Un po' perché la cosa mi diverte e mi rilassa e anche perché la vivo come una sfida personale al problema di salute che mi limita pesantemente in quel che posso mangiare con particolare riguardo agli affetti più cari (salumi e formaggi) da qualche tempo ho ripreso a darmi da fare ai fornelli per preparare piatti di varia difficoltà che, come la mia trippa al sugo con polenta, ormai posso solo assaggiare (una forchettata, ma poi basta) ma comunque so che a mangiarla ci penseranno mia moglie o mia suocera, che ne va matta e a volte mi chiede se gliela preparo. Tra i piatti insoliti che cucino per diletto e che mi riescono bene c'è anche una ricetta indiana come il pollo alla crema di latte con il curry e purea di ceci con curcuma e zenzero fresco che ho imparato curiosamente a fare in quel di Torino e a suo tempo ho raccontato chi me l'avesse insegnata e in quali circostanze. Il racconto lo avevo postato cinque anni fa su Splinder e immagino che quasi nessuno dei lettori attuali lo abbia letto, anche perché molti di loro sono giunti da poco tra i miei amici, quindi, dopo averlo accorciato e sfrondato di qualche parte troppo "datata" lo posto sul mio nuovo blog sperando che vi possiate divertire a leggerlo, come avevano fatto i miei lettori di allora…
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I tre colpetti leggeri seguiti da uno più deciso sulla porta del mio ufficio mi fecero trasalire perché sapevo benissimo chi ne fosse l’autrice. Era la signora Mò, (con l’accento marcato sulla ò, perché ci teneva). Una donnina secca e sottile e di età indefinibile (qualcuno tra gli anziani raccontava che la Mò fosse così anche a vent'anni, quando si diceva che l'avesse selezionata addirittura Valletta), taciturna e incapace di un sorriso, oltre che d’indossare qualcosa che non fosse un golfino di color sbiadito su gonna grigia. Dunque, non poteva che essere la segretaria fedelissima del mio Grande Capo. Il suo bussare alla mia porta significava una cosa soltanto: l’arrivo di una grana devastante di livello tre. Infatti, le grane nella nostra prassi aziendale si classificavano su tre livelli in base al tipo di convocazione. Se ti chiamava direttamente il Dottore al telefono (può venire da me un momento?) di solito era una cosa semplice, del tipo: “Può fermarsi stasera anche dopo cena per prepararmi un discorso da dieci cartelle con un cinque o sei slide per il convegno di domani?” (sì, certo, tanto ho ancora una scatoletta di sgombro sott’olio nella dispensa e due panini raffermi di ieri), o una cazziata leggera del tipo “in questo articolo mi ha scritto: miglioramento continuo e non: continuous improvement” (che poi sarebbe lo stesso, ma fa più managerialese), magari talvolta anche un complimento (raro). Insomma: nulla di cui preoccuparsi.
Se la convocazione telefonica invece era fatta dalla Mò (può venire un momento dal Dottore?) la grana minacciava di essere più consistente, tipo una cazziata immane come quando nel filmato di presentazione della nostra Società che avevo prodotto in quattro lingue (costato 10 milioni del vecchio conio), s’intravvedeva per un decimo di secondo e in uno spezzone di repertorio, l’ex Amministratore Delegato caduto in disgrazia.
Se, infine, la signora Mò veniva a prenderti di persona con l’aria di una sentenza di morte, allora la faccenda era gravissima. Infatti, la presenza della signora Mò alla porta era da interpretare come l’accompagnamento coatto dei carabinieri, per evitare che potessi darti alla fuga per i corridoi (ho sempre sospettato che in tal caso avesse l’ordine di spararti alle gambe). La seguii rassegnato ma a testa alta, come un eroe risorgimentale verso il plotone d’esecuzione. Una volta entrato nella stanza del Grande Capo vidi che in piedi davanti alla sua scrivania vi erano già la direttrice del personale e il mio collega delle relazioni esterne. Tutti e due pallidi e con l’aria preoccupata.
Come il Capo mi vide al suo cospetto, chiese a bruciapelo: “Lei sa dell’India, vero?”.
“Si…certo… da ragazzo ho letto Kipling”
“Prego?”
I miei due colleghi mi guardarono inorriditi, temendo seriamente per me. Invece, il Dottore, dopo un silenzio e un sorrisetto fuggevole mi fece cenno di sedere.
“Bene! Prima che mi citi anche Salgari, dovrei ricordarle che non le pago uno stipendio per fare lo spiritoso, ma visto che lei, al contrario di questi due cagadubbi, almeno la prende sul ridere, da questo momento l’organizzazione della cena indiana è affar suo”. I due colleghi, visto che avevo pescato la carta avvelenata si dileguarono alla svelta. Così, rimasto solo con il Grande Capo venni messo al corrente della faccenda che ora incombeva tutta sul mio capo. Ed era una rogna bella grossa.
Nella movimentata vita di un comunicatore aziendale capita anche di dover organizzare pranzi indiani |
Infatti, in previsione della costruzione di un nuovo stabilimento di produzione nel profondo Rajasthan qualcuno in cima al nostro Olimpo aveva avuto la bella idea di organizzare un volo privato da Nuova Delhi a Torino per portare uomini politici, di cultura, sindacalisti e giornalisti indiani a presentare il loro paese ai 150 alti dirigenti della nostra società. L’incontro, da svolgersi in un antico castello sulle colline dell’astigiano, si sarebbe concluso con una bella cena tutta a base di cucina indiana e siccome il cuoco indiano che doveva venire in aereo con il gruppo aveva dato forfait, io ora la dovevo organizzare, rischiando quindi l’osso del collo (e altre nobili parti del mio essere) se qualcosa fosse andato storto e qualcuno degli altezzosi commensali sabaudi avesse storto il naso.
Per prima cosa mi misi disperatamente alla ricerca di un ristorante indiano in Torino, che all’epoca iniziava già a pullulare di ristoranti cinesi, greci e arabi come ogni buona città che si rispetti e già trovarne uno che ti facesse ancora la tofèja (tufèa) canavese con le cotenne di maiale e i fagioli bianchi, gli agnolotti al plìn con il ripieno di brasato o il fritto misto con gli amaretti di Mombaruzzo, i semolini e la cervella come al vecchio San Giòrs di Porta Palazzo era un’impresa. Ma, comunque, di ristoratori indiani, nessuna traccia. O meglio, sulle pagine gialle ce n’erano quattro, ma uno era prevalentemente una pizzeria (e non potevo far servire a 150 persone una pizza tandoori) e in quanto agli altri tre, dopo averli contattati avevo saputo che i cuochi erano o pakistani o del Bangladesh, dunque non era il caso di avviare il rapporto con un incidente diplomatico. Tanto meno, come mi aveva suggerito il mio collega ischitano (un vero talento nell'arte partenopea di arrangiarsi), di spacciare come un ristorante indiano il ristorante thailandese di via Sacchi, dove lui aveva rapporti non meglio precisati con il proprietario, “che tanto geograficamente sono lì vicino, no? E chi vuoi che se ne accorga….”.
Alla fine, quando tutto sembrava perduto perché mancavano solo cinque giorni all'evento e non sapevo dove sbattere la testa, l’aiuto celeste che non ti aspetti si materializzò sotto le sembianze di uno dei nostri commessi, un omino mite di Cerignola che faceva il giro degli uffici per consegnare la posta interna. Quando seppe cosa mi angosciasse, mi raccontò che avevano aperto da poco un ristorante indiano vicino a casa sua, nel quartiere di Nichelino, e che il locale sembrava anche molto pulito e in ordine. Dopo averlo fatto traballare con una pacca sulla spalla e anche arrossire perché la gerarchia aziendale non prevedeva tanta familiarità tra ruoli organizzativi diversi, gli dissi: “Benissimo! Allora domani sera, se non ha altri impegni, lei prende sua moglie e sua figlia, io invito la mia segretaria e suo marito e andiamo tutti assieme a provare il ristorante in incognito, così vediamo se fa al caso nostro. Ovviamente, siete miei ospiti….”
La sera, appena sceso con la mia segretaria e suo marito davanti al ristorante Maharani di Nichelino, invece delle tre persone che dovevano farci compagnia a tavola ne trovai sette perché il mite omino di Cerignola aveva pensato di estendere l’invito anche al fidanzato della figlia e ai suoi futuri consuoceri, oltre che al cognato vedovo da poco, che poverino bisognava tenerlo su di morale. Siccome noblesse oblige non ebbi il coraggio di rivelare loro che la cena non la pagava l’azienda, ma io di tasca mia.
All'ingresso ci accolse con le mani giunte e un inchino riverente una bella signorina olivastra e dai lunghi capelli neri, vestita con uno stupendo sari di seta ricamata e con tanto di velo dorato sulla testa, che ci accompagnò al tavolo. Non ci volle molto per accorgersi che non capiva un tubo d’italiano se non le quattro cose che aveva imparato a memoria. Una nota sul menù informava che il ristorante effettuava ogni settimana un menù degustazione diverso di piatti tradizionali delle varie regioni dell’India e che a noi quella sera sarebbe toccato l’Andhra Pradesh. Prendere o lasciare.
Accettammo di stare al gioco, anche se il marito della segretaria che un po’ ne sapeva perché era abbonato a Focus e conosceva uno dell’Iveco che aveva viaggiato per l’Asia sui camion di Overland, ci mise in guardia contro la birra indiana ricordandoci che l’acqua utilizzata per prepararla poteva provenire o dal Gange o dal Brahmaputra, non proprio il massimo dell’igiene. Anche la birra messicana sul menu fu scartata a furor di popolo perché qualcuno fece presente che Città del Messico era tra le città più inquinate del pianeta e quindi figuriamoci le sue falde acquifere. Alla fine la Peroni familiare ci mise tutti d’accordo.
L’avvio del pranzo fu più che buono, con il pane naan portato caldo in tavola da sbocconcellare (subito una signora proruppe con l’atteso “Guarda! Fanno le piadine anche loro”) e tutta una serie di antipasti a base di ceci, lenticchie e banane fritte o lessate, condite con vari chutney. La signorina in sari ci illustrava premurosamente ogni piatto che portava in tavola con un inchino riverente e ripetendo a memoria e come un disco rotto quello che le avevano insegnato.“Questa essere sfoglia di ceci e lenticchie lessate con zenzero, curry, coriandolo e cardamomo”
Se per caso le chiedevi ulteriori lumi tipo: “Ma viene fritta nel burro chiarificato?” dopo un inchino gentile a mani giunte rispondeva inesorabile: “Questa essere sfoglia di ceci e lenticchie lessate con zenzero curry, coriandolo e cardamomo”. Alla terza volta lasciai perdere.
Ussignùr... cos'è questa cosa enorme che è spuntata sopra la nostra mensa? |
Finiti gli antipasti, tutti gradevolissimi, la ragazza ci disse una cosa che mise a tutti una discreta inquietudine. “Ora assaggerete piatti cucinati con il garam masala del nostro cuoco. Ogni cuoco indiano ha il suo masala segreto di spezie.”
“Scusi, ma il garam masala del vostro cuoco è molto piccante?”
Il volto della ragazza, che quella parola doveva conoscerla, s’illuminò di un sorriso antico e annuì “Sì piccante … peperoncino di Andhra Pradesh è migliore di India”.
Il marito della nostra segretaria, che era di Crotone, fece spallucce e poi ci disse “Questi neanche conoscono il peperoncino calabrese di Soverato. Voglio proprio vedere…”
La ragazza fu di parola e il peperoncino dell’ Andhra Pradesh si disvelò in tutta la sua geometrica potenza. Iniziò, infatti, un crescendo rossiniano di piatti di rara piccantezza che alla fine donarono a tutti la cosiddetta lingua di bue, gonfia e tumefatta. Compreso il nostro commensale calabrese che cercava di farsi vedere disinvolto, ma si capiva che era in difficoltà respiratoria anche se non voleva ammetterlo per via del peperoncino di Soverato da conservare patriotticamente al primo posto
Durante una pausa del pranzo l'omino mite di Cerignola, ormai paonazzo in viso, mi si rivolse con lo sguardo del marinaio che implora una parola di speranza dal suo comandante mentre la nave è in balìa della tempesta.
“Scusi ingegnere…” (non sono ingegnere, ma chiunque fosse laureato in qualsiasi cosa nella nostra società veniva chiamato così per default, e, d'altronde essendo io laureato in giurisprudenza scontavo il fatto che il termine “Avvocato” fosse già occupato) secondo lei, che conosce la cucina indiana, abbiamo finito con il piccante?”.
“Si… credo che questa pausa nell'arrivo dei piatti sia il segnale che ora stanno per portarci i dolci… quelli non dovrebbero essere piccanti. Almeno lo spero, al massimo li possono fare flambè”.
Non feci tempo a dirlo che la ragazza posò in centro alla tavola una zuppiera che conteneva una specie di spezzatino, solo che il sugo era dello stesso colore rosso intenso dei giubbini dell’ANAS. Lo sgomento per quell'ulteriore intingolo inquietante ci strappò un collettivo: “Oh cazzo!”, ma la signorina in sari con un inchino a mani giunte ci spiegò sorridendo dolcemente “No cazzo… è agnello”.
La cena proseguì fino alla fine con le lacrime agli occhi di tutti per il piccante e per l’equivoco sul contenuto dello spezzatino e con la signorina che, offesa dal nostro scoppio di risa di cui non aveva capito il motivo, ora non sorrideva più, tanto da portarci il conto (piccantino anche lui) sbrigativamente. Alla fine, sul marciapiede fuori dal ristorante, ci fu un veloce giro di opinioni sul da farsi. Non avendo ormai molte alternative, le ipotesi in ballo restavano tre:
1- fare il contratto al ristorante per la cena nel castello, ma chiedendo garanzie sul livello di piccantezza e con divieto assoluto di uso del peperoncino dell’Andhra Pradesh (bastava quello di Soverato)
2- fare il contratto al ristorante, ma assecondando il mio mai sopito spirito sessantottino (colpire il sistema dal cuore del sistema) non dare alcuna istruzione al cuoco e lasciare inalterato il livello di piccante (anzi, chiedergli di alzarlo), in modo da avere al lunedì successivo alla cena l’intero gruppo dirigente della società falcidiato da ulcere, gastriti e violente crisi emorroidarie (queste ultime soprattutto).
3- chiedere al mio collega ischitano come intendesse far passare la cucina del suo ristorante thailandese per indiana.
Alla fine, mi feci coraggio e scelsi la prima, essendo le altre due ipotesi suggestive ma ad alto rischio per quanto riguardava il proseguimento della mia vita lavorativa in quella società. Tornai dentro il locale e visto che, rispetto alla ragazza in sari, la cassiera sembrava capire almeno l’inglese, le chiesi di farmi parlare con il cuoco, che era anche il proprietario del locale.
Accompagnato sulla porta della cucina mi trovai di fronte un omone, alto e baffuto, tutt’altro che olivastro, con i capelli tenuti assieme a codino con un elastico e il grembiule variamente macchiato. Dietro di lui scorgevo tre ragazzotti sicuramente asiatici in camice bianco e indaffarati tra le pentole. La cassiera gli spiegò sommariamente il perché del mio ingresso in cucina. Lui, dopo averla strofinata sul grembiule, mi porse cordiale la mano che profumava dello zenzero fresco che stava sminuzzando. Ricambiato il sorriso, andai subito al sodo.
“Must I speak english or you understand italian?”
“Che te pijasse un gòrbu! Sono di Macerata, mò voglio anche vedere che ti devo parlare inglese…”
Così feci subito amicizia con Alcide, eccellente cuoco marchigiano che dopo una vita nomade per mezzo mondo, si era fermato quindici anni a Bangalore dove aveva percorso tutti i gradi all’interno delle cucine dell’Hotel Richmond, da sguattero fino a capo cuoco, imparando tutti i segreti della cucina indiana. Gli spiegai di cosa avessi bisogno, lo istruii debitamente sul tipo di cibi e di piccante auspicabili e così la cena di gala fu un successone, con tanto di applauso finale al cuoco e al suo staff.
Il lunedì seguente, di prima mattina, il mio Grande Capo, m’incrociò nel corridoio e dopo avermi squadrato severo e in un silenzio da far temere il peggio, allargò le braccia sconsolato e mi disse “Solo lei poteva portarmi un indiano di Macerata… comunque, è stato bravo… intendo il cuoco, naturalmente”
“Quindi, io no?”
“Sì è stato bravo, ma lei lo deve essere per forza, altrimenti non lavorerebbe più con me”
Anche se sapevo bene che per il suo modo ruvido di fare dei complimenti, quello era il massimo, comunque ne restai piuttosto deluso. In fondo aveva fatto una bella figura senza muovere un dito e grazie a me, dunque un minimo di riconoscenza me lo sarei aspettato.
Il venerdì mattina seguente, alle nove in punto, sentii bussare nuovamente la signora Mò alla porta del mio ufficio per accompagnarmi al cospetto del Grande Capo. Nel breve tragitto sotto scorta immaginai che qualcuno dei direttori megagalattici non fosse sopravvissuto al pollo tandoori con purea di ceci e lenticchie al curry e ne ebbi paura. Invece, come mi affacciai nel suo studio, il Grande Capo dapprima mi guardò corrucciato, poi sorridendo mi disse “Cosa fa ancora qui? Non ha una moglie e un bambino piccolo che l’aspettano a Venezia? Corra a prendere il treno che non voglio più averla tra le balle sino a lunedì e faccia alla svelta prima che ci ripensi”.
Lo presi in parola (e, inventandomi che ne avevo il permesso, gli fregai anche la macchina blu con l’autista, che altrimenti con il cavolo che prendevo l’intercity delle 9 e 40).
Certo che ritrovarsi nell'Astigiano a organizzare un pranzo indiano..........!!!!
RispondiEliminaL'unica volta in cui ho avuto occasione di pranzare in quelle zone, è stato giusto in una specie di castello dove scoprii, con gran meraviglia, che con il numero e l'abbondanza e la varietà dei soli antipasti, avrei potuto coprire le intere Feste di
Natale...
Eravamo in compagnia e uno degli amici era originario del posto.
Tutti gli altri erano guà stati lì in altre occasioni, io e il marito eravamo allibiti!!
Ricordo dei fritti incredibili, del fegato a straccetti ...Bypassai il secondo, perché non ce la facevo più!!
Comunque divertentissimo !
Il nome Maharani mi ha fatto fare un sobbalzo: era dai tempi del Monello che non lo leggevo....!! ;-) ;-) ;-)