Ormai ci siamo, sento già lo scalpitare del cavallo di San Martin che con la sua spada di pasta frolla viene a liberarci dall'invasione delle zucche. Perché dal diradarsi progressivo di cappelli da fattucchiera, ragni, ragnatele, teschi e zucche sdentate o meno che erano spuntati in tutte le vetrine dei negozi sotto casa, compresa pure la tabaccheria che aveva messo in vetrina una collezione di streghette (immagino fosse uno stock invenduto della scorsa befana) e di varia paccottiglia horror che sembrava uscita dal Malleus maleficarum, il manuale sulla stregoneria redatto nel 1497 da due domenicani tedeschi (e chi se no?) che fece accendere migliaia di roghi in tutta Europa, è chiaro che anche quest'anno abbiamo finalmente superato le forche caudine e consumistiche della notte di Halloween.
La novità, per quanto mi riguarda, è che avendo trascorso la notte di Halloween in Germania da mio figlio, non ho dovuto nemmeno trovare una scusa nuova per declinare cortesemente il solito invito alla solita festa a tema a cui mi guardo bene dal partecipare cercando di ricordare che cosa avevo detto lo scorso anno in modo da non ripetermi. Tra l'altro, il vedere come vivono la ricorrenza i giovani tedeschi a Düsseldorf è stato divertente. La metropolitana fino dalle sette di sera pullulava di plotoni di zombie, mummie, scheletri e streghette con dei bellissimi costumi e già belli carichi di birra che sfilavano tranquillissimi e ordinati sotto lo sguardo attento di poliziotti formato Schwarzenegger che scoraggiavano qualsiasi tentativo di scherzo idiota. Tutti erano diretti come un fiume colorato nella Altstadt, la città vecchia dove alla fine si camminava a fatica tra la folla e i suoi cento locali, strapieni di gente allegra, risuonavano di canti e suoni che sono andati avanti sino a notte fonda in una sorta di grande festa collettiva per le strade. Alla mattina, però, malgrado il passaggio di un simile esercito di gaudenti, a parte l'assenza di un qualsiasi segno di vandalismo su vetrine, muri e arredo urbano, non ho visto nemmeno una bottiglia o una lattina per terra, perché lì, se porti un certo numero di vuoti al centro di raccolta ti danno in cambio dei soldi o dei buoni acquisto e quindi a festa finita ci sono tantissimi ragazzi con i borsoni che le vanno a raccogliere. Un altro mondo...
Due vecie "maranteghe" a passeggio in calle |
La novità, per quanto mi riguarda, è che avendo trascorso la notte di Halloween in Germania da mio figlio, non ho dovuto nemmeno trovare una scusa nuova per declinare cortesemente il solito invito alla solita festa a tema a cui mi guardo bene dal partecipare cercando di ricordare che cosa avevo detto lo scorso anno in modo da non ripetermi. Tra l'altro, il vedere come vivono la ricorrenza i giovani tedeschi a Düsseldorf è stato divertente. La metropolitana fino dalle sette di sera pullulava di plotoni di zombie, mummie, scheletri e streghette con dei bellissimi costumi e già belli carichi di birra che sfilavano tranquillissimi e ordinati sotto lo sguardo attento di poliziotti formato Schwarzenegger che scoraggiavano qualsiasi tentativo di scherzo idiota. Tutti erano diretti come un fiume colorato nella Altstadt, la città vecchia dove alla fine si camminava a fatica tra la folla e i suoi cento locali, strapieni di gente allegra, risuonavano di canti e suoni che sono andati avanti sino a notte fonda in una sorta di grande festa collettiva per le strade. Alla mattina, però, malgrado il passaggio di un simile esercito di gaudenti, a parte l'assenza di un qualsiasi segno di vandalismo su vetrine, muri e arredo urbano, non ho visto nemmeno una bottiglia o una lattina per terra, perché lì, se porti un certo numero di vuoti al centro di raccolta ti danno in cambio dei soldi o dei buoni acquisto e quindi a festa finita ci sono tantissimi ragazzi con i borsoni che le vanno a raccogliere. Un altro mondo...
Tornando sull'argomento, premetto che non ho assolutamente nulla contro Halloween, che tra tutte le ricorrenze importate o inventate dalle associazioni di categoria dei pasticceri e delle profumerie/gioiellerie, cioè le varie feste della mamma, del papà, del nonno e fino ai cugini di secondo grado, passando per San Valentino (che non penserai mica di cavartela con una rosa…) è in fondo la più simpatica per quel suo sapore pagano e vagamente horror che l'ha resa ormai diffusa a livello universale, tanto che un novembre di qualche anno fa, durante il suo Erasmus, mio figlio ci deliziò dalle gelide notti lituane di Vilnius (e da quelle più hot delle sue discoteche) postando su Facebook diverse sue immagini nelle vesti di uno zombie tanto lacero e insanguinato, quanto circondato da un sabba di belle streghette. Quando vide quelle immagini truculente del suo pargolo, mia moglie commentò gelida: “Purtroppo ha preso da te...” ed avendo un'eccellente memoria per le mie cavolate giovanili, dovetti pure darle ragione. Così, oggi, ero tentato di riproporre ancora quelle immagini a suo ludibrio ma poi, ricordando Rousseau e il mito del buon selvaggio, ho desistito confidando nelle possibilità di riscatto del giovanotto, che oggi sembra avviato sulla strada della serietà, e ho illustrato il post con alcune mie vecchie foto in bianco e nero di Venezia.
Notte veneziana, fitta di silenzio e mistero. Perfetta per Halloween, ma anche per far risuonare i tamburi di latta di San Martin |
Il fatto è che io questa nuova moda importata non la amo particolarmente perché ricordo ancora con troppa nostalgia i tanti San Martin della mia infanzia (che a sua volta era una tradizione assai pagana e affatto religiosa, come pure lascerebbe intendere il nome). Perché a Venezia il nostro Halloween è stato per secoli l’undici di novembre, quando branchi di ragazzini (tra i quali io) sciamavano di buon mattino per le calli e i campielli coperti da un mantello fatto alla buona da mamme e nonne con dei vecchi canovacci cuciti assieme o dei brandelli di lenzuolo. Il mio mantello era un vecchio asciugamano di lino appartenuto a mia zia, con le frange sugli orli che facevano tanto Davy Crockett e una "F" in carattere gotico ricamata in basso tanto che tutti gli altri bambini erano convinti che mi chiamassi Francesco. L'addobbo completo per San Martin prevedeva di portare appese al collo delle pentole o delle latte vuote da suonare con le bacchette (andavano bene anche i ferri da maglia di quando le mamme nel tempo libero sferruzzavano maglioni anziché giocare a Candy Crush) come dei tamburi e con le quali si andava di negozio in negozio a rompere fragorosamente le balle ai clienti e ai bottegai assordandoli finché ti veniva dato qualcosa, che a volte non erano i dolciumi o le 10 lire ma insinuazioni irriferibili sul mestiere di madri e parenti vari.
Visto che mia nonna si guardava bene dal prestarmi le sacre pentole che si era portata a Venezia fin dal suo Monferrato assieme al tavolo a spianatoia per tirare a mattarello la pasta dei tajarèin e degli agnolotti col plìn, avevo rimediato come tamburo la scatolona gialla dei biscotti “Dolcezze” Lazzaroni debitamente forata sui lati per farvi passare lo spago della tracolla. Come bacchette, nel mio caso, andavano benissimo due vecchi cucchiai in legno. Altri ragazzini come tamburo usavano le confezioni dei Baicoli Colussi o le lattine verdi dell’olio Dante e poi c’era immancabilmente il poverino con il barattolo dei pelati Cirio appeso al collo, che era oggetto dello scherno di tutti. Il mio amico Emanuele, invece, essendo figlio di un ingegnere navale, usava una scatola vuota di biscotti danesi per farci vedere che suo padre girava il mondo. Correva anche voce che nelle calli dalle parti di Frezzeria si aggirasse solitario un invidiatissimo ragazzino con appeso al collo un rugginoso ma vero rullante da batteria, dato che suo padre suonava nell'orchestrina di un night club, però io non l'ho mai visto e ho ancora il dubbio che si trattasse di una delle tante leggende di una città come Venezia che ha praticamente un fantasma o una storia misteriosa per ogni calle, campiello o sottoportico. Per non parlare delle tante leggende lugubri legate alla laguna, come il misterioso e taciturno gondoliere avvolto in un tabarro nero che sbucando dalle notti nebbiose di novembre traghettava gli incauti viaggiatori diretti a Murano direttamente all'isola di San Michele, il cimitero. Io, in tale frangente, consiglierei vivamente di aspettare il vaporetto....
Vecia marantega alla finestra |
Non sempre la questua andava bene, vuoi perché altri gruppi ci avevano preceduto (una volta si fece a botte in campo Santa Maria Formosa con dei bambini di Cannaregio che avevano sconfinato) e vuoi perché, come ho detto, non tutti avevano la pazienza di ascoltare tanto frastuono. Ricordo di essere stato inseguito con la scopa per diverse calli dalla signora Tasca, titolare dell’omonima latteria in Salizada San Lio (quando le bottiglie erano della Centrale del latte, di vetro, con il tappo di stagnola e si riconsegnavano, beh... esistevano le latterie) perché, visto che non voleva saperne di sganciarci le creme da friggere, che però erano buone anche mangiate così, qualcuno del gruppo per rappresaglia le aveva tirato una fialetta “puzza” dentro il negozio. Ricordo anche che il giorno dopo lo disse a mia madre che era andata da lei a prendere il latte e la pasta fresca (aveva la macchina impastatrice nel retrobottega e faceva delle tagliatelle buonissime, senza risparmio di farina e di uova) e quel che ne seguì è facilmente immaginabile.
Le nostre scorribande erano accompagnate da una filastrocca eseguita al rullo dei tamburi, che era piuttosto lunga e della quale ricordo solo alcune strofe per via di questa strana faccenda del santo che andava a trovare in soffitta la sua novizia, non si sapeva a quale scopo di devozione (i parroci davano risposte evasive) e, non avendola trovata, si accasciava deluso con il culo per terra (questa era la strofa che veniva cantata con più convinzione):
San Martin xe andà in soffitta
A trovar la so novizia
La novizia no ghe gera
El xe andà col cuo par tera
El s’a messo in bollettin
Viva Viva San Martin
Viva el nostro re del vin
(dopo la premessa storica, si passava a svelare il motivo della visita)
San Martin ne gà mandà qua
Parchè ne fassa la carità.
Anca lu col ghe n'aveva,
Carità el ghe ne fasseva
Viva viva san Martin
Viva el nostro re del vin!
(di seguito la canzoncina prendeva un tono decisamente più minaccioso)
Fè atension che semo tanti
E gavemo fame tuti quanti
Stè tenti a no darne poco
Perché se no stemo qua un toco!
Se arrivava qualcosa, si cantava sbrigativamente una canzoncina di ringraziamento (sempre che non venissimo garbatamente invitati a... rinunciarvi pur di non sentire ancora tanto strazio sulla porta del negozio). Davanti alla minuscola pasticceria del vecchio Rudatis sul Ponte delle paste, a San Lio, che ci regalava sempre un sacchettino con gli zaletti, gli "ossi da mordere" e i pevarini (sono tipici biscotti secchi veneziani, uno fatto di farina di mais e uvetta, l'altro con mandorle e nocciole e duro da rosicchiare, mentre l’ultimo è profumato con il pepe), la filastrocca la si biascicava con la bocca piena. Lo stesso accadeva nella Calle del forno giù dal ponte quando la signora del panificio Zaffalòn ci regalava delle fettine di castagnaccio appena sfornato e traboccanti d’uvetta e pinoli.
Alla pasticceria Fersuoch a volte ti regalavano i fruttini |
Anche la vecchissima e rinomata pasticceria Fersuoch in Campo San Giovanni e Paolo (non dico San Zanipolo, altrimenti capiscono dov'è solo i veneziani) insistendo un pochino qualche biscottino lo sganciava e se c'era il banconiere più anziano a volte arrivava anche una manciata di fruttini misti da dividersi tra tutti e senza litigare. Se invece non ci veniva data alcuna ricompensa, a parte la faccenda delle fialette puzzolenti o delle miccette (i petardini che si comperavano in cartoleria a venti lire per cinque pezzi) gettate nelle cassette delle lettere, allora si lanciavano veri e propri anatemi biblici contro quegli spilorci. Maledizioni possenti e corali come:
Tanti ciodi ghe in sta porta
Tanti diavoli che ve porta
Tanti ciodi ghe in sto muro
Tanti bruschi ve vegna sul cuo
Anche la faccenda dei foruncoli (i bruschi) che dovevano spuntare copiosi sulle terga del taccagno di turno veniva cantata con molta passione. Alla sera, si tornava a casa felici, infreddoliti e senza appetito, con le mamme che ti aspettavano con i quaderni spalancati sul tavolo della cucina per fare i compiti per casa.
le nostre dolcissime "vecie maranteghe" veneziane "col sial e il cocon, che le mor confessàe disendo le orassiòn" come cantava Alberto d'Amico. |
Peccato solo che, non presentando alcuna attrattiva per il merchandising (a parte i costosissimi cavallucci di pasta frolla e i medaglioni di mela cotogna di cui in questi giorni trabocca ogni pasticceria e panificio veneziano, assieme alle “favette dei morti” da mangiare in questo periodo) e al massimo solo per i bechèri (i macellai) per via del proverbio: "Chi nol magna l'oca a San Martin, nol fa un beco de un quatrìn" , il povero San Martin sia stato ormai quasi dimenticato e relegato tra i ricordi della mia generazione. Del resto, immagino sappiate perfettamente quanto costino i costumi per Halloween, le maschere, i trucchi e perfino le zucche, da quelle reali di coltivazione biologica da scavare per ore in cucina maledicendo il mondo senza farsi sentire dai bambini a quelle di plastica con la lucina elettrica e la musichetta macabra incorporate. Non producendo fatturati di sorta, e accontentandosi di un mantello fatto di stracci e di un tamburo fatto con le pentole, il povero San Martino, avrà anche fatto i miracoli, ma non poteva pensare di vincere la competizione globale e ora galoppa solitario nelle praterie celesti dei nostri ricordi. Panta rei…
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