giovedì 1 novembre 2018

Delle astutissime ma molto fallibili tattiche di seduzione alle feste degli anni '60


Negli anni del liceo, essendo stato appena mollato dalla mia prima ragazza fissa che essendo ripetente era quasi due anni più grande di me e dunque decisamente più sveglia, tanto da mettersi con un tizio che era già all'università, per ribellarmi a tanta cattiva sorte decisi che era giunta l'ora di entrare nel vorticoso giro delle feste in casa che a Venezia, unica città al mondo senza discoteche o locali in cui ballare, se si eccettuava un night club con tanto di entreineuses  in cerca del pollo a cui fare ordinare uno spumante Cinzano che gli sarebbe costato come un Dom Pérignon e un club privato vicino all'Accademia altamente sconsigliato ad un ragazzo giovane per il particolare tipo di clientela che lo frequentava, costituivano l'unico modo per conoscere e frequentare ragazze anche al di fuori del giro delle compagne di scuola. Infatti, volendo, se ne trovavano almeno un paio a settimana e bazzicando tra Campo Santo Stefano, Campo San Luca e San Bortolo (Bartolomeo) dove c'era lo struscio serale dei ragazzi veneziani, qualche invito lo si rimediava sempre. Questo anche perché essendo fortunatamente alto, di modi garbati e classificato come "belloccio" risultavo abbastanza appetibile al gentil sesso. Pertanto, acquistato da Vittadello in campo San Lio e grazie al generoso contributo di mia zia, che mia madre non ne voleva sapere, un completo blu scuro da sera (perchè alle feste dell'epoca si andava vestiti bene, in giacca e cravatta) e arricchitolo con una cravatta regimental di seta appertenuta a mio padre e una bella camicia button down con i gemelli dorati sui polsini, rimanevano da mettere a punto le tattiche di seduzione da adottare.
 
Avendo risolto a modo mio il celebre dilemma di Moretti: "alle feste mi si nota di più se non ci vado o se resto lì in disparte?" con la scelta di frequentarle assiduamente rimaneva infatti in sospeso la questione di quale comportamento adottare per ottenere la giusta visibilità ed evitare l'anonimato dell' "effetto massa", che poi una il giorno dopo ti diceva: "peccato che non sei venuto!" e invece c'eri. Abbandonai subito l’ipotesi di imitare un mio compagno di classe che si atteggiava a compagnone allegro e confidente di tutte, un po’ perché non era nelle mie corde e aveva pure l'aria malaugurante del temutissimo "restiamo amici", un po’ in quanto la parte la faceva già lui e non era il caso di farla in due, ma, soprattutto, perché chi sceglie di fare “l’amico delle donne” generalmente va in bianco dal momento che con gli amici ci si confida ma non ci si mette, se non in età adulta e come ultima ratio.  Dunque, non volendo aspettare tanto tempo, la tattica che adottavo era quella ben collaudata di assumere l’aria malinconica di chi si porta dentro un grande dolore e se ne sta in disparte con il suo bel bicchiere di coca-cola in mano. Insomma, una cosa collocabile tra l’umore tenebroso di un giovane Werther che vede Charlotte imburrare una fetta di pane per Albert, la madeleine di Proust e un poète maudit.


Alle feste dei 18 anni le ragazze erano in lungo e  noi
si andava con la giacca bianca dello smoking,
anche con il rischio di essere scambiati per il cameriere

Dai diciassette anni in poi, come detto in precedenza, avevo introdotto tra gli strumenti di seduzione anche le Gauloises senza filtro, che lasciavo penzolare dal labbro come un giovane Alain Delon, ma stando ben attento a non riempire i denti di pezzettini di tabacco, con il rischio di ritrovarsi il “sorriso primavera” come con i tramezzini vegetariani. Naturalmente, l'espressione triste andava utilizzata senza esagerare altrimenti si finiva come Emanuele a fare il ruolo di quello un po’ sfigato che cambia i dischi. Doveva essere giusto un velo, uno sguardo disilluso da uomo ferito ma non domo da far balenare ogni tanto. Quindi occorreva studiare con cura la candidata da scegliere tra le meno peggio di coloro delle quali ti accorgevi, intercettando qualche sguardo insistito, che ti avevano notato a loro volta. Soprattutto, occorreva essere sicuri che non ci fossero da parte sua o di altri delle mire in corso, per evitare spiacevoli incidenti diplomatici.

A questo proposito, siccome l' "Arte della guerra" insegna che il primo passo verso la vittoria consiste nel saper scegliere realisticamente il proprio nemico, conveniva abbandonare subito la pretesa di indirizzare le proprie attenzioni verso la fascia di nicchia delle "bellone abbaglianti " dove trovavi più affollamento di pretendenti che sul vaporetto della linea 1 nelle ore di punta. Lo stesso valeva per le "belle incantevoli" e le "carine intriganti" dove i duellanti erano ancora in buon numero. Invece, scegliendo come target il vasto territorio delle "graziose e accettabili" fino al livello del "che non si fila nessuno" avevi non solo la possibilità di trovare la concorrenza molto ridotta, ma incontravi quasi sempre ragazze sveglie, di grande simpatia e molto piacevoli perché non se la tiravano come le altre e magari la possibilità d'incrocio tra la domanda e l'offerta era attraente per entrambe le parti. In ogni caso, una volta individuato il bersaglio e ultimate le verifiche, tutto era pronto per l’attacco che doveva essere effettuato con la determinazione e la rapidità di un incursore di marina.


Con i miei genitori e mio fratello in Piazza a 15 anni.
Ero alto e stiloso, dunque irresistibile (magari...) 

Non appena lei era seduta a rifiatare da qualche parte, possibilmente senza amiche attorno, era il momento di spegnere con decisione la sigaretta (che spesso si era già spenta per conto suo, perché a forza di tenerla in bocca si era inumidita). Dopo aver passato rapidamente la lingua sui denti per rimuovere gli eventuali pezzetti di tabacco di cui sopra, ci si avvicinava alla preda con l’aria di chi aveva improvvisamente deciso di dare un calcio alla cattiva sorte e fissandola con lo stesso sguardo che mia madre classificava come "fecondatore" si proferiva un: "Vuoi ballare?" che non ammetteva rifiuti. Di solito lei spalancava gli occhioni ingenui e rispondeva stupita: "Chi, io? " 
Così, dopo esserti morsicato la lingua per non ribattere: "Certo, bellina! Chi vuoi che inviti? La tua sedia? "  dovevi risponderle come il Principe Azzurro di Cenerentola con un suadente: "Sì, è proprio con te che vorrei ballare, sai? Però se non vuoi... " . 
L'ultima frase serviva a farle intendere come fossi una persona di sentimenti profondi e disposta anche ad accettare l'ennesima cattiva sorte di un rifiuto. 
Il suo: "Ma certo che lo voglio! Sono qui per questo, mica per far tappezzeria, che diamine!" era implicito nel fatto che a quel punto lei si alzava subito prima che potessi cambiare idea e raggiungeva con te il centro della sala.

Ovviamente, per avviare le danze, che dovevano essere lente e struggenti, occorreva aspettare che finisse la manciata iniziale di twist e surf, utile solo per frollare le carni. Dopo i rituali convenevoli di cortesia (nome, cognome, scuola, numero di matricola) bastava di solito aver la pazienza di aspettare un pochino e la pesciolina, curiosa come tutte le donne, abboccava all'amo con l’atteso: "Ti posso chiedere una cosa un po’ indiscreta? Come mai te ne stavi tutto solo? ". 
Questa sua domanda ingenua era la prova provata che aveva notato il tuo velo di malinconia e che ora si stava ponendo il problema di come ficcare il naso nei tuoi affari sentimentali, che dovevano esserne la causa. 
Da quel momento in poi, disponendo di inventiva e dialettica, si giocava alla grande rivelandole gradualmente tutta una serie di sofferti “ti dico e non ti dico” a proposito di una recente e tristissima storia d’amore con una ragazza che l'aveva illuso e poi lasciato di punto in bianco per mettersi (chi l'avrebbe mai detto?) proprio con uno dei suoi migliori amici. Se il racconto era credibile di solito provocava dopo pochi istanti la domanda incuriosita "Ma (questa zoccola) la conosco?" . Qui si doveva rispondere "forse sì, ma come immagini non voglio dirne il nome per correttezza" e questo ti dava subito dieci punti bonus nella sua considerazione. Era comunque importante mescolare nello stesso pentolone della vicenda ingredienti forti quali: l’amore infedele, l’ingenuità oltraggiata e irrisa, l'amicizia tradita, l’inganno crudele... cioè la serie completa di tutti i peggiori luoghi comuni delle soap opera.


Forse studiando, ma pensando a lei...

Durante il ballo era necessario aumentare progressivamente la stretta e insinuare per gradi nel discorso concetti riassumibili in: "Magari la mia ex fosse stata una donnina dolce e comprensiva come te. Allora si che avrei avuto la felicità a portata di mano". Di solito lei annuiva pensosa e si stringeva di più. A quel punto occorreva avere ancora un po’ di pazienza, mentre la pesciolina si rosolava ulteriormente al fuoco delle chiacchiere e aspettare il momento clou di tutte le feste: lo spegnimento della luce. Prima o poi, infatti, arrivava sempre il momento in cui qualcuno avrebbe fatto finta di essersi appoggiato per sbaglio con la schiena sull'interruttore spegnendo le luci della sala. In quel preciso istante tra tutte le coppie in sala sarebbero partite delle raffiche di baci e di stropicciamenti frenetici (ma solo per i più evoluti). Occorreva però sbrigarsi a pomiciare perché appena si accorgeva del buio la madre della padroncina di casa accorreva a sirene spiegate con la velocità della polizia nei film americani per ripristinare l’ordine e smascherare il colpevole che era severamente redarguito di fronte a tutti (lo dirò a tuo padre) e a volte persino invitato ad andarsene con un rosso diretto. A casa di una ragazza di Cannaregio arrivò perfino la nonna con la scopa in mano, salutata dall’applauso di tutti.

Con il favore delle tenebre potevi infliggere alla preda la stoccata finale del matador e sussurrarle in rapida successione una serie di cosette tanto dolci da intenerire anche Angela Merkel. Al termine della sequenza, tenendo pronto il Kit di salvataggio "scuse-fraintendimento", era possibile provare a darle un primo tenero bacino di test sulla fronte, sugli occhi (a patto di non sciuparle il Mascara) o anche sul lobo dell’orecchio, ma senza mordicchiarlo ancora. La scelta tra queste opzioni dipendeva in particolar modo dalla statura della malcapitata che imponeva alcune regole da rispettare:
1-Se ti accompagnavi a delle nanerottole andava bene il classico bacio sugli occhi o sopra la teca cranica. 
2-Se ambivi a delle cavallone: bacio sul lobo e, nei casi estremi, sulla punta del mento o sul gargarozzo e fino a dove si arrivava senza camminare sulle punte come una ballerina classica, evitando comunque il bacio all’attaccatura del seno in quanto prematuro. 
3-Se, infine, eri interessato al genere normolineo, bastava un bacio sul lato del collo, o, meglio ancora, dietro l’orecchio stando attento però a non farle cadere l’orecchino che poi ti toccava cercarlo subito in ginocchio sul pavimento prima che gli altri lo pestassero, con grave rischio per le tue delicate dita da chitarrista. In mancanza di apprezzabili reazioni negative, si poteva finalmente, dopo tanta fatica, passare al bacio vero e proprio (modello base, lingua optional) con successiva, travolgente limonata su divano appartato e/o in una delle tante callette buie dove passavano sì e no due persone al giorno, eccetto quando stavi pomiciando.


The day after...

In realtà, la tattica che dava i migliori risultati per incuriosire positivamente le ragazze era quella che mi veniva spontanea nella vita di tutti i giorni per una naturale predisposizione alla timidezza e all’essere imbranato nelle faccende quotidiane come tutti i giovanotti cresciuti nella bambagia di mamme, nonne e zie che tutto sanno e che a tutto provvedono . Però essendo un maldestro volonteroso cercavo almeno di rimediare alle mie carenze con soluzioni ingegnose, ma quasi sempre con risultati discutibili. Per esempio, fino al giorno in cui cominciai a vivere fuori di casa nell’appartamento padovano ero del tutto all'oscuro del fatto che i bottoni potessero anche staccarsi, questo perché mia madre e mia nonna come due fatine buone facevano periodicamente il giro dei cassetti e degli armadi rinforzando all’occorrenza quelli penzolanti. Così, appena scoperta la caducità di quegli utili accessori, mi adattai all’arte materna del cucire con l’entusiasmo dell’autodidatta. Ma, riuscendomi del tutto impossibile far passare un filo nella cruna di un ago senza attorcigliarlo irreversibilmente (ma come faranno le donne a farlo al primo colpo?) mi ridussi ben presto a pescare aghi con il filo già inserito nel cestino da lavoro di mia madre. Di conseguenza andavo in giro con i bottoni del loden e delle camicie attaccati con fili dai colori più strani, cosa che faceva sghignazzare gli amici, ma inteneriva tanto le ragazze del’epoca. Questo giacché a rinforzo dell’addestramento da “angelo del focolare” impartito a quei tempi dalle madri, a scuola avevano anche l’ora di economia domestica per diventare bravissime oltre che nello sfornare crostate bruciacchiate anche nel cucito e nel lavoro a maglia. Così, oltre ad infliggerti tragici maglioni con gli orli sformati e con le maniche di diversa lunghezza, guardavano divertite e con tenerezza materna quei miei rammendi improbabili (e non avevano nemmeno visto i calzini blu ricuciti con il filo rosso). Ed era proprio sull’istinto materno che ad un certo punto decisi di puntare per entrare nelle grazie del gentil sesso anche perché non mi costava molta fatica, visto che spesso le cretinate per intenerirle mi venivano spontanee.


Una così mi sarebbe tanto piaciuto incontrarla in quelle feste.

Ricordo a mo' di esempio la tragica serata di quando andai ad una festa al Lido a casa di una tizia che neppure conoscevo e solo perché mi era stato detto che ci sarebbe stata anche una ragazza del Liceo Marco Polo di nome Claudia, che mi piaceva un sacco. Mi ero fatto invitare da amici comuni che mi avevano detto che la casa della festeggiata si trovava in una traversa di via Sandro Gallo che finiva di fronte alla laguna. Le mie poche informazioni dicevano anche che la festa era di buon tono e quindi ero elegantissimo, con disco omaggio per la padroncina di casa. C’era un nebbione fittissimo quella gelida sera di gennaio e temevo che i vaporetti per il Lido non si muovessero, ma per fortuna, dopo venti minuti di attesa infreddolita all’imbarcadero di San Zaccaria, arrivò la motonave che aveva il radar e mi portò a destinazione. Imboccata la strada che mi era stata detta con un bel ritardo, realizzai di non aver chiesto il numero della casa in cui dovevo andare, ma la paura di non trovarla durò pochissimo, giusto il tempo di sentire musica e risate da una villetta con giardino a metà della via. Suonai, mi venne subito aperto il cancello e una ragazza molto caruccia e sorridente arrivò ad accogliermi sul portone “Ciao! Io sono Silvia e tu?” 
Sorrisi a mia volta “ Ciao, Silvia, io sono Carlo, grazie per avermi invitato. Sei tu la festeggiata?” 
Lei annuì, io le porsi il long playing degli Who che le avevo comperato e dopo il "Ma dai...non dovevi disturbarti" di routine ci demmo due bacini di ringraziamento, poi lei mi prese il cappotto dicendo di accomodarmi in salotto con gli altri, che sarebbe tornata subito. Lo feci molto volentieri, salvo rendermi conto dopo dieci minuti e un paio di pizzette e coca cole, che io di quella gente non conoscevo nessuno. Non erano del mio giro, ma questo non voleva dire nulla visto che il Lido non era tra le mie frequentazioni abituali, però non c’era neppure la ragazza per cui ero lì.

Attesi che questa Silvia ritornasse in vista, poi le domandai “Scusa, ma non vedo Claudia. Non è ancora arrivata?” .
Lei mi guardò perplessa e disse “ Guarda che Claudia c’è. E' in cucina a dare una mano a mia madre con i tramezzini... ma come mai conosci mia sorella?
Ah...caspita! Non avevo capito che Claudia abitasse qui e avesse una sorella, e che sorella. Ma anche tu sei al liceo Marco Polo come lei?” 
Lei rise divertita “Guarda che mia sorella Claudia è alla Scarsellini, aspetta che te la chiamo...” .
Nello stesso momento in cui la chiamava ricordai che la Scarsellini era una scuola elementare. Infatti arrivò al mio cospetto una bambinetta di circa otto anni con le treccine che si presentò e mi strinse la mano con grande compostezza e un accenno d’inchino.
Guardai sconsolato la padrona di casa “Scusa, ma temo ci sia un tragico errore... credo di aver sbagliato festa” 
Silvia rise di nuovo, ma stavolta proprio di gusto “Ma va? Ma cosa mi dici? Sai che forse cominciavo a sospettarlo?” .
Scusandomi per la figura barbina le chiesi il cappotto per rimettermi in strada a cercare l’altra festa, ma lei si oppose carinamente e mi riportò per mano in salotto, poi dopo aver chiesto un attimo di silenzio ai suoi amici disse loro indicandomi: “Qui c’è un povero viandante disperso nella nebbia e di nome Carlo che ha bussato per sbaglio alla nostra porta. Daremo noi generosa ospitalità a quest’anima smarrita, anche se ci ha portato un disco che non si può ballare?
Tutti dissero in coro di si e io, rosso d’imbarazzo, rimasi in quella festa. Mi andò pure bene perché qualche giorno dopo, visto che l’avevo intenerita con la mia disarmante idiozia, mi misi assieme con quella Silvia (qualche bacetto e poco altro, che all'epoca era il massimo che ti veniva concesso), che poi lasciai dopo due settimane, anche perché mi rivelò di aver cambiato il mio long playing degli Who con uno dei Dik Dik e questo non lo potevo tollerare ma anche perché andare avanti e indietro dal Lido mi costava un patrimonio e un mucchio di tempo. Due ottimi motivi, direi. O no?

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