar di fronte, mentre quel povero marito, tanto una brava persona, ma tanto ingenuo, non s’accorgeva di nulla (e solo un cieco non avrebbe notato come il figlio non gli assomigliasse affatto). Naturalmente a noi di tutte queste vicende private non poteva importare di meno, ma per la Pepe questo sembrava essere un dettaglio di poco conto.

La nostra esuberante vicina di pianerottolo, oltre al desiderio – mai esaudito per assoluto divieto paterno – di essere invitata a cena e d’intrattenere rapporti con la famiglia di uno di quegli ufficiali di marina che in città erano considerati una casta a parte, aveva come apparente scopo della sua esistenza quello di rivaleggiare con il nostro tenore di vita (che poi non era nulla di speciale). Perciò, se noi si comperava una qualunque cosa, lei come minimo ne comperava due, oppure una (vistosamente) più grossa. Come devo aver già raccontato in un post di qualche tempo fa, l’unico vantaggio per noi piccoli arrivava alla vigilia di Natale, quando la Pepe c’invitava ad ammirare il suo albero (il doppio del nostro) e ci rimpinzava degli addobbi di cioccolata e marzapane (due volte più numerosi dei nostri). Il lato negativo della cosa, invece, era che la Pepe, per confermarci che eravamo proprio di fronte ad una pia donna, ci invitava a recitare le preghierine a mani giunte e solo dopo sganciava il cioccolato. E, proprio alla vigilia di un Natale, la Pepe se ne uscì con un lapsus clamoroso, invitandoci premurosa, con la sua vocina cantilenante, ad essere tanto buoni e a dire le preghierine:“Che facciamo tanto contento il Gesuino Bambù!”. Questo fatto del “Gesuino Bambù”, subito riferito, scatenò per giorni l’ilarità di mio padre e divenne un vero tormentone. 


Mia madre e mio padre ad un ricevimento al Circolo Marina


La Pepe era in perenne agguato sulle scale (per me sorvegliava i nostri movimenti dallo spioncino della porta) ed era quasi impossibile uscire o rientrare a casa senza vederla comparire ad offrirci preziosi suggerimenti non richiesti. Se riuscivamo a sottrarci con qualche sotterfugio all'agguato per le scale, allora la Pepe agguantava mia madre non appena si recava a stendere la biancheria sul balconcino della cucina che era adiacente al suo. Bastava attendere qualche secondo e subito compariva la nostra vicina che, anche lei, ma guarda il caso, era lì per stendere i panni. Da quel momento, apriti cielo! Le sue conoscenze, a quanto c’era dato di vedere, spaziavano su qualsiasi settore della vita tarantina. Mia madre aveva comperato la carne dal macellaio Ubaldo, quello con il negozio all’angolo? E lei subito ti diceva sgomenta “Uuh! Mamma mia! Ma dove è andata? Signora, chillo è nu mariuolo di tre cotte! Io lo chiamo Ubaldo il Ribaldo perché rubba sempre sul peso! Le dico io dove deve andare…” e giù una lista dei migliori macellai di Taranto. Mia madre era appena stata dal parrucchiere? E via con una serie di considerazioni sulla permanente non perfetta (fosse andata al Salone Lola di Corso Umberto, invece…). Per acquistare il pesce (“Uuh! Mamma mia! Signora, ma che pesce le hanno venduto?”) ovviamente si doveva andare soltanto da Salvatore, quello che aveva il secondo banchetto a sinistra nel mercato di Taranto Vecchia (e che facessimo pure il suo nome). Un vero incubo, insomma. 

Quando poi riusciva a mettere piede dentro casa nostra, sempre con le scuse più inverosimili, soppesava ogni nostro avere, dalle stampe antiche appese sopra il divano, alle chincaglierie d’argento sul tavolino del salotto (“Mamma mia! Quante belle cose che tenete, signora cara!”) e sembrava sempre che ci facesse i conti in tasca. Se poi riusciva a penetrare in profondità, fino alla cucina, si scatenava nel valutare quali cibi fossero in preparazione (talvolta alzava persino i coperchi delle pentole) e trovava sempre qualche miglioria da suggerire su tempi di cottura o condimenti. A volte mia madre si accorgeva che la Pepe cercava di sbirciare anche in camera da letto attraverso la porta socchiusa e questo l’irritava assai (anche per il caos inestricabile che vi regnava). 


l'Aviere si rifornisce in navigazione dall'incrociatore Montecuccoli


La nostra vicina, assolutamente indomabile nel suo desiderio di avviare relazioni cordiali con noi, visto che da parte nostra non arrivava alcun segnale d’incoraggiamento (e mai sarebbe giunto) prese direttamente in mano la questione e, sapendo di colpire nel ventre molle, cominciò una furba manovra d’aggiramento con una serie di inviti a pranzo per noi bambini (tanto simpatici e educati). Poiché la signora si riteneva irresistibile nell’individuare e risolvere problemi altrui, per dare maggior forza all’invito e con grande sensibilità verso mia madre le fece notare come i due guaglioncelli fossero tanto pallidi e magri e ne concluse che sarebbe stato il caso di sottoporli ad una bella cura ricostituente a base delle sue celeberrime penne al ragù napoletano verace. Mia madre rimase a lungo incerta se offendersi o esserle grata, visto che le risparmiava l’incombenza di cucinare. Poi prevalse lo spirito pratico. Di conseguenza, la Pepe ci mise all'ingrasso come maiali, sempre previa preghierina pre e post-prandiale, perché era tanto devota. Qualche settimana dopo anche mia madre, incrociata casualmente sul pianerottolo, venne considerata sciupata e magrolina e di conseguenza gli inviti a cena vennero estesi anche a lei (senza preghiere e solo quando mio padre era per mare). Con mio padre, uomo di carnagione olivastra e dal fisico atletico, il trucco del pallore non poteva funzionare. Ma funzionava benissimo il debito d’ospitalità (perché noblesse oblige). Pertanto, una sera, grazie a questa sapiente escalation, la Pepe ottenne un risultato di grande importanza che sancì il trionfo delle sue strategie. Una cena a casa sua con tutta la nostra famiglia, mio padre compreso. In realtà, mio padre, aveva nicchiato per giorni chiedendo a mia madre se non poteva dirsi affondato e disperso in mare o cose del genere. Poi, rassegnato, di fronte alla considerazione che non si poteva fare la figura dei maleducati, accettò. 



L'Aviere in navigazione con mare grosso


La prima preoccupazione della Pepe (bardata come una cavallerizza del Circo Orfei e sfoggiante una vistosa acconciatura nero-corvina sicuramente proveniente dal rinomato Salone Lola di Corso Umberto) una volta varcata la fatidica soglia fu quella di farci subito visitare con orgoglio ogni stanza del suo appartamento, cosa della quale, come capirete, non ci poteva fregare di meno. Fummo così condotti in mesta processione ad ammirare una serie di mostruosità domestiche, tra le quali ricordo un numero impressionante di santi sotto campana di vetro e madonne ingrottate dentro enormi conchiglie (con il lumino, proprio come al cimitero), una credenza baroccheggiante dove spiccavano due cavalli rampanti di maiolica dipinta, un copri asse del water in ciniglia rosa, alcuni quadri ad olio stile pizzeria (una natura morta con cozze, limone e cesti di sardine e un ritratto di bimbo imbronciato con lacrimone sulla guancia) ed in camera da letto, colpo finale, la bambolona con il vestito di pizzo e le treccine adagiata sul copriletto di raso. Sbirciai la faccia dei miei. Mia madre lanciava dagli occhi lampi di puro divertimento, il volto di mio padre era impassibile e terreo, come di chi sa soffrire in silenzio. 

Tra gli orrori in mostra, comparve ad un tratto anche un buffo omino bassottello, spelacchiato e con gli occhiali che la Pepe ci presentò subito come suo marito “o’ ragioniere”. Che non si capiva se era un titolo di studio o il soprannome del bar del biliardo. Caratteristica di “o’ragioniere” era quella di non poter aprire bocca senza essere contraddetto o zittito da sua moglie che monopolizzava il dialogo con tutti noi e in special modo (anche se senza troppo successo) quello verso “o’comandante”. Colpiva soprattutto nel poveruomo, oltre alla cravatta fantasia sulla camicia fantasia, l’aria sottomessa e abbacchiata (e, del resto, con una virago di moglie così…). A sentire la sua dolce metà, l’unica attività degna di nota di “o’ragioniere” era quella di prendere parte annualmente alla processione dei Perdoni, quella dove penitenti incappucciati con un abbigliamento a metà via tra le processioni sacre spagnole e quelle del Ku Klux Klan (mi perdonino gli amici tarantini) sfilano per tutto il centro cittadino al ritmo di due passi avanti e uno indietro, pregando e flagellandosi le spalle con la frusta. Veniva spontaneo chiedersi cosa mai quel poveruomo, che già portava la croce di quella moglie, avesse ancora da farsi perdonare (ancora qualche settimana e l’avremmo scoperto).

La cena, annunciata come alla buona e in famiglia, fu un vero sfoggio di alta gastronomia partenopea (il lettore s’immagini qualsiasi cosa, purché sostanziosa, fritta, rifritta e affogata nell'olio extra vergine) e tutto sembrava filare alla perfezione fino al momento di portare in tavola il lussureggiante vassoio della frutta, dove spiccavano alcuni splendidi cachi maturi. Qui la signora Pepe fu probabilmente tradita dal suo disperato bisogno di vincere la soggezione che le ispirava mio padre e così lo invitò premurosamente a servirsi con uno stentoreo: “Comandante! U’ pigliainculo!”. Mio padre, folgorato, restò con la forchetta per aria. Noi tutti ci fermammo attoniti. Gli occhi di mia madre brillarono luciferini, mentre la Pepe, ostinata, ribadiva il suo invito con un bel sorriso: “Comandante! Gradisce nu pigliainculo?". 
Scusi, signora, non sono certo di aver capito…che cosa intende dire?” le chiese gelido mio padre. 
Perchè? Non le piacciono i pigliainculo?”. La sventurata proprio non si capacitava che mio padre rifiutasse una tale prelibatezza, finché immagino le sia giunto provvidenziale un calcio sotto tavola da parte di “o’ ragioniere” giacché di colpo le connessioni di quel cervello ripresero a funzionare. “Uh! Mamma mia! Comandante! Non vi sarete offeso? Come la chiamate voi al nord questa frutta accà? ” disse prendendo un caco in mano e mostrandocelo.
Cachi, signora, noi li chiamiamo semplicemente cachi, al massimo kaki con la kappa” 

Mio fratello e io non riuscivamo più a trattenere le risa guardando il viso di mio padre che era tutto un programma. La mamma ci fece un rapido cenno di stare buoni, immagino perché non voleva perdersi il seguito del dramma umano che si stava consumando davanti a lei. 
Aaah! Adesso ho capito. Mi dovete proprio scusare. Qui in dialetto li chiamiamo pigliainculo, perché se ne mangiate troppi e non sono maturi, poi non vi fanno più venire la cacarella. Lo sapevate Comandante?”.
Detto questo, cercando di tornare nelle nostre simpatie pur senza mai esserci entrata, con la mossa della disperazione si rivolse a mio fratello e ponendogli affettuosa una mano sulla testa gli domandò “E tu, giovanotto, la fai la cacarella?”. Mio fratello, sgomento, dopo aver cercato con lo sguardo l’approvazione materna, borbottò di sì e la Pepe concluse sospirando “Uh! Mamma mia! Quanto è bbravo stù guaglione!” e subito si lanciò lungo la china scivolosa di un dettagliato resoconto di quanto accaduto ad un suo nipote di Caserta che, non facendo la cacarella per delle settimane, aveva avuto non so più quali problemi intestinali e che lei aveva amorevolmente curato con non so più quali rimedi naturali. Il tutto si concluse con una lunga e appassionata perorazione a favore della regolarità delle funzioni intestinali. 

La Pepe ormai, dopo l'urto contro lo scoglio del caco, era senza speranza, imbarcava acqua, navigava sbandata ed era in procinto di capovolgersi, così mio padre l'affondò definitivamente con un siluro: “La ringrazio del prezioso consiglio di cui mia moglie, i miei figli ed io faremo tesoro. Anzi, poiché domani mattina usciamo in mare lo ricorderò all'equipaggio. Ci sarà sicuramente molto utile!”. La cena ebbe termine nella più gelida cortesia formale (clima siberiano) e la Pepe iniziò quella vertiginosa caduta in disgrazia che si completò rovinosamente poco tempo dopo, giacché il peggio doveva ancora arrivare, ma ve lo racconto tra qualche giorno.... 



giovedì 3 settembre 2020

Fenomenologia dello spirito (di alcune) delle commesse di panificio veneziane

Avendo a disposizione due panifici vicino a casa (ci sarebbe anche il pane già confezionato in sacchetto di plastica al supermercato, ma ci ricorro solo quando mi serve la gomma da masticare) ogni giorno posso scegliere dove spazientirmi e perdere tempo venendo costretto a subire il rito veneto della ciàcola arguta con il/la cliente abituale poiché Carlo Goldoni non è nato da queste parti per caso. Ora, ormai mi conoscete, io sono normalmente un tipo molto liberal e comprensivo, sapendo da tempo quanto nessuno (io per primo) sia perfetto, dunque accetto volentieri qualche piccola chiacchiera di cortesia e di rapporto empatico tra cliente e banconiere purché non superi quel limite temporale di tolleranza che la rende fastidiosa per chi si trova in attesa al banco e bellamente ignorato, avendo magari fretta perché ha altro da fare nella vita. In tal caso a volte mi trovo costretto a riscoprire le pretese di efficacia ed efficienza di chi come me viene dall'industria privata e, se non basta l’occhiataccia cupa di preavviso, poi divento “tagliente” come il coltello che vorrei avere tra le mani.

Per esempio, uno dei due panifici in cui mi servo (una piccola rivendita) ha la signora al banco che è molto gentile, ma da qualche tempo sta diventando sorda come una campana. Questo ormai rende i dialoghi tra me e lei piuttosto impegnativi perché se le chiedi quattro rosette ti risponde che le baguette oggi non ci sono e l’altro giorno che le ho chiesto di darmi una confezione di grissini mi ha risposto: “sono dietro di lei, nel banco frigo” perché aveva capito che volessi degli stracchini. La signora, in questione, essendo la rivendita molto piccolina, consente l’ingresso solo ad una persona alla volta (e non possono entrare i cani, dunque Whisky deve attendere più o meno pazientemente legato al palo del divieto di sosta in attesa che passi qualche cane per iniziare una lunga abbaiata del tipo “se ti avvicini ti apro in due anche se sono legato”).

Così, qualche giorno fa mi sono trovato ad attendere sulla porta che la cliente entrata prima di me oltre a comperare il pane e del tutto incurante della mia presenza sulla soglia, terminasse un lungo e periglioso dialogo ad alta voce con la banconiera sui gnocchi di patate in vendita, a base di “Sono freschi? Ma sono di patate? Non è che sono di zucca, che a mi no i me piase? Li vedo così gialli… ah! go capìo, el xe il tipo di patata. Ma tu come li condisci? Con il sugo? E come fai il sugo? Con il pomodoro fresco e il basilico? Che io anch'io li faccio così, però a mio marito non piacciono, lui li vuole solo al ragù…ma ti sa anca come ti pol farli? Ti ga da far un sugo con il radicchio e la luganega, ti vedarà quanto che i xe boni…”. Alla fine, sono stato costretto a ringhiarle dalla porta “Signora, che ne dice di un bel burro e salvia con tanto formaggio e di lasciarmi prendere il pane?”. 

Al martedì invece, nella rivendita c’è un'altra commessa che ormai ho soprannominato “Moviola” perché, oltre ad essere insicura e a chiederti più volte conferma di quello che vuoi per non sbagliare (che tanto poi il latte intero te lo dà lo stesso anche se tu lo hai chiesto parzialmente scremato perché si confonde tra le bottiglie e non ha ancora capito la differenza tra quella con il tappo blu e quella con il tappo rosa) è di una lentezza esasperante, pesa due o tre volte il pane per essere sicura e a volte fa delle inspiegabili e ripetute trasmigrazioni di pane da un sacchetto all’altro forse per diversità di prezzo. Poi se, Dio non voglia, prendi qualcosa che non sia pane dallo scaffale degli alimentari, va in preda al panico e deve uscire dal banco a controllare quanto costava la scatola di piselli che hai preso. Peccato che poi nel tragitto di ritorno alla cassa se lo dimentichi e quindi sia costretta a tornare indietro a rivedere (non serve che glielo dica tu, che lei per scrupolo deve andare a controllare comunque, dato che io ho evidentemente la faccia di quello che se ti può fregare cinque centesimi, te li frega).
Una volta, spinto dalle logiche aziendali del miglioramento continuo, le ho suggerito, visto che la sua rivendita non era il Conad con migliaia di prodotti in vendita, di scriversi i prezzi di quelle quattro cose che tiene sullo scaffale degli alimentari e nel piccolo banco frigo (il burro, lo yogurt, i pelati e qualche altro barattolo assortito e merendina) sopra un foglietto da appiccicare alla cassa, ma se lo deve essere dimenticato appena sono uscito. Comunque, il problema di “Moviola” è facilmente risolvibile, basta ricordarsi di non andare in quel panificio di martedì. 

L’altro panificio ha invece il problema “Mirandolina” ovvero una banconiera che, come fosse uscita dalle quinte della commedia di Goldoni, vuole farti vedere quanto sia vivace e brillante nella vita di relazione sociale e dunque si sente in obbligo di rivolgere ad ogni cliente conosciuto/a una sventagliata di considerazioni argute e battutine di grande ilarità, tanto che spesso se le fa e se le ride da sola. Il tutto aggravato dal fatto che il panificio ha anche un piccolo settore dove si può fare colazione e dove lei ama dedicare gran parte del suo tempo perché mentre prepara il cappuccino (dopo essersi autodefinita la maga della schiuma) ha modo di disquisire spiritosamente su pregi e virtù tutte le brioches in vetrina, con particolare enfasi per quelle integrali e al Kamut, Inoltre, s’informa di tutto un po’ riguardo alla vita del / della cliente: dalla fresca laurea di un nipote, alla figlia sedicenne che sta facendo pratica dalla parrucchiera, dai nonni che hanno fatto le nozze di platino e hanno festeggiato in uno sconosciuto ristorante di Oriago, magnificato come fosse la Villa Crespi di Cannavacciuolo, per finire al tema dei temi: “Ciò! Luisa... dove ti xè stada in vacansa, che xè tanto che no te vedevo…”. 
Così, appreso mentre sorbiva il cappuccino che la signora Luisa era stata a Cuba e che anche “Mirandolina” avrebbe tanto voluto andarci con suo marito, ma che ha paura di volare, mi sono sorbito, del tutto dimenticato davanti al banco del pane, una lunga serie di banalità turistiche sul pesce incredibile, il mare azzurrissimo ma con i pescecani, i cubani che sono gentili e simpatici ma appena esci dal centro c’è tanta povertà, il caldo umido e insopportabile, il Rum che quello buono è caro per non parlare dei sigari, le vecchie macchine americane e i taxi che sono scassatissimi e via dicendo, compresi i Barbudos che non ci sono più. Poi, anche se sono rimasto deluso perché mi aspettavo almeno un cenno a Che Guevara, attesa al varco come una sentenza, “Mirandolina” ha rivolto alla signora Luisa la domanda delle domande “ma ti xe stada anche a Guantanamera?” . A quel punto mi sono intromesso nel dialogo dicendo: “Scusate, ma ho sentito che parlate di Cuba e Guantanamera e volevo chiederle se per caso ha mica incontrato Compay Segundo”
“No.. ma… chi sarebbe?”
“Oh, niente… è un mio amico cubano che mi ha chiesto se gli comperavo quattro rosette.”