Ieri sera, malgrado il temporale che l’aveva preceduta mettendola in forse, si è ripetuta in bacino San Marco la notte magica dei “foghi” del Redentore, che per un veneziano è da secoli la festa più sentita, con le centinaia di barche di ogni tipo, decorate con addobbi di frasche e lanternine colorate, tutte assiepate tra la Punta della Dogana e Riva degli schiavoni (dove una volta c’era anche la galleggiante con il cantante, oggi sostituita dai lancioni turistici con la musica cafona a tutto volume), le migliaia di persone sulla riva sino quasi ai giardini della Biennale in piedi e con i bambini sulle spalle nell’ attesa di vedere lo spettacolo dei fuochi, le tavolate enormi fuori dalle case sulla fondamenta della Giudecca dove si portano in tavola in un flusso continuo di pentole e vassoi la castradina, l’anara col pien, ma anche i bovoletti, i bigoli in salsa, le sarde in saòr e l’anguria. E ovviamente tanto vino che scorre generosamente, perché nel giorno della Sensa Venezia celebra il suo sposalizio con il mare e la sua acqua, mentre al Redentore si dedica anima e corpo alle nozze con il vino. Naturalmente come ogni festa pagana (quella del Redentore lo è diventata, anche se è nata per celebrare la fine della pestilenza del 1575 con ponti votivi e basiliche commissionate al Palladio) ci sono degli eccessi per libagioni ed altro e questa mattina La Nuova ne stila l’elenco, a cominciare dai due barchini scontratisi davanti a Sant’Elena, dei quali uno si è rovesciato per continuare con alcune barche (padovane?) incagliate e liberate dai pompieri. Poi ci sono alcuni vecchietti che hanno avuto dei leggeri malori per eccesso di cibo e libagioni, qualcuno che si è fatto male salendo dentro la barca (ma quanti padovani c’erano?), uno che si è rotto un braccio dopo essere caduto da una panchina (?) al Mulino Stucky , un’altra persona che ha avuto una crisi allergica per qualcosa che aveva mangiato, un tizio in evidente stato di agitazione dentro all’Hotel Bauer, per finire con il ricovero del fenomeno che si è fatto male ad un occhio stappando una bottiglia. Insomma, anche se oggi è diventato un tantino più YouTuber e turistico, è il Redentore, nulla di più...
Quella che ricordo io era davvero una notte di mille magie, quasi sempre vissuta con il mio branco di amici e amiche del liceo e che iniziava quando la festa degli altri finiva, subito dopo i fuochi in bacino San Marco. Verso mezzanotte i foresti (chiunque provenga da oltre il Ponte della Libertà è indicato genericamente dai veneziani come “foresto” ed è sempre bene accetto, specie se viene per commerciare e portare schèi ) cominciavano a sfollare, le barche illuminate dalle lanternine liberavano il bacino, i vaporetti riprendevano le corse per il Lido e si raggiungeva la lontana spiaggia libera degli Alberoni. I più disinvolti, se non c’era l’autobus pronto sul piazzale, visto che al Lido è normale “dàrsea e tòrsea” (darla e prenderla) con le bici, ne prendevano una in prestito. Spesso sine die.
La spiaggia degli Alberoni all’epoca era una landa desolata di dune e arbusti a cui si accedeva passando tra i canneti nel buio pesto e rischiarato solo dalla luna che brillava alta sul mare. Se questa non c’era bisognava pregare che qualcuno si fosse ricordato della pila, altrimenti ci si arrangiava creando torce improvvisate con arbusti e fogli di giornale. Una volta arrivati, mentre quelli che avevano pestato qualche coccio di bottiglia tra le dune sciacquavano la ferita nell’acqua salata per disinfettarla, si cominciava a scavare la buca per il falò, mentre altri andavano a cercare rami secchi e fogliame da bruciare. Appena i fenomeni che sostenevano di saper accendere strofinando i rami secchi ammettevano il fallimento, spuntava un accendino e la fiamma crepitava viva, salutata da baci e abbracci. Quindi partiva una danza pagana attorno al fuoco (un misto tra il girotondo delle scuole materne e il sabba delle streghe, purché caotico) e spuntavano le chitarre (o mare nero, mare nero, mare ne…tu eri chiaro e trasparente come me…) le birre atrocemente calde e le salsicce da arrostire sul fuoco affumicandosi a morte e da mangiare a scottadito con la sabbia che scricchiolava sotto i denti.
Finita la musica, ci si spogliava e si correva tutti assieme a tuffarsi nudi e felici nel mare gelido e buio. Dopo qualche minuto di grida, spruzzi e schiamazzi si tornava grondanti e infreddoliti ad asciugarsi davanti al fuoco, che però si era spento perché nessuno lo aveva badato.
Allora ci si rivestiva e si restava abbracciati a riscaldarsi tutti assieme con i vestiti umidi e pieni di bestioline finché qualcuno, dopo aver frugato disperatamente negli zainetti e nella sabbia, ritrovava l'accendino e riaccendeva, sempre che non avesse bagnato la pietrina con le dita umide. Più tardi qualcuno riprendeva a suonare la chitarra (seduto in quel caffè, io non pensavo a te… guardavo il mondo che girava attorno a me…) altri si davano il primo bacio, qualche coppia litigava di brutto e si lasciava e qualche altra si appartava tra le dune e i canneti (generazioni di veneziani sono nate ad aprile… vorrà pur dire qualcosa). I primi raggi rosati del sole che emergeva dall'Adriatico avrebbero illuminato chitarre silenziose e abbandonate, un fuoco definitivamente spento, corpi sulla sabbia immersi nel sonno, gente che vomitava birra e salsicce tra le dune e nuove coppiette innamorate intente ad osservare l’alba con le mani tra le mani.
Questo è lo spirito vero del Redentore, alzi la mano chi non ne ha nostalgia (i non veneziani e i padovani sono esentati...)
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