Street View è davvero fantastico perché ti consente di vedere, case, piazze e strade di qualsiasi luogo del mondo (ma anche le campagne, i fiumi, i laghi, il suo mare e le montagne) come se fossi lì sul posto e puoi anche passeggiare avanti e indietro a tuo piacere e prendere una strada oppure l'altra, come faresti da turista. Una meraviglia che uso spesso quando voglio viaggiare con la fantasia in posti remoti che non potrei mai raggiungere e così, solo posizionandoci l'omino di Street View, mi sono visto le brughiere di Scapa Flow nelle Orcadi (quanti greggi di pecore per le sue strade) il lungomare dell'Avenida Maipù di Ushuaia (che cielo e che montagne alle sue spalle) e il porto di Nuuk, con le sue casette di legno colorate e stracolmo di pescherecci d'altura e tempo fa ne ho anche postato per gli amici di Facebook qualche immagine.
Però ogni tanto uso Street view anche per rivedere posti a me cari e che hanno significato qualcosa nella mia vita, come la nostra casa di Belgrado, quella di Roma o quella di Torino e naturalmente le quattro case in cui ho abitato a Venezia (tranquilli, non ve le mostro tutte...)
Nella casa veneziana dei miei nonni, a S. Lio, di fianco al Ponte delle paste, oltre ad esserci nato, con la levatrice che abitava di fronte e come si usava allora, ho trascorso anche gran parte della mia infanzia e dei primi anni di scuola ed ancora adesso, quando sono in giro per Venezia e ci passo davanti, è difficile che non mi fermi a darle una malinconica occhiata. Anche perché - proprio come da bambino - se chiudo gli occhi, estraniandomi dal vociare e dal ciabattare dei turisti, vengo inesorabilmente rapito dai profumi di rhum e zabaione della minuscola pasticceria Rudatis in cima al ponte e dall’odore acuto degli inchiostri della Tipografia Commerciale che mi viene incontro, come sempre, dalla calle assieme al pulsare delle rotative. E finisco così, anche se tutto questo ormai non esiste più, per inebriarmi di sensazioni e ricordi
La finestra dell’ultimo piano, che fa angolo con il canale, era quella della mia cameretta piena di sole, ma che di pomeriggio risuonava del ticchettio incessante della scuola di dattilografia al piano di sotto, dandomi, se non altro, la scusa buona per non svolgere i compiti. Di fronte alla mia camera si apriva la stanza della nonna, con il vecchio armadio ottocento con lo specchio e il lettone alto che si era portata dalle sue campagne alessandrine. Lì, ogni
tanto, mi rifugiavo a dormire quando ero in cerca di tenerezze e, soprattutto,
quando avevo paura di quel vampiro che avevo visto su un manifesto al cinema e
che m’indusse per molto tempo a dormire con la luce accesa e il collo protetto
nei modi più strani. La stanza della nonna aveva poi la prerogativa che dietro
le imposte semichiuse della finestra sul canale venivano periodicamente i
piccioni a fare il nido e a me piaceva molto osservare da dietro i vetri la
picciona covare le sue uova e poi guardarne i pulcini implumi, che battezzavo con
i nomi più strani.
La casa, era grandissima e girava tutt'attorno al canale, avendo anche un piccolo sottotetto a cui si accedeva da una botola con scala a scomparsa e nel quale abbiamo tenuto nascosto durante le retate l'avvocato Magrini del piano di sotto e poi anche mio nonno, ufficiale riservista tornato a piedi da Verona dopo essere sfuggito alla tradotta per la Germania nei giorni successivi all'otto settembre. Della casa ricordo poi i soffitti tanto bassi che oggi li toccherei alzando il braccio e la gran terrazza coperta, con una vista incredibile che spaziava dal campanile di S. Marco a quello di S. Vio, dalle cupole dei SS. Giovanni e Paolo a quelle dei Miracoli. Una parte della terrazza era adibita a carbonaia e legnaia per la stufa che garantiva il riscaldamento ed era diventata il covo dei miei giochi (oltre che delle pulci dei vari gatti che la popolavano arrivando dai tetti vicini...).
Ma tra le tante case che per le vicende della vita ho abitato c'è questa della foto seguente che ancora mi regala emozioni e ricordi a non finire. E' la casa in Corte dell'Alboro, a Venezia, dalle parti di Campo Santo Stefano, che mia madre aveva preso in affitto subito dopo il rientro improvviso in Italia per la morte di mio padre. In quella casa, mia madre, mio fratello ed io abbiamo gradualmente ripreso una vita serena dopo quella tremenda mazzata che ci aveva fatto crollare il mondo addosso. Tra quelle mura ho finito gli anni del liceo, mi sono state date le chiavi di casa e il permesso di rientro dopo la mezzanotte, ho incontrato il mio primo amore "adulto" (lei abitava in campo San Beneto, un ponte e una calle da casa mia e quando mia madre era fuori da qualche amica o al circolo per giocare a bridge veniva a trovarmi o io correvo da lei quando i suoi erano fuori a cena) ho iniziato a suonare la chitarra, mi sono preso il cane lupo dei miei sogni e alla domenica accompagnavo mia madre a dipingere su qualche fondamenta portandole il cavalletto, la tela e tutto il resto come un caddy porta le mazze da golf (che poi qualche tramezzino, un bianchetto o una paghina supplementare la rimediavo sempre).
Riconosco ancora tutto di quell'appartamento: Le due finestre sulla destra erano quelle di camera mia, poi c'è quella della cucina, il balconcino del salotto e la finestra della camera degli ospiti. Girando l'angolo della calle e affacciate sul canale c'erano il bel balcone della sala da pranzo e la camera di mia madre.
La casa di fianco, che ora ha le finestre chiuse, era quella della signora Giuman, un donnone con lo scialle scuro e sempre alla finestra, come la babbiona che ora ho di fronte, che strillava per qualsiasi cosa con un vocione tenorile che trapassava i muri, spesso per chiamare la figlia "Patrìssiaaa, Patrìssiaaa..." (noi le facevamo il verso e mio fratello la imitava benissimo, mentre mia madre, scocciata, una volta le disse "Signora, già che ha la bocca aperta, potrebbe chiamare anche mio figlio che è giù in campo?"). Altre volte la nostra vicina urlava per attirare l'attenzione dello spazzino o del postino che aveva visto passare per il campo e, comunque, commentava ad alta voce, non so per chi alle sue spalle, chiunque passasse sotto casa sua (ma ti ga visto quea/o? ma xè el modo de vestirse? ma so pare e so mare no ghe dise gnente?). Se Goldoni fosse vissuto nel mio tempo, avrebbe sicuramente tratto ispirazione dalla signora Giuman.
Nel campo, anche se nella foto non si vede, c'è una fontanella che ricordo bene, non solo perché un giorno che il campo era allagato dall'acqua alta indusse la Giuman a lamentarsi ad alta voce di quei mona del Comune che non ne chiudevano il getto, ma perché con quell'acqua cercai invano di ripulirmi dal sangue che mi grondava dal naso dopo un pugno ricevuto durante la zuffa confusa seguita alla carica della Polizia in Campo San Luca dove un senatore missino teneva un comizio contro la legge sul divorzio. Tornai su a casa pregando che non ci fosse nessuno e invece, essendo di sinistra e mangiapreti, non fui esaudito perché mia madre era impegnata in una partita di bridge con alcune nobildonne veneziane che, ovviamente, gridarono di spavento alla vista di un energumeno in eskimo sporco di sangue come un garzone di macellaio. Dopo essere stato amorevolmente medicato e ripulito, appena le amiche se ne andarono presi un cazziatone terribile, non solo per lo spavento e la figura procurata, ma anche perché mia madre, che giocava a soldi ed era molto brava (faceva tornei internazionali), le stava spennando per bene e per colpa mia la partita era stata interrotta sine die.
Quanti ricordi... grazie Street View.
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