venerdì 4 ottobre 2019

Di Sua Moldavità e dei pinguini ritrovati


Ritrovati! Era un bel po' che non li vedevo nel mio studiolo i due pinguini di terracotta con la sciarpina gialla e quindi i sospetti preoccupati non potevano che cadere su Sua Moldavità, la signora moldava che arriva una volta a settimana apparentemente per farci le pulizie in casa, ma, in realtà, per intrattenerci con il giochino enigmistico del: “ma dove ca... lo avrà messo la Ninotchka?” inventando per il nostro diletto sempre nuovi nascondigli originali e impensabili per riporre le nostre cose secondo le sue logiche dell’Est. La mia preoccupazione nella fattispecie nasceva dal fatto che la signora di solito mantiene l'ordine di casa nostra con la delicatezza delle divisioni corazzate del maresciallo Žukov a Stalingrado e quando rompe qualcosa fa sparire immediatamente le prove come un killer professionista o, nel migliore dei casi, la rimette a posto rotta ma girata, in modo che non notiamo il danno (vedi costoso vaso cinese blu in giardino, che ha un buco tipo cannone anticarro, ma è stato astutamente girato tra le altre piante dietro alla fontanella in modo che si veda il lato sano) e, comunque, la sua linea di difesa è sempre: "forse tuo cane fatto cadere" (con il bretone che protesta sdegnato). Però, interpellata al riguardo, la sospettata aveva risposto "Io non sapere di pinguino. Mai visto pinguino in questa casa, solo in acquario. Forse tu perso pinguino... " e siccome brandiva la scopa ho ritenuto opportuno non replicare.


I due pinguini con la sciarpa gialla, finalmente ritrovati

Invece la scorsa settimana, del tutto casualmente, mentre rimettevo in ordine la stanza per ospitarvi la nostra ospite francese, i due pinguini con la sciarpina gialla che cercavo li ho ritrovati ben nascosti in camera di mio figlio, sopra una mensola della libreria ancora immersa, come per un incantesimo degno delle storie di Narnia, nel suo casino adolescenziale, tra un Dylan Dog, una lattina di birra usata come contenitore di matite senza punta e mordicchiate, la coppa delle Venetiadi piena di altre medaglie vinte a Judo e un libro di greco. Ovviamente, i pinguini di terracotta si animano e vanno in giro di notte da una camera all'altra sono nei film di Walt Disney e dunque, a lume di naso, Sua Moldavità dovrebbe saperne qualcosa di quella trasmigrazione, ma la contentezza di averli trovati di nuovo e soprattutto di rivederli intatti è stata troppo grande per alimentare nuove tensioni diplomatiche con la Moldavia in aggiunta alla faccenda dei caricabatterie aggrovigliati in stile nodo gordiano. Perché Sua Moldavità, malgrado i cortesi inviti ad occuparsi della pulizia in generale, ma non dei miei caricabatterie, continua imperterrita a farmeli trovare aggrovigliati inestricabilmente e, con un tocco di modernità, ora ci aggiunge anche i cavi della webcam e del microfono, per complicare ulteriormente il nodo. 


Alessandro Magno il nodo gordiano lo poteva recidere con la spada, 
io vorrei fare lo stesso con il nodo moldavo,  ma non posso.

Credo sia una specie di simpatico passatempo moldavo che ci lascia per dilettarci a risolverlo nel nostro tempo libero, un po' come le tante cose che mette a posto secondo la sua visione del mondo (la Weltanschauung hegeliana in versione moldava) costringendoci a cercarle per giorni e facendocele ritrovare fortuitamente nei posti più inconsueti, tipo il cavatappi nella cassetta degli attrezzi o la spugna per le pentole nell'armadietto del bagno. Con il coraggio vano dei cavalleggeri polacchi lanciati al galoppo contro i panzer tedeschi ho provato a lamentarmene, ma qualche giorno dopo ne ho ricevuto una risposta ambigua, tutta da interpretare. Perché tra gli antichi tarocchi veneziani c'è una carta che si chiama l'appeso o l'impiccato e che raffigura un uomo che penzola a testa in giù appeso tra due colonne (quelle del Todaro?) con le mani legate dietro la schiena. Il significato di questa carta non è necessariamente negativo, ma comunque simboleggia l'incertezza e l'inversione di prospettive e di valori di un mondo capovolto. Nella migliore delle ipotesi, Sua Moldavità è un'appassionata di cartomanzia perché ha trasformato il caricabatteria del mio smartphone in un impiccato e lo ha anche appeso, non casualmente, ad una cornice turchese, che è la pietra che si abbina alla carta. Nella peggiore... beh, evidentemente la signora non ha gradito la mia osservazione e la cosa assume un significato velatamente minaccioso, perché lei sa dove colpire... 


Il caricabatteria del Nokia impiccato, così imparo a lamentarmi

Per esempio, c'era un epoca felice nella quale possedevo 7 plettri Fender per le mie chitarre, poi entrò nella nostra casa Sua Moldavità e iniziò la fine perché per odi atavici che non saprei dire le signore moldave che vengono a farti le pulizie prima ancora di sbattere i tappeti devono assolutamente smarrirti i plettri. Uno dopo l'altro, se ne sono andati tutti, immagino risucchiati dall'aspirapolvere o sbattuti in giardino assieme alla polvere dei succitati tappeti. L'ultimo rimasto, conservato come una reliquia e che avevo immortalato in una foto assieme alla mia Fender Esquire del 1970, è sparito qualche giorno fa e oggi mi tocca usare una vecchia scheda telefonica ritagliata a mo' di plettro nell'attesa di andare in centro a comperarne altri. Ad Eric Clapton di sicuro non succedeva...


Costoso vaso cinese centrato da granata anticarro moldava da 88 mm.
e con il foro d'ingresso del proiettile accuratamente nascosto.

Poi, ho appreso nel tempo a non lasciare mai in giro gli attrezzi con cui stai sistemando la terrazza, altrimenti Sua Moldavità, oltre a deliziarti disponendo le poltroncine e il divanetto di vimini perfettamente allineati come un plotone che debba sfilare in parata sulla Piazza Rossa, ti comporrà sul tavolino in vetro una sua opera in stile neorealista sovietico dal titolo "Bouquet di pennelli e spatola con detriti e spazzole ", pronta per il padiglione moldavo della Biennale. Anche perché nel corso degli anni la signora, sentendosi ormai parte della famiglia, ha iniziato pure a dare sfoggio di creatività in piena autonomia e così ogni tanto ci delizia con qualche trovata di arredamento “surreale” che ci lascia senza fiato. Un Natale di qualche tempo fa, per esempio, mi sono accorto che, invece di buttarlo come le era stato chiesto, aveva pensato bene di riciclare un grande fiocco di tulle in plastica rossa proveniente da una corbeille di fiori avuta in regalo ponendolo a mo’ di pennacchio in cima alla abat-jour del salotto, cosa che immagino abbia soddisfatto appieno il suo gusto estetico. 


un piromane non saprebbe far di meglio per innescare un incendio.

Ora, non ho dubbi che la cosa rientri a pieno diritto tra gli “epic fail”, ma non so se classificarla nella categoria dei “tristissimi arredamenti di gusto balcanico” o in quella dei “tentativi criminali d’incendio andati a vuoto”, considerando che la plastica del tulle era appoggiata proprio sulle lampadine. Questa donna comincia ad inquietarmi...

Ah! Dimenticavo... perché ci tengo tanto a quella statuetta di pinguini parlando della quale ho iniziato il post? Perché era un pomeriggio del dicembre 1984, mia moglie Morena ed io c'eravamo messi insieme da pochi giorni, faceva un freddo cane e passando tutti abbracciati come due ragazzini davanti alla vetrina di un negozio in Salizada San Lio li avevamo notati e siccome in quel momento per una strana combinazione indossavamo tutti e due una sciarpa gialla, avevamo deciso che rappresentassero a dovere il nostro amore appena sbocciato e ce li siamo comperati. Ben tornati, pinguinotti con la sciarpetta gialla...

giovedì 29 agosto 2019

Delle madri apprensive e del loro occhio di Sauron sugli amori giovanili dei figli


Appena finita la maturità, ballando alla Pagodina sulla spiaggia del Des Bains e dopo che, sorprendendomi poichè la conoscevo appena, mi aveva buttato le braccia al collo per un primo scambio di baci al suono di Unchained melody, avevo preso una cotta potente per una ragazza genovese di nome Maddalena, che era ospite per le vacanze nella capanna di nostri amici al Lido. 
Dal momento che subito dopo avevamo avuto modo di scoprire molte cose nuove e interessanti e io ho sempre avuto l’animo del ricercatore innovativo, la storia fu inizialmente molto intensa. Anche troppo, tanto che, disponendo di un vero talento in materia, mi cacciai subito nei guai, che se non mi trovavano loro li cercavo io. Questi iniziarono una mattina di sole, mentre la stavo riaccompagnando a casa di chi la ospitava verso l’ora di pranzo e all’altezza dell’edicola di Campo Santo Stefano. 

Per non so quale strana associazione d’idee sbocciata mentre guardavamo la locandina del Gazzettino che annunciava lo sciopero dei vaporetti ci venne voglia di abbracciarci e di baciarci con grande passione. Anche se mi sembrava di baciare il cappuccino che lei aveva preso dieci minuti prima, tuttavia rimasi con gli occhi socchiusi ad assaporare il piacere di quel bacio e in attesa di averne ancora, quando Maddalena mi batté la mano sulla spalla per richiamare la mia attenzione. 
“C’è una signora seduta al bar che ci sta facendo ciao con la mano. Credo che ce l’abbia con te... ”. 
Mi voltai giusto il tempo per vedere mia madre seduta da Paolin con la Clelia, l’Annamaria e altre due sue amiche, ma non feci in tempo a preoccuparmene perché preceduto da un guaito e un latrato di gioia fui investito da un ciclone peloso che dopo avermi fatto barcollare per l’impatto iniziò a farmi le feste in modo imbarazzante, mettendomi addirittura le zampe sulle spalle e lappandomi la faccia. Poi fu la volta di Maddalena forse perché la riteneva persona gradita al capobranco e voleva entrare nelle sue grazie. 
Acchiappai il nostro enorme pastore tedesco di allora per la collottola e lo riportai da mia madre che però appena fui a tiro mi lanciò il guinzaglio e disse di portarlo a fare ancora quattro passi, perché voleva restare a prendere il sole al caffè con le sue amiche e quindi si sarebbe mangiato più tardi. 


il bacio (1969)


Appena ripresa la passeggiata Maddalena, curiosa come ogni donna, volle sapere se quella signora fosse mia madre. 
“Ovvio che era lei... a chi credi potesse venire in mente di lanciarmi contro un siluro canino da cinquanta metri di distanza per rovinarmi un bacio? Quando è seduta al caffè tiene sempre fermo il guinzaglio con la gamba della sedia per impedire che Whisky parta di scatto ad azzuffarsi con altri cani di passaggio, dunque lo ha liberato di proposito per farlo correre da me a farmi smettere”. 
Lei ridacchiò di gusto. “ Simpatica la tua mamma. Dici che lo ha fatto apposta? ” 
“Sì, è nel suo stile. E’ una killer professionista. Colpisce quando meno te l’aspetti e hai le difese abbassate, ma comunque non ti preoccupare, per fortuna è una persona di larghe vedute, sicuramente non è arrabbiata... ”. 

Affermare certe cose vuol dire chiamarsela e, infatti, appena salite le scale di casa la trovai sul pianerottolo ad aspettarmi e l’aria non prometteva nulla di buono, tanto che mi trovai subito sotto interrogatorio. “ Eccolo qui il mio Casanova! Posso sapere da quando hai questa ragazza? ”. 
Le risposi che stavamo assieme da due settimane e mi squadrò subito da capo a piedi come se mi vedesse sotto una luce nuova. “I casi sono due: o stai diventando troppo bravo oppure sto invecchiando, perché questa volta non mi ero proprio accorta di nulla. Dimmi chi è questa ragazza, che immagino sarà una delle solite mezze calzette che ogni tanto ti sbaciucchi... ”. 

Per mia madre le ragazze che potevo frequentare si dividevano in due categorie: quelle conosciute e autorizzate da lei, che andavano bene ma erano santerelline inguardabili e “le mezze calzette” che trovavo per conto mio e a cui lei attribuiva ogni nefandezza tra cui quella grave di distrarmi dallo studio e più in generale una moralità discutibile. 
“No, mamma. Scusa, ma non è affatto quello che dici tu. E’ una ragazza di ottima famiglia e...”. 
“Ne dubito. Una che dà spettacolo in mezzo alla gente e che non viene neppure a presentarsi non mi pare sia un granché come educazione ”. 
“Diciamo che l’iniziativa di baciarla è stata mia e che neppure io ho salutato le tue amiche perché non ne ho avuto il modo... ”. 
“Infatti, ho notato che stai diventando un bifolco e ti ricordo che tuo padre ed io non ti abbiamo educato così. Comunque, dimmi come l’hai conosciuta, come si chiama, di chi è figlia... “. 
“Si mamma, conosco la procedura d’identificazione. Dunque, il soggetto in questione si chiama Maddalena, è cittadina italiana, è nata a Genova, ha appena compiuto diciannove anni e fa il primo anno di biologia... ”. Pensavo di farle colpo e suscitare la sua ammirazione con la faccenda della biologia, ma invece m’interruppe subito con l’aria allarmata. 
“Stai dicendo che questa tizia che ti spupazzi è anche molto più grande di te? Complimenti per la cretinata! “. 
“Beh, dai mamma... in fondo fino a dieci giorni fa lei aveva ancora diciotto anni e io tra tre mesi ne compio diciotto a mia volta, non c'è tutta questa differenza”.
“Mettila come vuoi ma ha sempre più anni di te, le ragazze a questa età sono già delle donne e voi invece siete ancora dei bamboccioni e te ne accorgerai perché quando vorrà ti girerà come un calzino, comunque, vai avanti... ”. 


Studiando, o forse no (1969)


Mi sedetti al suo fianco e le elencai minuziosamente tutto quello che sapevo di lei e della sua famiglia, sorellina e nonni compresi. Alla fine, si accese una sigaretta e rimase assorta a riflettere, poi, dopo alcune tirate con il fumo che saliva azzurrino verso il soffitto, mi fissò dritto negli occhi, come quando sospettava di me ed esigeva tutta la verità. 
“Questa storia di cui non sapevo nulla, non so perché ma mi lascia inquieta: la devo classificare come un amoretto estivo o in un altro modo più serio? ”. 
“Ora non so dirtelo. Però Maddalena mi piace molto, io piaccio a lei e non è un amoretto balneare. Ne sono certo. ”. 
Invece, lo era perché di lì ad un paio di settimane la ragazza tornò a Genova per continuare le vacanze con i suoi genitori e la cosa, senza nemmeno troppe lacrimucce, ebbe termine.
L'appartamento da studente : la cucina

Verso settembre iniziai a mia volta a frequentare i corsi di giurisprudenza a Padova e poco dopo mia madre assieme ad una sua amica, moglie di un collega di mio padre, allora di base a Livorno, presero per i rispettivi figli un piccolo appartamento per agevolarli negli studi. Un mese dopo mi misi assieme ad una bella ragazza veneziana, di nome Donatella, che studiava al Liviano e con lei iniziai una storia d’amore piuttosto intensa che poi durò per tutti gli anni dell’università. Purtroppo, però, mia madre aveva le chiavi del nostro appartamento dove, anche per conto della madre del mio compagno di stanza, effettuava periodicamente delle incursioni a sorpresa per portarci via le bottiglie di liquore dall’armadietto e siccome aveva sempre un block notes in borsetta e qualche pennarello, al loro posto ci lasciava dei simpatici disegnini con la bandiera dei pirati, il teschio e le tibie incrociate. Naturalmente ci buttava in pattumiera le copie di Playboy che Roberto portava su dal mercatino americano di Livorno (con bigliettino: “E’ così che studiate?”) e talvolta, immagino mettendosi le mani nei capelli di fronte a tanto disordine, trovava il tempo di rifarci i letti, lavarci i piatti (lasciamo stare quel che scriveva sui bigliettini che poi ci lasciava sull’acquaio. Diciamo che "Zozzoni!" era la cosa più carina) e talvolta ci preparava perfino qualche porzione di spaghetti che poi trovavamo pronti in tavola e coperti da un piatto perché non si raffreddassero quando tornavamo da lezione. 


l'appartamento da studente: il salotto

Una mattina però, tornando dalla facoltà, vidi che mia madre era passata e, naturalmente, essendomi dimenticato di nasconderla, aveva notato la bella foto di Donatella che da qualche giorno tenevo incorniciata accanto al mio letto. Sopra c’era un bigliettino con un paio di cuoricini e un grazioso Cupido che diceva “Molto carina! Complimenti…” 
Ma sotto c’era il post scriptum che mi fece raggelare il sangue: “Se per caso lei è quella che si è dimenticata il mascara sulla mensola del bagno di casa nostra quella sera che io ero fuori al torneo di bridge, se la inviti a cena da noi mi farà molto piacere ridarglielo di persona e poterla conoscere” .

Lo feci qualche sera dopo, sia pure con un imbarazzo mostruoso (anche da parte di lei), e, come immaginavo, la cena fu simpaticissima. Mia madre, che conosceva l’arte dell’ospitalità e di mettere le persone a proprio agio, fu molto affettuosa con Donatella e le due iniziarono presto a fare amicizia e comunella a mio danno, tanto che in seguito, con una manovra a tenaglia perfettamente studiata m'indussero a lasciare la chitarra e le crociere sulle navi e a riprendere gli studi e a dare esami, ma questa è un’altra storia.

lunedì 26 agosto 2019

Degli splendori e della decadenza di mio zio Antonio, nobiluomo fuori dal suo tempo.


La mia nonna paterna agli inizi del secolo scorso, viveva a Smirne, dove era nata e dove la sua famiglia, di solide radici genovesi, a metà dell'ottocento si era rifugiata da Chios per sfuggire al massacro della popolazione greca, e aveva quattro fratelli e una sorella. Di questi fratelli, uno era morto a quattordici anni per una peritonite (si chiamava Gustavo, e mio padre in seguito ne prese il nome in suo ricordo) mentre il maggiore, Guglielmo detto Bibe, era caduto combattendo durante l'assedio e l'incendio di Smirne, nel 1922. Così al momento di fuggire in Italia sulle navi della nostra flotta giunta in porto per imbarcare e salvare i connazionali, oltre a sua sorella minore Ines le erano rimasti solo due fratelli: Renato e Antonio. Il primo l'ho frequentato pochissimo e ne ho dei ricordi vaghi, mentre il secondo è stato una presenza abbastanza ricorrente nella mia famiglia, soprattutto negli anni in cui abbiamo vissuto nella villa di mia nonna a Rapallo, perché mio padre aveva il suo primo comando in mare (un vecchio dragamine tedesco preda bellica della prima guerra mondiale) di stanza a La Spezia. Dunque, siccome Antonio era un personaggio a suo modo assai originale, che viveva in un mondo tutto suo e aveva un vero talento per dilapidare ricchezze (ed io qualcosa di quel talento, a detta di mia moglie, devo aver ereditato...), ho pensato di raccontarne le vicende come un mio tardivo tributo affettuoso e solidale. La foto qui sotto, che proviene dagli album di famiglia ereditati dalla sorella di mia nonna, l'ultima ad andarsene della famiglia, è di incerta attribuzione. Dai tratti del viso e da come li ricordo potrebbe essere Antonio, ma potrebbe trattarsi anche dell'altro fratello Renato, visto che i due si somigliavano molto. Comunque, non avendo altre immagini disponibili, la posto ugualmente.





Questo zio, ancora poco più che adolescente, aveva vissuto un amore impossibile per una delle cameriere di casa, che, scoperta la cosa, era stata bruscamente allontanata. E tanta infelicità sembra lo avesse molto turbato, tanto che, non potendo concretizzare il suo amore, espresse l’intenzione di restare signorino a vita. Qualche tempo dopo, la famiglia, preoccupata perché il giovane rampollo stava davvero osservando la più ostinata misoginia, gli predispose, per aiutarlo nell’educazione sentimentale, una crociera nel Mediterraneo a bordo di un panfilo noleggiato per l'occasione e, con un inganno, gli mise a bordo, come unica passeggera e con il compito di svezzare il pupo, una famosa diva del cinema di allora, profumatamente pagata. Antonio, però, non appena la nave fu al largo e si rese conto d’essere solo con la... mangiatrice d’uomini, corse a chiudersi a chiave in cabina, dove restò testardamente fino alla fine del viaggio.



Mia nonna  Maria "Bebitza" appena ventenne

Avendo deciso di escludere dalla sua vita il genere femminile (con tutti i fastidi connessi) e disponendo di mezzi economici tali da poter lasciare agli altri la fastidiosa incombenza del lavoro, diventato adulto si concentrò, da vero single, sugli aspetti più piacevoli della vita e cominciò a spendere e spandere allegramente. Si concesse così un tenore di vita decisamente dispendioso. Basti sapere che mandava a stirare le sue camicie da sera (rigorosamente londinesi...) a Parigi perché sosteneva che in Italia non fossero capaci di farlo in modo adeguato! E che non c’era ristorante di gran lusso dove il nostro, che era anche un esigente gourmet, non avesse un conto aperto. Viveva, dunque, senza negarsi nulla di quanto di più raffinato si potesse reperire in Europa in termini di qualità della vita, tanto che, a riprova di quanto affermo, fino ai venticinque anni ho posseduto, non ricordo per quali vie, un suo smoking, originale degli anni '30, prodotto da una sartoria londinese e di una stoffa di qualità davvero straordinaria. 

Tuttavia, siccome il Signore separa velocemente gli sprovveduti dai propri soldi, un brutto giorno questi cominciarono a finire. Una robusta mano gliela diedero anche gli inglesi quando bombardarono Genova dal mare distruggendogli alcune case, e ben presto Antonio, che un po’ alla volta si era venduto tutte le sue proprietà per far fronte ai debiti, si ritrovò, attorno ai cinquant’anni, completamente senza quattrini. Per la verità, anche se la cosa fino ad allora gli era stata completamente sconosciuta, provò perfino a lavorare, senza metterci, peraltro, una grande convinzione. Suo fratello Renato, mosso a pietà, gli aveva trovato un lavoro da impiegato all’ufficio immigrazione del porto di Genova, visto che Antonio parlava molto bene l'inglese, il francese ed il tedesco, ma lui, igienista convinto, si era licenziato dopo pochi giorni perché sosteneva che quella povera gente male in arnese che scendeva dalle navi portava con sé i microbi di chissà quali tremende malattie. E lo stesso accadde in seguito con altri lavoretti che gli venivano procurati amorevolmente dai parenti e dai quali si licenziava dopo pochi giorni, accampando scuse quantomeno curiose. Trascorse quindi il resto della sua vita aiutato dai fratelli e peregrinando da una pensione all’altra della Riviera, lasciando distrattamente debiti di qua e di la.


Mio padre al comando in plancia


Un bel giorno lo zio, già piuttosto anziano, fece, con nostra sorpresa, il beau geste di invitarci a colazione in una delle pensioncine dove scendeva (perché lo zio, come la nonna Bebitza, negli alberghi non ci andava, come tutti i comuni mortali, bensì ci scendeva, immagino da qualche carrozza immaginaria). Lo zio ci accolse sulla porta della pensione, profondendosi in baciamani alle “belle signore” (anche se poco interessato al genere, era pur sempre molto charmant con le donne…) e in frizzanti battutine di spirito con il papà e i nipotini. Per l'occasione, il nostro anfitrione (che nella mole e nella forma del viso assomigliava in maniera sorprendente al grande Alfred Hitchcock...) vestiva con la solita ricercata eleganza, la paglietta, le ghette e l'inseparabile cravattino a farfalla, anche se, guardandolo attentamente, si capiva che la sua giacca di tweed ed il gilet avevano conosciuto tempi migliori, essendo in alcuni punti lisi fino alla trama. 

La gaia tavolata che ne derivò, tra nipoti e parenti vari, fu, alla fine, di una quindicina di persone. Rammento di aver notato, fin dall’inizio del pranzo, come la cameriera che ci serviva lo facesse in modo strano...diciamo a metà strada tra il sospettoso e il vagamente scortese. Verso fine pasto la cameriera parlottò con zio Antonio, che ebbe un gesto di risentito fastidio, quindi passò a bisbigliare qualcosa a mio padre (che sbiancò in volto...) e, alla fine, i due si allontanarono insieme dalla sala.  Al loro ritorno, lo zio Antonio appariva sollevato, mentre mio padre, aveva stampata in viso l’espressione tesa di quando c'era qualcosa che proprio non gli garbava...


Ines, la più piccola della famiglia.

Al momento del commiato noi tutti ringraziammo zio Antonio per la bellissima ospitalità, rimproverandolo affettuosamente per averci voluto offrire il pranzo e lui, sospirando e allargando le braccia, ci rispose: "Miei cari, quel che è importante è che oggi siate stati felici, e in quanto al resto, che volete... noblesse oblige! " .

La sera seppi, giurando di mantenere il gran segreto, che mio padre era stato supplicato dallo zio di pagare non solo il conto del pranzo, ma anche alcuni mesi di pigione arretrata. Lui ad ogni buon conto, per dargli una mano, aveva aggiunto di suo un altro paio di mensilità, un po’ perché voleva bene a quel vecchio matto e un po’ - vivaddìo ! - perché ... noblesse oblige! 

In ogni caso, a parte queste curiose…cadute di stile, ricordo lo zio come un gran signore nei modi, sempre vestito di tutto punto, con monocolo, ghette e regolamentare bastone con pomolo d'argento. Era un personaggio completamente fuori del tempo e dalla logica comune, ma restava un conversatore sorprendentemente colto e, a suo modo, affascinante. Ogni tanto lo zio veniva a passeggio con noi per il centro di Rapallo, aiutando la mamma a fare le spese e, strada facendo, dopo avermi comperato dal fornaio lo scartoccino di focaccia, mi raccontava delle favole bellissime e di sua creazione, che oggi vorrei tanto poter ricordare. La nonna sospettava che ciò accadesse non tanto per una sua buona disposizione nei nostri confronti, quanto perché Antonio, sempre molto critico verso la sua cucina (e, francamente, con fondati motivi), sapeva abilmente indurre mia madre ad acquistare costose prelibatezze. In realtà, lo zio provava viva simpatia per il suo nipotino, probabilmente intravedendo in lui il suo stesso talento dissipatore, tanto che, un giorno, giunse perfino ad avere uno sdegnato battibecco con sua sorella per uno scappellotto che, peraltro, avevo meritato. A causa di ciò il cancello di villa Mercedes si chiuse per un periodo piuttosto lungo, dato che i due contendenti erano dotati d’orgoglio e testardaggine illimitati, tanto che una mattina, per allontanare lo zio Antonio che io avevo involontariamente smascherato al cancello salutandolo con entusiasmo, non aveva esitato a chiamare il cameriere perché facesse fuoco in aria con una delle innumerevoli doppiette da caccia di mio nonno. Lo zio fuggì a gambe levate, insieme a qualche centinaio d’uccellini che si levarono in volo atterriti dagli alberi del giardino. Mio padre, così, dovette impegnarsi in una estenuante mediazione di diverse settimane che si risolse solo quando i diversi fratelli di mia nonna, allarmati perché cominciava a rivolgersi a loro, le chiesero di riprendere i rapporti diplomatici con lo zio, considerato una sorta di mina vagante per le loro sostanze. 

Nel settembre del 1964 lo zio Antonio scomparve misteriosamente dalla pensione dove alloggiava. Per qualche tempo, visti i precedenti, nessuno se ne diede troppa pena, poi, dopo qualche giorno di ricerche tra ospedali e posti di Polizia della Liguria, ci giunse la conferma di quanto si temeva. L’avevano trovato su di una panchina dei giardini di Zoagli, che sembrava stesse dormendo. Aveva ancora vicino a sé il giornale dove aveva letto della morte di mio papà e un infarto lo aveva stroncato. Riposa in pace, caro vecchio zio Antonio e se lassù hai lasciato con nonchalance qualche conto da pagare, cerca pure mio padre che sarà lì da qualche parte. Vedrai che con lui il Noblesse oblige funziona ancora...  

giovedì 18 luglio 2019

Delle mamme di una volta che giocavano a bridge e t' inducevano a giocare a scacchi


Qualche giorno fa, nella sala d'attesa del dentista, ho letto tra il divertito e il preoccupato, la notizia della cinquantenne pediatra padovana che aveva vinto ai Campionati Italiani di Salsomaggiore due titoli di campionessa italiana di bridge (complimenti!), ma era poi stata squalificata dal Tribunale dello Sport per doping in quanto avendo la pressione un pochino alta, come accade a molti dopo gli "anta", aveva preso un diuretico non consentito non sospettando che lo fosse e che occorresse segnalarlo. Soprattutto, questa povera signora non sospettava che il bridge venisse considerato come il calcio, il basket, il ciclismo, il tennis o altri sport "muscolari", dove agli atleti viene fatta fare la pipì dopo la gara per vedere se hanno assunto sostanze dopanti. Probabilmente, visto che al ridicolo non c'è mai fine, qualche mente insana annidata in chissà quale ufficio del CONI o di federazione sportiva internazionale ha ritenuto che reggere in mano un mazzo di tredici carte per un paio d'ore comportasse uno sforzo fisico non comune e tale da richiedere anche potenziamenti farmacologici che non fossero un paio di caffè ristretti per rimanere svegli e concentrati. Mi sono detto anche preoccupato in maniera retrospettiva perché mia madre, che a sua volta era molto brava a bridge, faceva anche tornei internazionali (e un paio li aveva pure vinti in coppia con una sua amica). Lei, prima di sedersi al tavolo verde di un torneo, prendeva come rito scaramantico un bel bicchiere di Glenfiddich con ghiaccio e, comunque, un diuretico ogni tanto lo buttava giù a sua volta. Dunque, a parte che immagino perfettamente la sua reazione se le avessero chiesto di fare pipì in una provetta dopo la gara, ho rischiato anch'io l'onta di avere una madre squalificata per doping come un ciclista? E poi... passi per le gare di bocce o di tamburello ma l'antidoping vale anche per i tornei di scacchi? Lo chiedo perché è vero che il trasportare malinconicamente e senza speranza del legname da un lato all'altro della scacchiera, come fanno molti giocatori, richiede comunque uno sforzo fisico, ma soprattutto perché con tutti i vecchietti in gara che soffrono di prostata la raccolta delle urine nelle provette potrebbe durare giorni.

Parlando del bridge a cui si dedicava mia madre, mi è tornato in mente un guaio che le avevo combinato involontariamente e che lei mi ha rinfacciato per anni. Durante la campagna referendaria per il divorzio nel 1974, il nostro corteo che defluiva da Campo Santo Stefano fu fatto passare per un’incredibile leggerezza della Questura proprio sotto il palco in Campo San Luca dove stava ancora tenendo il suo comizio avverso un senatore missino. Subito occupammo il campo e partirono slogan, pugni chiusi e fischi. Così partì anche il temutissimo reparto anti sommossa della Celere di Padova, nascosto come al solito nel campiello che portava al Cinema Rossini, che pestò con cura tutti quelli che trovava. A mia volta, dopo aver preso e restituito un mucchio di calci e spintoni, mi beccai nella ressa un pugno sul naso (temo sfuggito nella concitazione del momento ad un compagno) e poco dopo mi ritrovai nel campiello sotto casa mia, grondante sangue come un capretto sgozzato. Dopo un doloroso e maldestro tentativo di lavaggio alla fontanella del campo entrai di soppiatto in casa pregando Iddio che mia madre non ci fosse, ma essendo di sinistra e pure mangiapreti, le mie preghiere non furono ascoltate. Infatti, il mio ingresso fu accolto da altissime grida di raccapriccio. Nel salotto era, infatti, in corso una dura partita di bridge tra mia madre e un nugolo di contesse veneziane che quasi svennero al comparire di quell’energumeno in eskimo e con il viso tutto insanguinato. La partita fu così sospesa sine die per prestare soccorso all’infortunato che, più tardi, quando l’ultima contessa uscì da casa nostra, fu anche violentemente cazziato un po’ per lo spavento arrecato e un po’ perché la mamma quella volta stava giocando a soldi e vincendo con le pollastre di un centinaio di punti, che tradotto in soldi significava la spesa per l’intera settimana, visto che la pensione di reversibilità di un Capitano di Vascello caduto in missione, allora bastava a stento per arrivare a fine mese.

Comunque, la passione per il bridge di mia madre era così intensa che la spingeva, quando rientrava ben dopo mezzanotte dal Circolo Marina o da quello del bridge, a bussare alla mia porta ripetendo più volte la classica domanda inutile del "Carluccio, dormi?" perché è chiaro che se Carluccio si sente chiamare dalla mamma in pieno sonno, si sveglia comunque ed equivaleva alla classica "Esci?" di quando mi vedeva sulla porta con il cappotto addosso (e mi guardava storto quando le rispondevo. "No, è un' esercitazione") . Una volta ricevuto il mio grugnito e il "mamma, sei tu? ma che ore sono? c'è la colazione?" biascicato con la voce impastata di sonno, lei entrava spavalda, buttava il cappotto sulla sedia, si sedeva sul mio letto e diceva ancora indignata: "Non hai idea di cosa mi ha combinato l'Annamaria questa sera. Te la devo proprio raccontare... insomma... io dichiaro quattro cuori e lei mi guarda con l'occhio vitreo e mi chiede stupita "perché?" poi fa una licita a fiori che non c'entrava niente, che gli altri due giocatori si sono messi a ridere, capisci che figura? E poi si è anche offesa quando al bar del Circolo le ho detto che era meglio che giocasse a rubamazzo, che già scala quaranta per lei era troppo complessa." . Il fatto che io non capissi nulla di bridge e che delle castronerie al tavolo da gioco di questa Annamaria e altre sue amiche non m'importasse una cippa, non la turbava minimamente, dunque alla fine accettavo rassegnato il mio ruolo di sfogatoio delle sue indignazioni e pur sapendo che se le avessi detto "Vabbè, però visto che Annamaria è una tua allieva, potevi insegnarle meglio.. " lei sarebbe uscita immediatamente da camera mia lamentandosi di avere un figlio inguaribilmente cretino, per amore filiale non lo facevo. Alla fine, essendo di mio un bastian contrario, malgrado sapessi che il suo grande desiderio sarebbe stato quello di poter fare coppia a bridge assieme a me, per reazione ho preferito imparare a giocare a scacchi. 
Però ora non avete idea di come mi piacerebbe essere svegliato ancora nel cuore della notte per sentirmi raccontare che cosa le aveva combinato l'Annamaria. Perchè sono certo che lei starà giocando qualche partita anche lassù e chissà cosa le avrà combinato quel rintronato di San Pietro.

sabato 6 luglio 2019

Di come il destino si diverte facendoti incontrare gli amori che ti cambieranno la vita quando meno te l'aspetti


La mia nuova e giovanissima assistente aveva iniziato a collaborare con noi da pochi giorni quando, visto che per ultimare la sua tesi doveva fare una ricerca qualitativa di mercato, il docente che ce l’aveva segnalata mi chiese se potevamo aiutarla portandola dai nostri clienti perché potesse fare delle interviste per il suo lavoro e cominciare ad approfondire il contesto delle aziende. In questo modo iniziai il rapporto con Morena con una gaffe disastrosa. Forse sarà stato il destino che si era messo all'opera per le sue solite vie tortuose, ma comunque, per esaudire la richiesta, una mattina di maggio la feci salire (un po’ controvoglia, lo ammetto) a bordo della mia Delta e la portai a fare un giro nel Polesine, tra Occhiobello e Stienta, dove c’erano alcune aziende nostre clienti che la potevano interessare. 

La giornata era piena di sole e bellissima, come i colori della campagna e dei canneti del delta, così all’ora di pranzo, costeggiando un argine, fermai la macchina nello spiazzo davanti ad un’invitante trattoria all’aperto, con i tavoli sotto un tendone verde, dal lato ferrarese del Po. Lì, complici il vino bianco bello fresco e l’ambiente familiare, cominciammo a rompere il ghiaccio e a parlare di tante cose mentre un massiccio cameriere con giacca lisa e tovagliolo ascellare ci ammanniva “lento pede” delle robuste porzioni da camionista di gnocchi di zucca fatti in casa e anguilla in umido. Così passammo le due orette di quel caldo pomeriggio quasi estivo tagliando tabarri come vecchie comari e sghignazzando sulle mille disavventure delle nostre vite, con l’aiuto di un Trebbiano di buon corpo che scioglieva la lingua. 

Mentre lei sorseggiava il caffè di fine pranzo, mi alzai da tavola e visto che con tutto quello che avevo bevuto era saggio andare in bagno, ebbi la pessima idea di passare dalla cassa a chiedere che mi portassero il conto al tavolo. Errore fatale. 

Infatti, pochi minuti dopo che avevo ripreso il posto a tavola, arrivò il cameriere che assieme al foglio con il conto posò anche una bella chiave d’albergo, di quelle con la palla di ottone. Lo guardai sgomento, ma lui, ammiccando con aria complice, ci disse con un bell’accento emiliano: “Se adesso volete fare un riposino dopo mangiato, abbiamo delle stanze belle fresche su al primo piano”. Io dissi subito di no, ma Morena era inorridita e ora mi guardava torva, anzi, decisamente indignata. Pensava senza dubbio che quando ero andato alla cassa avessi chiesto la chiave convinto che ormai la pollastrella fosse cucinata a puntino e ci stesse. 


Quando ti guardano divertite perché
fai ancora il timidone che cerca di prendere tempo

Feci il viaggio di ritorno incartandomi sempre di più nel tentativo di spiegarle che la cosa non era stata voluta e che aveva sorpreso anche me. Lei ripeteva di sì, che mi credeva, ma capivo che era solo per educazione. Sapevo benissimo che mi considerava un vecchio porco che ci aveva provato. Comunque, il giorno seguente accettò le mie scuse sotto forma di un vistoso mazzo di rose rosse che suscitò invidia e sguardi interrogativi da parte delle colleghe di ufficio e i rapporti tornarono normali. 

Cominciando a fare amicizia, scoprii che Morena era molto, ma molto meglio di quanto l' avessi giudicata. Anzi, mi voglio rovinare: mi era diventata decisamente simpatica! Mi ero accorto che con lei stavo decisamente bene e mi piaceva ridere e scherzare da compagnoni (gran brutto segno! Quando ti piace ridere e scherzare con una donna come se fosse il tuo miglior amico probabilmente te ne stai innamorando.) 

Per me che sono un etereo sognatore, sempre pronto a far fughe in avanti, una donna che, invece di pendere dalle mie labbra di grande affabulatore, mi riportasse a terra tirandomi per la giacchetta era una novità assoluta e affascinante. Il solo problema, ma lo seppi dopo, è che spesso lo avrebbe fatto in maniera energica. Tra le sue virtù che a poco a poco si rivelavano mi piaceva anche molto il fatto che Morena fosse una persona leale, di modi franchi e solari, senza pensieri contorti e retrostanti. In particolare, mi colpivano molto alcuni aspetti della sua personalità veramente insoliti rispetto ai tipi di donne con le quali mi ero accompagnato fino ad allora. Lei era risoluta e determinata come un maschiaccio, con una grinta da far paura e scoprii presto che reggere lo sguardo di Morena “heavily incazzed” per più di due secondi era difficile anche per me, che pure ero allenato. 


Quando la mattina dopo vengono a fare colazione assonnate
e con addosso solo la giacca del tuo pigiama, sai bene che la tua vita da single durerà poco.

Mi piaceva meno, invece, il fatto che dopo aver detto scandalizzata: “Ma a questa povera Delta ci tiri mai il collo? Sembra un trattore” mi aveva fatto scendere e si era impadronita del volante facendomi vedere che giocando con le marce e lanciandola a tavoletta poteva anche toccare i duecento all’ora nel rettilineo autostradale tra Portogruaro e Latisana (per fortuna non c’erano pattuglie della Polstrada e ormai il reato è prescritto). Così, da quel momento in cui scoprii che avevo a bordo una specie di pilota di rally, ogni volta che si andava in trasferta, voleva guidare lei. Un giorno non lontano si sarebbe impadronita della mia vita, intanto cominciava con la mia Delta. 

Tornando al laborioso scoccare della scintilla tra noi, una mattina partimmo insieme per Portogruaro, dove avremmo dovuto pernottare in albergo perché ci attendeva del lavoro anche la mattina seguente. 

La sera, durante la cena di lavoro con i dirigenti dell’azienda nostra cliente, la mia giovane assistente, seduta di fronte a me sembrava davvero bellissima. Indossava una camicetta in lamé che ne valorizzava ampiamente la scollatura e aveva gli occhi che brillavano di una luce così densa di significati che tutte le mie attenzioni erano rivolte a lei. Il povero funzionario dell’azienda nostra cliente che continuava imperterrito a parlarmi di percorsi formativi e di processi di lavoro ne riceveva in cambio risposte vaghe o del tutto senza senso. D'altronde, che diamine, stava sbocciando un amore... 

Il salottino minimalista della mia casa da single arrampicata sui tetti di Calle del pestrin

Salutati i nostri ospiti, c’incamminammo per il corridoio dell’albergo verso le nostre stanze che, per un gioco del destino (o di una lauta mancia al portiere?) erano proprio una di fronte all’altra. In preda a vistoso imbarazzo e con il cuore in tumulto esitavo a dichiararmi, anche se avrei voluto, perché mi sarebbe dispiaciuto molto rovinare tutto con una mossa azzardata. Così, dopo una serie di assurdità del tipo “Se vuoi leggere ti posso dare il giornale” o anche “Vuoi dell’acqua minerale?” tanto per dirci ancora qualcosa nell’attesa di un segno di incoraggiamento da parte dell’altro, ci demmo la buonanotte e ci ritirammo delusi nelle nostre camere. 


Quello che la sua nuova vita da single è durata solo pochi mesi,
ma un grappino per festeggiare e vincere l'emozione ci vuole tutto...  

Sperando ardentemente in una sua visita, ad ogni buon conto lasciai la porta aperta. Lei, sperando ardentemente in una mia visita, a sua volta lasciò la porta aperta. Ci addormentammo tutti e due con la porta aperta, rischiando un torcicollo per via della corrente. E dormimmo saporitamente, per la serie: il fiore che non colsi... anzi, che non cogliemmo. Poche settimane dopo questi eventi mi ricoverai in ospedale perché, dopo l’incendio pauroso che aveva distrutto la casa di mia madre, dove ora abitavano mio fratello e mia zia ed altre sventure che non dico, mi era salita la pressione a livelli da pallone sonda e prima che m’innalzassi in cielo occorreva fare degli esami. Restai ricoverato dieci giorni in un triste reparto di nefrologia, in mezzo a vecchietti dializzati ed altri sofferenti. Ero molto abbacchiato, anche perché per un malato immaginario non c'è niente di peggio che stare da sano in mezzo a gente ammalata sul serio, quando un pomeriggio Morena arrivò con mia sorpresa (lei sola, tra tutti i miei presunti amici) a farmi visita. 


Appena pronunciato il "Sì!" e con una bella convinzione...

M’illuminai d’immenso e per un attimo fui tentato di abbracciarla e baciarla con passione, ma l’idea di fare incominciare il nostro amore in una stanza di corsia non mi sembrava particolarmente romantica. Così, ancora una volta mi astenni dal farmi avanti. Morena però, che da donna pragmatica era arcistufa del mio tergiversare, mi venne misericordiosamente a prendere in consegna il giorno dell’uscita dall’ospedale (ero pallido e debolissimo) e andammo a pranzo assieme alla Fiaschetteria Toscana. Il risotto con gli scampi e le zucchine e il Cartizze fecero miracoli e iniziai a sentire le energie perdute che riprendevano a scorrere nelle vene. Dopo pranzo si offrì di accompagnarmi fino a casa anche perché mi disse di essere curiosa di vedere se ero davvero una persona ordinata come mi vantavo. 

Una volta seduti sul divano del salotto fui preso dal panico perché non sapevo che fare, o meglio, lo sapevo benissimo, ma non avevo il coraggio di muovere il primo passo. In gran parte avevo timore di aver frainteso ancora una volta il suo atteggiamento e di venire rifiutato, ma un pochino avevo anche paura di essere troppo debole nel caso gli eventi avessero preso una certa piega e, per un minimo di decoro, non avrei voluto iniziare con la possibile figuraccia di un nulla di fatto. 

Alla fine, pur di superare quel silenzio imbarazzante iniziai a parlarle dei giochi simpatici che avevo sul mio Commodore 64 tanto per guadagnare tempo, finché lei mi fermò ponendomi la mano sulla bocca e, dopo uno sguardo divertito, sussurrò: “Ti decidi a baciarmi, stupido?”. 


And the winner is... (in realtà è stato un caso scolastico di Win -Win)

Dopo quattro anni di vita sostanzialmente serena, decidemmo che era il caso di continuare e che ci sarebbe piaciuto sposarci e mettere al mondo un nostro bambino. 

Ci sposammo nel Municipio di Venezia. La mia sposina, che come vuole la tradizione quella notte aveva dormito lontana da me a casa di mia zia, a due passi da San Bartolomeo,  arrivò tanto puntuale quanto elegantissima, con un bell'abito di raso scelto dalla collezione di non ricordo quale stilista, che naturalmente non avevo potuto vedere in anteprima perché porta male, ma che ci tenne in ansia per la consegna fino all’ultimo e tanti fiorellini tra i capelli. Naturalmente, le avevo raccomandato di stare attenta ai piccioni lungo la strada, che a Venezia si fanno un punto d'onore nel battezzare gli abiti delle spose in transito nelle calli. In quanto ad eleganza anch'io però non scherzavo, tutto impettito in uno splendido doppiopetto grigio ferro di Valentino acquistato da Longega con metà dei miei risparmi. 

A cerimonia conclusa, con l’altra metà dei risparmi ci concedemmo anche il lusso di un costosissimo corteo di motoscafi fino alla Punta della dogana per offrire ad una quarantina d’amici un dinner all’americana alla Linea d’ombra, il vecchio e glorioso bar con biliardo delle manche a scuola trasformato in locale di gran fascino e dal nome simbolico (sempre che uno abbia letto Conrad). Io la linea d’ombra l’avevo attraversata quel giorno, ma per tornare finalmente dalla parte del sole.

domenica 19 maggio 2019

Delle astutissime ma molto fallibili tattiche di seduzione alle feste degli anni '60


Negli anni '60, noi giovani ragazzi veneziani, pur vivendo per definizione nella città più romantica al mondo, per iniziare i nostri primi amori adolescenziali con amiche o compagne di classe, avevamo a disposizione un solo strumento: le feste in casa, quelle con il giradischi Geloso, le pizzette, la coca cola, la sorveglianza discreta delle madri e delle nonne sedute in cucina e l'armadietto dei liquori chiuso a chiave e guai a chi la trova. Non avevamo altre occasioni perché, anche se avessimo avuto il permesso di andarci (ricordo che in quegli anni, dopo la rituale domanda delle madri: "di chi è figlio/a?" le ragazze potevano venire al cinema solo se accompagnate dall'amica bruttina e pettegola e ti toccava pure portarti dietro il compagno di classe sfigato per rifilarglielo) a Venezia non esistevano locali per ballare, a parte un night club per gente danarosa e un losco club privé in una calletta all'Accademia dove era meglio che un ragazzo giovane ed ingenuo non entrasse da solo. Per fortuna le festine in casa erano frequentissime e, volendo, se ne trovavano almeno un paio a settimana, di solito al sabato. Questo era lo stato dell'arte durante il periodo invernale e scolastico. D'estate, invece, con l'apertura della spiaggia e la transumanza delle famiglie veneziane al completo nelle capanne del Lido, dal Des Bains, al Consorzio Alberghi e dalle Quattro fontane all'Excelsior, le possibilità d'incontro tra ragazzi e ragazze si arricchivano di una nuova opportunità.   

Alle quattro di pomeriggio del sabato e della domenica, alla Pagodina dell’Hotel Des Bains c’era un complessino che suonava praticamente sulla spiaggia e si ballava in costume da bagno su una piccola pista in cemento. Io ci andavo spesso perché era un buon terreno di caccia e le regole d'ingaggio erano molto semplici. Una volta invitata la lei che ti piaceva tanto, con la quale durante la settimana c'era già stato tutto un precedente lavoro di sguardi d'intesa in capanna per capire se anche tu le piacevi o meno, ci si buttava le braccia al collo e iniziavano le danze al suono di “Unchained melody”, un lento dei Righteous Brothers molto struggente o anche di "Retiens la nuit" di Johnny Halliday, che per iniziare a sussurrarsi parole dolci andava bene lo stesso. In realtà, non era appropriato parlare di danze perché, appena abbracciati ci si avvinghiava come Laooconte con i suoi serpenti rimanendo immobili come paracarri sulla mattonella, anche se i ragazzini cretinetti (di solito i fratelli e le sorelle minori) che ti venivano addosso perché loro ballavano a twist oppure perché volevano fare uno scherzo, li trovavi sempre. Siccome si era tutti e due in costume da bagno, sentire la sensazione del tutto nuova di un corpo femminile caldo di sole e praticamente nudo così appiccicato al tuo a noi giovanotti imberbi di quegli anni '60 metteva ovviamente qualche agitazione addosso e occorreva concentrarsi sulle cose più tristi possibili pur di non manifestarle tutto il proprio gradimento. Per fortuna, pensare in quei frangenti di risolvere un compito di matematica a sorpresa funzionava egregiamente, a patto di evitare ogni riferimento a seno e coseno, soprattutto se espressi al quadrato. A volte, quando lei iniziava a passarti le dita tra i capelli e a darti dei grattini affettuosi sul collo,  occorreva anche pensare ad una contemporanea interrogazione di greco o a tradurre a memoria un brano di Isocrate o di Seneca, che i precettori, quando è in ballo la moralità, aiutano sempre. Poi, ultimate le danze se tutto era andato bene e durante "Io che amo solo te" era scoccato il primo bacio, si finiva a limonare in capanna sperando che non venissero i bagnini a riordinare. Altrimenti, se si era fatto tardi e la spiaggia stava chiudendo, c'era sempre il cinema Astra con le seggioline scricchiolanti e il suo buio accogliente in sala.  


La popolare spiaggia degli Alberoni, tranquilla e lontana in fondo al Lido,
ma senza piste da ballo, solo un juke-box al baretto.

Ma torniamo alle feste nel periodo invernale e scolastico che per le vicende amorose erano la consuetudine e non l'eccezione come le opportunità in spiaggia. 

Avendo risolto a modo mio il celebre dilemma di Moretti: "alle feste mi si nota di più se non ci vado o se resto lì in disparte?" con la scelta di frequentarle assiduamente rimaneva in sospeso la questione di quale comportamento adottare per ottenere la giusta visibilità ed evitare l'anonimato dell' "effetto massa", che poi una il giorno dopo ti diceva "peccato che non sei venuto!" e invece c'eri. Abbandonai subito l’ipotesi di imitare un mio compagno di classe che si atteggiava a compagnone allegro e confidente di tutte un po’ perché non era nelle mie corde e aveva pure l'aria malaugurante del temutissimo "restiamo amici", un po’ perché la parte la faceva già lui e non era il caso di farla in due, ma, soprattutto, perché, come giustamente osservato molti anni dopo dal giovane Pippo di “Dillo con parole mie”, chi sceglie di fare “l’amico delle donne” generalmente va in bianco perché con gli amici ci si confida ma non ci si mette, se non in età adulta e come ultima ratio. Dunque, non volendo aspettare tanto tempo, la tattica che adottavo era quella ben collaudata di assumere l’aria malinconica di chi si porta dentro un grande dolore e se ne sta in disparte con il suo bel bicchiere di coca-cola in mano. Insomma, una cosa a metà tra l’umore tenebroso di un giovane Werther che vede Charlotte imburrare una fetta di pane per Albert e un poète maudit

Dai diciassette anni in poi, come detto in precedenza, avevo introdotto tra gli strumenti di seduzione anche le Gauloises senza filtro, che lasciavo penzolare dal labbro come un giovane Alain Delon, ma stando ben attento a non riempire i denti di pezzettini di tabacco, con il rischio di ritrovarsi il “sorriso primavera” come con i tramezzini vegetariani. Naturalmente, l'espressione triste andava utilizzata senza esagerare altrimenti si finiva come Emanuele a fare il ruolo di quello un po’ sfigato che cambia i dischi. Doveva essere giusto un velo, uno sguardo disilluso da uomo ferito ma non domo da far balenare ogni tanto. Quindi occorreva studiare con cura la candidata da scegliere tra le meno peggio di coloro delle quali ti accorgevi, intercettando qualche sguardo insistito, che ti avevano notato a loro volta. Soprattutto, occorreva essere sicuri che non ci fossero da parte sua o di altri delle mire in corso, per evitare spiacevoli incidenti diplomatici.

A questo proposito, siccome l' "Arte della guerra" insegna che il primo passo verso la vittoria consiste nel saper scegliere realisticamente il proprio nemico, conveniva abbandonare subito la pretesa di indirizzare le proprie attenzioni verso la fascia di nicchia delle "bellone abbaglianti " dove trovavi più affollamento di pretendenti che sul vaporetto della linea 1 nelle ore di punta. Lo stesso valeva per le "belle incantevoli" e le "carine intriganti" dove i duellanti erano ancora in buon numero. Invece, scegliendo come target il vasto territorio delle "graziose-accettabili" fino al livello del "che non si fila nessuno" la possibilità di trovare la concorrenza era molto ridotta, incontravi quasi sempre ragazze sveglie, di grande simpatia e molto piacevoli perché non se la tiravano come le altre e magari la possibilità d'incrocio tra domanda e offerta era attraente per entrambe le parti. In ogni caso, una volta individuato il bersaglio e ultimate le verifiche, tutto era pronto per l’attacco che doveva essere effettuato con la determinazione e la rapidità di un incursore di marina.

Anche il juke-box, in montagna e al baretto della spiaggia, provvedeva
  alle nostre voglie di ballo. Bastava avere le cento lire e sperare che nella lista
ci fosse qualcosa di meglio di Little Tony e Rita Pavone.

Non appena lei era seduta a rifiatare da qualche parte, possibilmente senza amiche attorno, era il momento di spegnere con decisione la sigaretta (che spesso si era già spenta per conto suo, perché a forza di tenerla in bocca si era inumidita). Dopo aver passato rapidamente la lingua sui denti per rimuovere gli eventuali pezzetti di tabacco di cui sopra, ci si avvicinava alla preda con l’aria di chi aveva improvvisamente deciso di dare un calcio alla cattiva sorte e fissandola con lo stesso sguardo che mia madre classificava come "fecondatore" si proferiva un: "Vuoi ballare?" che non ammetteva rifiuti. Di solito lei spalancava gli occhioni ingenui e rispondeva stupita: "Chi, io? " 
Così, dopo esserti morsicato la lingua per non ribattere: "Certo, bellina! Chi vuoi che inviti? La tua sedia? "  dovevi risponderle come il Principe Azzurro di Cenerentola con un suadente: "Sì, è proprio con te che vorrei ballare, sai? Però se non vuoi... " . 
L'ultima frase serviva a farle intendere come fossi una persona di sentimenti profondi e disposta anche ad accettare l'ennesima cattiva sorte di un rifiuto. 
Il suo: "Ma certo che lo voglio! Sono qui per questo, mica per far tappezzeria, che diamine!" era implicito nel fatto che a quel punto lei si alzava subito prima che potessi cambiare idea e raggiungeva con te il centro della sala. Ovviamente, per avviare le danze, che dovevano essere lente e struggenti, occorreva aspettare che finisse la manciata iniziale di twist e surf, utile solo per frollare le carni.

Dopo i rituali convenevoli di cortesia (nome, cognome, scuola, numero di matricola) bastava di solito aver la pazienza di aspettare un pochino e la pesciolina, curiosa come tutte le donne, abboccava all'amo con l’atteso: "Ti posso chiedere una cosa un po’ indiscreta? Come mai te ne stavi tutto solo? ".
Questa sua domanda ingenua era la prova provata che aveva notato il tuo velo di malinconia e che ora si stava ponendo il problema di come ficcare il naso nei tuoi affari sentimentali, che dovevano esserne la causa. 
Da quel momento in poi, disponendo di inventiva e dialettica, si giocava alla grande rivelandole gradualmente tutta una serie di sofferti “ti dico e non ti dico” a proposito di una recente e tristissima storia d’amore con una ragazza che l'aveva illuso e poi lasciato di punto in bianco per mettersi (chi l'avrebbe mai detto?) proprio con uno dei suoi migliori amici. Se il racconto era credibile di solito provocava dopo pochi istanti la domanda incuriosita "Ma (questa zoccola) la conosco?" . Qui si doveva rispondere "forse sì, ma come immagini non voglio dirne il nome per correttezza" e questo ti dava subito dieci punti bonus nella sua considerazione. Era comunque importante mescolare nello stesso pentolone della vicenda ingredienti forti quali: l’amore infedele, l’ingenuità oltraggiata e irrisa, l'amicizia tradita, l’inganno crudele... cioè la serie completa di tutti i peggiori luoghi comuni delle soap opera argentine.

Il premio di tanta fatica.

Durante il ballo era necessario aumentare progressivamente la stretta e insinuare per gradi nel discorso concetti riassumibili in: "Magari la mia ex fosse stata una donnina dolce e comprensiva come te. Allora si che avrei avuto la felicità a portata di mano". Di solito lei annuiva pensosa e si stringeva di più. A quel punto occorreva avere ancora un po’ di pazienza, mentre la pesciolina si rosolava ulteriormente al fuoco delle chiacchiere e aspettare il momento clou di tutte le feste: lo spegnimento della luce. Prima o poi, infatti, arrivava il momento in cui qualcuno, facendo finta di essersi appoggiato per sbaglio con la schiena all'interruttore, spegneva le luci della sala. In quel preciso istante tra tutte le coppie in sala partivano delle raffiche di baci e di stropicciamenti frenetici (ma solo per i più evoluti). Occorreva però sbrigarsi a pomiciare perché appena si accorgeva del buio la madre della padroncina di casa accorreva a sirene spiegate con la velocità della polizia nei film americani per ripristinare l’ordine e smascherare il colpevole che era severamente redarguito di fronte a tutti (lo dirò a tuo padre) e a volte persino invitato ad andarsene con un rosso diretto. A casa di una ragazza di Cannaregio arrivò perfino la nonna con la scopa in mano, salutata dall'applauso di tutti.

Con il favore delle tenebre potevi infliggere alla preda la stoccata finale del matador e sussurrarle in rapida successione una serie di cosette tanto dolci da intenerire anche Angela Merkel. Al termine della sequenza, tenendo pronto il kit di salvataggio "scuse-fraintendimento", era possibile provare a darle un primo tenero bacino di test sulla fronte, sugli occhi (a patto di non sciuparle il Mascara) o anche sul lobo dell’orecchio, ma senza mordicchiarlo ancora. La scelta tra queste opzioni dipendeva in particolar modo dalla statura della malcapitata che imponeva alcune regole da rispettare:
1-Se ti accompagnavi a delle nanerottole andava bene il classico bacio sugli occhi o sopra la teca cranica. 
2-Se ambivi a delle cavallone: bacio sul lobo e, nei casi estremi, sulla punta del mento o sul gargarozzo e fino a dove si arrivava senza camminare sulle punte come una ballerina classica, evitando comunque il bacio all’attaccatura del seno in quanto prematuro. 
3-Se, infine, eri interessato al genere normolineo, bastava un bacio sul lato del collo, o, meglio ancora, dietro l’orecchio stando attento però a non farle cadere l’orecchino che poi ti toccava cercarlo subito in ginocchio sul pavimento prima che gli altri lo pestassero, con grave rischio per le tue delicate dita da chitarrista. 
In mancanza di apprezzabili reazioni negative, si poteva finalmente, dopo tanta fatica, passare al bacio vero e proprio (modello base, lingua optional) con successiva, travolgente limonata su divano appartato e/o in una delle tante callette buie dove passavano sì e no due persone al giorno, eccetto quando stavi pomiciando.

In realtà, la tattica che dava i migliori risultati per incuriosire positivamente le ragazze era quella che mi veniva spontanea nella vita di tutti i giorni per una naturale predisposizione alla timidezza e all'essere imbranato nelle faccende quotidiane come tutti i giovanotti cresciuti nella bambagia di mamme, nonne e zie che tutto sanno e che a tutto provvedono . Però essendo un maldestro volonteroso cercavo almeno di rimediare alle mie carenze con soluzioni ingegnose, ma quasi sempre con risultati discutibili. Per esempio, fino al giorno in cui cominciai a vivere fuori di casa nell'appartamento padovano dei tempi universitari ero del tutto all'oscuro del fatto che i bottoni potessero anche staccarsi, questo perché mia madre e mia nonna come due fatine buone facevano periodicamente il giro dei cassetti e degli armadi rinforzando all'occorrenza quelli penzolanti. Così, appena scoperta la caducità di quegli utili accessori, mi adattai all’arte del cucire con l’entusiasmo dell’autodidatta. Ma, riuscendomi del tutto impossibile far passare un filo nella cruna di un ago senza attorcigliarlo irreversibilmente (ma come faranno le donne a farlo al primo colpo?) mi ridussi ben presto a pescare aghi con il filo già inserito nel cestino da lavoro di mia madre. Di conseguenza andavo in giro con i bottoni del loden e delle camicie attaccati con fili dai colori più strani, cosa che faceva sghignazzare gli amici, ma inteneriva tanto le ragazze del’epoca. Questo giacché a rinforzo dell’addestramento da “angelo del focolare” impartito a quei tempi dalle madri, a scuola avevano anche l’ora di economia domestica per diventare bravissime oltre che nello sfornare crostate bruciacchiate anche nel cucito e nel lavoro a maglia. Così, oltre ad infliggerti tragici maglioni con gli orli sformati e con le maniche di diversa lunghezza, guardavano divertite e con tenerezza materna quei miei rammendi improbabili (e non avevano nemmeno visto i calzini blu ricuciti con il filo rosso). Ed era proprio sull'istinto materno che ad un certo punto decisi di puntare per entrare nelle grazie del gentil sesso anche perché non mi costava molta fatica, visto che spesso le cretinate per intenerirle mi venivano spontanee.

Ma di questo parleremo, magari in una prossima puntata, altrimenti poi mio figlio si lamenta che quando racconto la tiro troppo lunga.

venerdì 3 maggio 2019

Dei ragazzi degli anni '60 che sognavano di andare in India, delle ragazze che volevano l'Inghilterra e alla fine si andava in una pensioncina a Firenze.


Chi ha bazzicato da ventenne la fine degli anni sessanta probabilmente ricorderà che frammisti al magma ribollente delle lotte politiche, dei cortei per il Vietnam e delle occupazioni, dei nuovi stili di vita, della questione femminile che avanzava, di Woodstock, del profumo del patchouli e delle prime canne, assieme ai pantaloni a zampa di elefante per lui e alle gonne da zingara lunghe e a fiori per lei c'erano due punti fermi: noi ragazzi volevamo andare in India e loro, le nostre ragazze, volevano andare in Inghilterra. Lo so perché in quegli anni grondanti voglia di cambiamento, di viaggi e di avventure, con alcuni amici, dei libri, carte geografiche alla mano e lo spirito di un novello Marco Polo ne avevo pianificato uno in automobile che avrebbe dovuto durare oltre un mese, con attraversamento di Jugoslavia, Romania, Bulgaria, Turchia, Iran e Afghanistan con passaggio del Khyber pass, attraversamento del Pakistan e arrivo in India (forse). L'idea era nata una sera in campo Santo Stefano, tra il solito giro di perditempo seduti dopo la mezzanotte ai tavolini del bar Paolin, ovviamente chiuso. Di solito, fumando Gauloises come dei belli e dannati alla Alain Delon, si parlava/bisticciava fino a notte fonda di politica, donne, amori, cinema e di tutto lo scibile umano, ma quella sera qualcuno raccontò di gente del Marco Polo che in India c'era andata e di quanto fosse stato epico il loro viaggio via terra e questo bastò per scatenare lo spirito competitivo. In fondo, se gliel’aveva fatta gente del Marco Polo, noi ex del Liceo Foscarini ci saremmo andati in carrozza. In breve tempo, raccogliendo amici dell'università e di varia provenienza, riuscii a trovare un buon numero di sostenitori del progetto. 

Alla prima riunione, attorno ad un tavolaccio dell'osteria da Codroma, ci ritrovammo in nove, tutti entusiasti e con tre vetture disponibili (un Maggiolone, che doveva fungere da ammiraglia, una Fiat 127 e una Simca 1000). Dopo il giuramento collettivo di portare a compimento il viaggio della nostra vita qualunque ne fosse il costo, brindammo ripetutamente per essere veramente convinti. Nelle riunioni successive, disponendo il gruppo di due futuri ingegneri, pianificammo con cura ogni cosa, comprese le soste nelle città, i rifornimenti di acqua, cibo e benzina, le possibili strade alternative e perfino quando partire per evitare la stagione dei monsoni. Naturalmente, man mano che si avvicinava il giorno della partenza cominciarono le defezioni per i più futili motivi, tipo: i miei non vogliono più, la ragazza dice che se parto mi lascia, non ho i soldi, devo dare l'esame di diritto amministrativo e non voglio rovinarmi la macchina che papà mi ha appena regalato per la laurea. La scusa migliore fu: non vengo più perché c'è da dormire all'aperto in sacco a pelo ed io ho paura dei serpenti. Alla fine, ci ritrovammo in cinque, con la 127 e la Simca ma, soprattutto, con due traditori che all'ultima riunione del giorno prima della partenza se ne uscirono con un' inattesa mozione d'ordine dal titolo: "Ma perché invece di romperci le balle tra deserti, guadi e passi di montagna per andare in India non ce ne andiamo belli e tranquilli a Capo Nord, che è quasi tutta autostrada?". 


Appena ventenne, attraversato laicamente dal dubbio, come al solito.

I cospiratori ebbero facilmente la meglio, anche perché le auto erano le loro e poi promettevano diverse soste "di piacere" lungo il percorso in paesi sessualmente liberi. Diciamo che di fronte agli eros center tedeschi, il Taj Mahal, il Gange e il Brahmaputra non erano molto competitivi. Così, alla fine di un voto drammatico, mi ritrovai in minoranza e tanto contrariato per quel voltafaccia da salutarli e abbandonare sdegnato la squadra, che peraltro non andò lontano perché al secondo giorno di viaggio furono respinti bruscamente alla frontiera della Germania Est in quanto nessuno di loro si era ricordato che serviva il visto per l'ingresso sul passaporto. 

Sfortunatamente, in quel periodo i nostri sogni di viaggio in India sulle orme dei Beatles, del suono del sitar, del curry, del pollo tandoori e dei santoni alla Sai Baba rimasero solo esercizi teorici e velleitari. Erano bolle di sapone lievi e dai mille colori (come se fossero uscite da Lucy in the sky with diamonds) che scoppiavano di fronte alla prima difficoltà. Il guaio era invece che le nostre ragazze, quando volevano andare in Inghilterra, beh... loro ci andavano davvero e anche per dei mesi, tornando oltre che con qualche chiletto in più per via della scoperta del burro salato, anche con con i classici innamoramenti estivi da college. Ma questa è una triste storia d’amore di cui ho già narrato e che comunque alla fine ebbe anche un suo perché in quanto diede il via ad un lungo, ma in fondo eccitante, biennio di turbamenti sentimentali del tipo “Ci siamo rimessi assieme” e di “ No, è meglio che ci lasciamo” e di “Ma che bello! stiamo di nuovo insieme” seguito dalla variante pragmatica: "Lo facciamo, ma però non stiamo insieme" fino al ”Lo vedi che tra noi non funziona? È meglio che ci lasciamo” che si sono trascinati quasi sino alla fine dell’università, quando poi ci siamo rotti reciprocamente le scatole e ci siamo trovati dei nuovi amori meno tormentati. 

Piuttosto, parlando di primi viaggi a loro modo memorabili, quello che ricordo ancora oggi con emozione, anche se per me non era il primo, è stato quello che ho fatto all'inizio della nostra storia d’amore, quando tutto era ancora zucchero e miele, con la mia ragazza di allora, a Firenze, dove per la prima volta abbiamo potuto dormire assieme (cosa scandalosa per l’epoca) in un alberghetto a una stella dove non facevano caso se fossimo una coppia sposata o meno (M'importa fava, disse il portiere dopo un'occhiata distratta ai nostri documenti, basta che avete i "pimpi" per pagare), in Borgo Ognissanti, a due passi dal Lungarno Vespucci. Quel viaggio, ancora così vivo nel ricordo, e’ stato anche un piccolo capolavoro di astuzia, perché né io né lei avremmo mai avuto dalle nostre famiglie il permesso di farlo assieme in quegli anni (parlo del 1969). Quindi, per raggiungere il nostro scopo, si fece così: lei aveva ottenuto la complicità di una sua cugina più grande che studiava a Firenze e che, apparentemente, l’aveva invitata per un soggiorno di una settimana nell'appartamento che condivideva con un'altra studentessa. Che però era già andata via da mesi e, in realtà, all'insaputa della famiglia, questa ragazza ora viveva con uno studente americano e quindi necessitava a sua volta di… molta discrezione e, ovviamente, l’ospitalità sarebbe stata solo di facciata. Il giorno dopo la partenza della mia bella per Firenze, per eliminare ogni sospetto da sua madre che così avrebbe visto di persona che io ero rimasto a Venezia e non ero partito con sua figlia come temeva, mi recai a casa sua con la scusa di riprendere alcuni dischi che le avevo prestato e con l’occasione mi informai di come stesse andando il soggiorno fiorentino della mia beneamata e le raccomandai di salutarla tanto da parte mia quando l’avesse sentita. Un’ora dopo questa vergognosa quanto abile messa in scena ero già seduto a bordo del rapido per Firenze con lei che di lì a poche ore sarebbe corsa ad abbracciarmi in stazione a Santa Maria Novella. 


L'elegante ingresso proprio sotto al lampione del nostro nido d'amore fiorentino

Quei primi giorni di viaggio assieme furono per tutti e due un’esperienza di vita memorabile. Anche se era autunno inoltrato, iniziava a fare freschetto e ogni tanto piovigginava pure (che però era una buona scusa per rimanere in camera), Firenze, senza il turismo invadente e all'epoca ancora autentica nei suoi umori, seppe essere complice come la Venezia dei miei ricordi. Così scoprimmo tante cose straordinarie, dal Museo Stibbert, alla salita lungo i 463 gradini del campanile di Giotto con le gambe che poi facevano male e dalle passeggiate notturne sui lungarni sino, più prosaicamente, alla bontà del panino con il lampredotto. Scoprimmo anche i risvegli con il “ma quanto hai russato?” e il conseguente “...e tu pensi di no?”, e pure che lei aveva sempre i piedi gelati e scalciava durante il sonno e che io quando mi lavavo i denti spargevo dentifricio dappertutto, ma soprattutto che sua cugina, nello sceglierci la stanza, aveva preso troppo alla lettera la richiesta di essere “parsimoniosa”, perché è vero che il prezzo era davvero da studenti, la stanza era spartana negli arredi ma pulita ed in fondo, trovandosi l’alberghetto al terzo piano di un palazzo (si saliva con un vecchio e cigolante ascensore dalla deliziosa cancellata liberty e che costava l’inserimento di una monetina da dieci lire a viaggio) ci concedeva pure, dall'unica finestra disponibile, la visione di qualche tetto, di un campanile non identificato e delle colline, che era molto romantico. 


Il dramma del costoso giro turistico in carrozzella con cavallo non stitico  

Però la porta non si chiudeva bene e di notte ci costringeva a barricarci tenendoci contro una sedia con una valigia sopra ma, soprattutto, non avevamo il bagno in camera. C’era solo il lavandino, senza acqua calda, con un saponetta già usata da terzi (dunque gettata con raccapriccio) per le abluzioni e quindi per il resto occorreva recarsi nella toilette in corridoio, dalle dimensioni di uno stanzino minuscolo, con solo la tazza. E qui si scopriva che la lampadina del bugigattolo era fulminata e che, se per caso ti scappava di notte, dovevi mirare verso il centro di quella sagoma biancastra che intravedevi alla luce fioca di un piccolo lucernaio, verificando prima che il coperchio della tavoletta non fosse abbassato, altrimenti la mattina dopo saresti stato svegliato dalla donna delle pulizie che in corridoio strepitava contro la Maremma maiala e bucaioli vari. Durante il soggiorno ci fu solo un momento di tensione quando lei s'impuntò, ovviamente avendola vinta, per fare un giro del centro storico con la carrozzella che ci costò quanto due giorni in albergo. La mia considerazione che se proprio voleva provare il brivido della passeggiata in carrozza avrebbe potuto farlo anche al Lido, lungo il Gran Viale a minor prezzo e che francamente mi sentivo a disagio nelle vesti del turista gonzo americano da spennare, non ebbe alcun risultato e comunque nell'occasione quel maledetto cavallo non ci risparmiò niente in termini di deiezioni e relativi odori e lo considerai un castigo divino. 

Al termine della settimana assieme a Firenze, io presi un treno che partiva al mattino, mentre il suo partiva a metà pomeriggio e appena sceso a Venezia telefonai ai suoi genitori, che ci sarebbero di sicuro andati, per chiedere se potevo venire con loro quella sera a prenderla in stazione. Gran bella mossa, vero? Diciamo pure che se von Clausewitz si chiamava Carlo, in fondo non era casuale.